Walter Benjamin, filosofo e scrittore tedesco
(Charlottenburg 1892 – Portbou 1940), riconobbe
alla traduzione un particolare interesse,
riconoscendo in essa un genere intermedio tra la
creazione letteraria e la speculazione filosofica.
Benjamin sostenne che
la traduzione non si trova come l’opera poetica, per così
dire, all’interno della foresta del linguaggio, ma al di fuori
di essa, dirimpetto ad essa, e senza porvi piede, vi fa
entrare l’originale, e ciò in quel solo punto dove l’eco nella
propria lingua può rispondere all’opera della lingua
straniera.
In italiano il termine “compito” non rende
l’importanza e il senso dell’investitura che
Benjamin dà al traduttore, cioè quella di una
missione divina, di un compito messianico, che
traspare in maniera più nitida dall’originale
termine tedesco Aufgabe.
Se la riflessione sulla traduzione si è rivelata
millenaria, così come la traduzione in sé, la figura
del traduttore ha vissuto attraverso i secoli una
condizione ambivalente.
Da una parte è largamente riconosciuto il
valore di un compito arduo e nobile, che permette
di “condurre attraverso” (dal latino, traducere
navem) la conoscenza umana di tempi e luoghi
remoti, evitando che essa resti confinata
all’interno della propria cultura di origine
(“d’altronde, come è ben noto, le culture
ricorrono alla traduzione come mezzo possibile
per colmare i loro vuoti”).
Per dirla con le parole di Italo Calvino:
Il singolare genio del traduttore risiede nella capacità di
saper comprendere le peculiarità stilistiche dell’autore da
tradurre, e del saperne proporre equivalenti italiani in una
prosa che si legga come fosse stata pensata e scritta
direttamente in italiano. Insieme alle doti tecniche, si
fanno più rare le doti morali: l’accanimento necessario per
concentrarsi a scavare mesi e mesi sempre dentro quel
tunnel con uno scrupolo che ogni momento è sul punto
d’allentarsi, con una facoltà di discernere che ogni
momento è sul punto di deformarsi… con quel rovello di
perfezione che deve diventare una sorta di metodica
follia… da qualsiasi lingua e in qualsiasi lingua si traduca,
occorre non solo conoscere la lingua ma sapere entrare in
contatto con lo spirito della lingua, lo spirito delle due
lingue, sapere come le due lingue possono trasmettersi la
loro essenza segreta.
Comunque semiotica, antropologia culturale e
filosofia possano risolvere questi problemi, un
traduttore se li ritrova sempre di fronte e nel
risolverli di solito non si pone problemi ontologici,
metafisici o etici. Si limita a porre delle lingue a
confronto e a negoziare delle soluzioni che non
offendano il buon senso. Un traduttore, anziché
porsi problemi ontologici e vagheggiare di lingue
perfette, esercita un ragionevole poliglottismo,
perché sa già che in un’altra lingua quella stessa
cosa si dice in un modo preciso, e si comporta
d’istinto, come farebbe un bilingue.
Tradurre significa sempre rinunciare ad alcune
delle conseguenze che il testo originale implica.
In questo senso, traducendo, “non si dice mai la
stessa cosa”.
La questione dello svuotamento della lingua e
della creazione di un’interlingua alienante
attraversava la mente di molti.
Nel marzo del 1965 La Fiera Letteraria pubblicò
le considerazioni in merito di Edoardo Sanguineti,
scrittore e poeta italiano (Genova 1930):
I linguaggi tecnico scientifici implicano un doppio
movimento…: ’pluralità – unificazione’. Il loro affermarsi
esprime, a livello della lingua, la diffusione dell’alienazione
specialistica nel tessuto della società: quanto più ci
dividiamo nella specializzazione, tanto più ci uniamo
nell’alienazione. Possiamo dire che, al limite, non avremo
soltanto dei gerghi tecnico- scientifici (come molti già ne
esistevano) ma veri e propri ’codici corporativi’. In una
efficiente società dei consumi, o dello spreco, realizzato
sino in fondo, è probabile che l’intera lingua abbia a
dissolversi in siffatti codici. Quest’ipotesi fantalinguistica è
condizionata, naturalmente, a un’ipotesi fantasociologica:
che è il dissolversi dello stesso tessuto sociale nella
pienezza dell’alienazione.
