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Introduzione
Ormai da tempo le teorie psicolinguistiche e pedagogiche hanno
evidenziato il fatto che la mente dei bambini fino agli 11/12 anni è
caratterizzata da un estrema plasticità, perché in questo periodo
l‟emisfero destro del cervello ha la capacità di assumere anche le
funzioni dell‟emisfero sinistro. Per questo si pensa che questo sia il
periodo migliore per apprendere una o più lingue straniere. Dopo questa
fase è sempre possibile apprendere un‟altra lingua, ma ciò avviene
secondo modalità diverse perché, a questo punto, le interferenze dalla
lingua madre possono rallentare il processo di apprendimento. Quindi, in
una realtà come quella attuale, in cui i contatti internazionali si fanno
sempre più fitti, lo studio di una lingua straniera a partire dalla scuola
materna è diventata sempre più una necessità, sia perché si vuole
sfruttare questa plasticità delle menti dei bambini, e sia perché, in questo
modo, viene favorita l‟apertura alla diversità e alla multiculturalità.
È stata scelta l‟inglese come lingua di insegnamento perché oggi
essa ha acquisito lo status di lingua franca, sia nella rete di internet che
nell‟economia internazionale. Quindi nel mondo del lavoro è diventato
indispensabile conoscere questa lingua.
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Purtroppo però in molte scuole, le capacità di apprendimento dei
bambini non vengono sfruttate in maniera adeguata. Si pensa infatti che
certi concetti siano troppo difficili per loro e quindi la lezione di inglese
si volge in lingua madre, altrimenti non capirebbero, e si limita
all‟insegnamento di qualche parola, qualche canzone o filastrocca.
Naturalmente se è questo che si offre loro, i bambini impareranno solo
questo, ma possono fare molto di più; i bambini infatti hanno una grande
capacità di apprendere una lingua straniera e l‟insegnante deve saper
sfruttare questa loro capacità. Verrà mostrato in questa tesi in che modo è
possibile sfruttare al meglio le capacità di apprendimento dei bambini e
quali sono le tecniche didattiche che possono aiutarli nel processo di
apprendimento della lingua. Particolare importanza verrà data alla
didattica ludica e alla tecnica della narrazione, che viene chiamata anche
storytelling, che mantengono alta la motivazione negli apprendenti,
riducendo allo stesso tempo il livello di stress.
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PARTE PRIMA
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Capitolo 1
Teorie sull’apprendimento
della L1 e della L2
1.1 L‟apprendimento della L1
Nel corso degli anni, gli studiosi hanno elaborato diverse teorie
sull‟acquisizione della lingua madre. Nei sottoparagrafi che seguono
verranno analizzate le teorie più importanti: l‟ipotesi comportamentista
che considera l‟apprendimento linguistico come imitazione di abitudini,
l‟ipotesi innatista secondo cui il linguaggio è una funzione innata del
nostro cervello e l‟insegnamento innesca soltanto ciò che è già proprio
della mente, e l‟ipotesi costruttivista che considera l‟interazione tra
ambiente linguistico e predisposizioni innate. Tutte queste teorie sono
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state criticate, tuttavia è utile accennarle sia perché i processi di
apprendimento della prima e della seconda lingua sono molto simili
(soprattutto nei bambini), sia perché hanno influenzato i principali
metodi di insegnamento della seconda lingua.
1.1.1 L‟ipotesi comportamentista
Si basa sulle teorie elaborate negli anni cinquanta da Burrhus
Frederic Skinner che, ispirandosi agli studi di Bloomfield, affermava che
l‟apprendimento del linguaggio avviene attraverso l‟imitazione. Secondo
questa teoria i momenti chiave dell‟apprendimento linguistico sono: 1.
Stimolo, 2. Risposta, 3. Rinforzo. In pratica secondo questa ipotesi, il
bambino impara la lingua madre attraverso l‟imitazione di determinati
comportamenti abitudinari che vengono definiti routine.
Skinner tuttavia non considera il ruolo dell‟errore: molto spesso
infatti l‟errore nasce dal fatto che i bambini fanno delle ipotesi sulla
struttura del linguaggio. Scrive a tal proposito De Marco: “Quando
Matteo (4 anni) produce «stai attento a non piedarlo» con il significato di
«poggiare il piede su qualcosa»… mostra chiaramente di aver scoperto le
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regole di derivazione”, in questo caso “la trasformazione di un nome in
un verbo”
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.
Il limite della teoria comportamentista è che non viene considerato
l‟aspetto produttivo e creativo del linguaggio: l‟apprendente ha un ruolo
passivo e si limita ad attendere un rinforzo da parte di chi fornisce l‟input
e l‟errore viene considerato semplicemente come una risposta negativa
ad uno stimolo.
La teoria comportamentista pertanto non è sufficiente a spiegare il
processo di apprendimento.