Nel mercato odierno della traduzione, il volume
dei testi tecnico-scientifici ha raggiunto dei valori
di grande rilievo, il che non sorprende visti i ritmi
imposti dal progresso della scienza e della
tecnica, oltre alla vitale importanza che hanno la
comunicazione e l’interscambio di informazioni. I
traduttori e gli interpreti specializzati vivono la
professione in una condizione non lontana da
quella prospettata dal dibattito degli anni
Sessanta.
Condizione non semplice perché coinvolge non
solo la sfera professionale ma anche quella
esistenziale e, sovente, ad una grande
responsabilità spesso non corrispondono né
prestigio né potere.
L’idea che basti conoscere una lingua straniera
per essere automaticamente un traduttore è
ancora molto diffusa.
Quella del traduttore non è una professione
riconosciuta ufficialmente in Europa e non gode di
un’immagine popolare. I traduttori specializzati,
poi, sono visti di norma come un male inevitabile
(o sono del tutto ignorati) poiché la maggioranza
dei documenti che traducono sono soltanto a uso
interno e quindi non vengono pubblicati. La loro
professione è per giunta considerata poco
allettante perché non conferisce né prestigio né
potere, benché il riconoscimento ufficiale e la
protezione del titolo di traduttore sia comunque
uno degli obiettivi principali delle associazioni di
categoria del mondo.
Il lavoro, la professione, costituiscono un
formidabile contenitore e strumento di definizione
della propria identità personale.
Essa rischia continuamente di essere posta in
discussione sia dalle odierne grandi
problematiche sociali (flessibilità, lavori part-time
o a termine) sia dal distacco dalle relazioni
interpersonali, da una cooperazione superficiale e
da una competizione spinta che affossano valori
etici di lealtà e solidarietà.
La questione etica legata alla responsabilità del
traduttore è lungi dal non essere controversa, a
parte l’ovvia serietà professionale che comporta il
saper rifiutare commesse che il traduttore sa di
non avere la competenza specialistica oppure il
tempo sufficiente di portare a compimento. Oltre
agli aspetti prettamente linguistici e
traduttologici, è decisiva la lealtà nei rapporti
intercorrenti tra il traduttore e gli altri
partecipanti alla comunicazione, ossia l’emittente,
il destinatario e il committente. Una
collaborazione efficace con i partecipanti al
contesto sociale della traduzione contribuisce a
migliorare la qualità del prodotto finito e tramite il
rapporto di fiducia che ne scaturisce, anche le
quotazioni professionali del traduttore crescono.
Perciò, parte della vita professionale del
traduttore va dedicata alla cura dei rapporti
interpersonali sia con gli autori sia con i
committenti dei testi da tradurre. Per quanto
eccessiva e scomoda possa sembrare quest’enfasi
sul ruolo del committente, non c’è dubbio che,
almeno in alcuni casi, gli obiettivi del
committente hanno un’influenza decisiva sulle
scelte del traduttore:
La traduzione non è qualcosa che si può prendere e
mandare in tipografia; il lavoro dell’editor è nascosto, ma
quando c’è dà i suoi frutti. Naturalmente ci sono anche dei
casi in cui l’editor guasta il lavoro ben fatto del traduttore;
ma io credo che il traduttore per bravo che sia, anzi
proprio quando è bravo, ha bisogno che il suo lavoro sia
valutato frase per frase da qualcuno che confronta testo
originale e traduzione e può nel caso discutere con lui.
Nella realtà del mercato la valutazione della
qualità in traduzione non avviene in termini
esclusivamente linguistici e testuali, ma dipende
anche da una varietà di fattori di ordine sociale e
situazionale tra cui figurano vincoli di natura
sociopolitica e ideologica e fattori economici
relativi ai tempi e ai costi di esecuzione. Ciascuno
dei partecipanti alla comunicazione ha quindi un
proprio particolare punto di vista sulla qualità
della traduzione, che può essere in conflitto con
quella degli altri, a seconda dei bisogni specifici e
delle motivazioni diverse con cui essi vi si
accostano.
Tuttavia, occorre rilevare l’esistenza di criteri
universali di qualità traduttiva quali l’accuratezza
e la fruibilità. Ma nella realtà del mercato,
l’oggetto di valutazione non è tanto la qualità di
una singola traduzione quanto la capacità del
traduttore di produrre una determinata quantità
di materiale di un dato livello qualitativo in un
certo periodo (molto limitato) di tempo. In un
ambiente professionale, nella valutazione di un
traduttore intervengono inevitabilmente criteri
come velocità e costi di esecuzione che vanno ad
accostarsi a quelli ideali identificati al livello
linguistico testuale, spesso scavalcandoli:
Più che mai oggi è dunque sentita la necessità d’una
critica che entri nel merito della traduzione. Che questo
tipo di critica cominci a entrare nell’uso, dunque, siamo in
molti a compiacercene, e a seguirla con interesse. E nello
stesso tempo a raccomandarle una responsabilità tecnica
assoluta. Perché se questo senso di responsabilità manca,
non si fa che aumentare la confusione, e si provoca nei
traduttori uno scoraggiamento che si trasforma subito in
pis aller, in abbassamento del livello generale. I traduttori
hanno ragione di lagnarsi: un autore gode sempre di una
molteplicità di giudizi, se trova il critico che lo stronca, ci
sarà sempre quello che lo difende; invece per il lavoro dei
traduttori i giudizi della critica sono tanto rari da diventare
inappellabili, e se uno scrive che una traduzione è cattiva il
giudizio entra in circolazione e tutti lo ripetono.
All’interno delle dinamiche della mediazione, il
ruolo del traduttore non dovrebbe essere mai
quello di un partecipante passivo o neutrale ma
quello di consulente attivo che soddisfi nel modo
migliore le aspettative dei destinatari, raggiunga
il risultato che il committente desidera ottenere o,
a un livello più alto, agevoli la comunicazione tra
culture diverse e migliori lo sviluppo delle
relazioni interculturali tra i partecipanti alla
situazione comunicativa.
In tal senso, sono imprescindibili sentimenti di
autoconsapevolezza e autostima necessari a
saper controbattere in modo efficace le
indicazioni del committente in caso di conflitto di
opinioni o di dissenso dai contenuti del testo
commissionato.
Oggi, rispetto anche a soli dieci anni fa, esiste
un miglioramento della vita e dello status
professionale del traduttore, in passato talvolta
umilianti. Ciò grazie alla rivoluzione digitale che
ha consentito l’aumento della capacità di
memorizzazione dei dati e ha facilitato sia
l’accesso all’informazione sia il mutuo scambio di
conoscenze tra colleghi, contribuendo così a
migliorare la produzione dei traduttori in termini
di qualità, velocità ed efficienza.
Il vantaggio di lavorare in équipe è grande
perché, a parte le specializzazioni, le lingue di
lavoro e, ovviamente, i clienti, è possibile
condividere anche gli investimenti per l'acquisto e
l'aggiornamento dei supporti tecnologici o per la
formazione. Oltre agli ovvi vantaggi che la
collaborazione comporta in termini di
velocizzazione del lavoro di ricerca terminologica,
il lavoro di équipe può essere molto più
stimolante e meno alienante della libera
professione, dove si lavora in costante isolamento
senza potersi confrontare con i colleghi su
problemi di comune interesse.
L’informatica continua a produrre strumenti che
possono facilitare la comunicazione pur senza
sostituirsi ai traduttori umani, ma in congiunzione
con essi e con funzioni differenziate. Per i
traduttori professionisti, l’avvalersi di software
per la traduzione assistita (come le memorie
traduttive) e il consociarsi in mailing list
rappresentano realtà consolidate e la conoscenza
degli strumenti informatici è una competenza
fondamentale che ha cambiato abitudini e
modalità di lavoro, contribuendo anche alla
creazione di nuovi profili professionali, come
quello di terminologo (specialista che raccoglie la
terminologia di settori specialistici diffondendola
attraverso l'elaborazione di glossari) o di post
editor (figura che individua eventuali problemi
all’interno del testo di arrivo successivamente alla
traduzione).
In fase di revisione, nella traduzione
specializzata, risulta necessario l’intervento di un
esperto dello specifico settore disciplinare su cui
verte la traduzione, soprattutto se il traduttore
non ne è un profondo conoscitore.