1.1.2 L‟ipotesi innatista
L‟ipotesi innatista nasce dalle teorie di Chomsky in
contrapposizione all‟ipotesi comportamentista. Nel 1959 Chomsky
pubblica una recensione al libro di Skinner Verbal behavior, in cui fa una
critica esplicita al comportamentismo. Secondo Chomsky infatti gli
uomini non apprendono il linguaggio mediante imitazione, bensì sono
geneticamente programmati per il linguaggio, che si sviluppa
parallelamente alle altre funzioni del nostro corpo. Niente quindi viene
realmente appreso, ma l‟esperienza innesca ciò che è già proprio della
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A. De Marco, Manuale di glottodidattica, Roma 2000, p. 27.
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mente. Chomsky sostiene che l‟acquisizione del linguaggio si basa sul
cosiddetto LAD (Language Acquisition Device) ovvero un dispositivo di
acquisizione che ha come base una Grammatica Universale (GU) che è
innata ed è formata da principi e parametri. I principi sono innati e
comuni a tutte le lingue, per cui il bambino deve solamente apprendere i
parametri, che sono la realizzazione dei principi.
Sebbene questa teoria rivaluti il ruolo creativo e produttivo
dell‟apprendente, non spiega tutto ciò che avviene nel percorso di
apprendimento e non tiene conto degli errori e delle ipotesi che il
bambino formula sulla lingua che sta apprendendo.
1.1.3 L‟ipotesi costruttivista
Secondo quest‟ultima ipotesi infine, lo sviluppo delle capacità
linguistiche si basa sull‟interazione tra l‟ambiente linguistico e la
predisposizione innata del bambino. In questo caso l‟input che il
bambino riceve diventa essenziale. Tuttavia l‟input non sarà casuale
come quello proveniente dalla televisione per esempio, perché in questo
caso il bambino non sarebbe in grado di scoprirne la struttura. L‟input
che il bambino analizza, è proprio quello che è rivolto a lui, nelle routine
quotidiane come i pasti, il bagnetto ecc.
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Si parla infatti di motherese o baby talk per descrivere quella
varietà di linguaggio usato dalla madre (o da chi ne fa le veci) con il
bambino. Si tratta infatti di un linguaggio semplificato a più livelli; per
esempio dal punto di vista fonologico, si può notare che l‟adulto che si
rivolge al bambino di solito parla più lentamente e tende a scandire bene
le parole. Per quanto riguarda la sintassi, vengono usate frasi brevi con
poche subordinate, molti imperativi e domande. A livello semantico si
può notare l‟uso di un lessico ristretto e legato a situazioni concrete.
Alla base di questa teoria c‟è l‟ipotesi di Slobin (1973) che ha
individuato i principi che guidano il bambino nell‟acquisizione del
linguaggio; per esempio il principio secondo cui i bambini prestano
maggiore attenzione alla fine delle parole. Ad esempio secondo questo
principio, i suffissi vengono acquisiti prima dei prefissi.
L‟ipotesi costruttivista, quindi, tiene conto delle differenze delle
strategie cognitive dei bambini. Questi ultimi infatti non apprendono tutti
allo stesso modo perché utilizzano delle strategie cognitive differenti. Le
strutture del linguaggio, quindi, non dipendono direttamente o
indirettamente dal patrimonio linguistico, ma dalla combinazione tra
patrimonio linguistico e input filtrati dalle abilità cognitive. In questo
modo si spiegano sia le differenze tra i parlanti sia gli errori.
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1.2 L‟apprendimento della L2
Negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta le teorie
comportamentiste spingevano gli studiosi a considerare l‟apprendimento
linguistico come l‟apprendimento di nuove abitudini, e questo valeva sia
per la L1 che per la L2. Gli apprendenti dovevano quindi cercare di
imitare alla perfezione la madre (nel caso della L1) e l‟insegnante (nel
caso della L2) per guadagnarsi la loro approvazione. In questo periodo
veniva effettuata la cosiddetta analisi contrastiva
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, per cercare di
individuare quali erano gli elementi della L1 che interferivano con
l‟apprendimento della nuova lingua, focalizzarvi maggiormente
l‟attenzione, ed evitare quindi i fastidiosi errori da parte
dell‟apprendente.
Nel 1967 Pit Corder nel saggio “The significance of learners‟
errors” mosse una critica a questi metodi. Egli sosteneva infatti che gli
errori prodotti dagli studenti non derivassero dalle abitudini della L1, ma
che questi fossero una testimonianza della formazione di un sistema
linguistico provvisorio (quello che poi verrà chiamato interlingua da
Selinker, 1972).
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L’analisi contrastiva consiste nel confrontare la lingua madre dell’apprendente con la L2, al
fine di individuare le relazioni tra le due lingue.