I
PREMESSA
Whatever its causes, the multilingual condition invites or
compels a certain percentage of mankind to speak more than one
language. It also means that the exchanges of information, of
verbalized messages on which history and the life of society
depend, are in very large part interlingual. They demand
translation. The polyglot situation and the requirements which
follow from it depend totally on the fact that the human mind
has the capacity to learn and to house more than one tongue.
There is nothing obvious, nothing organically necessitated about
this capacity. It is a startling and complex attribute.
- George Steiner, 1975 -
Proprio come per George Steiner, il mistero e la complessità della varietà
linguistica umana hanno sempre esercitato un grande fascino anche su di me, tanto
da spingermi a intraprendere un percorso formativo che potesse ampliare le mie
conoscenze in questo campo e che mi permettesse di portare avanti in maniera più
consapevole e concreta questa passione. Da questo particolare interesse è poi nato il
desiderio di capire come i codici linguistici che noi usiamo e la loro evoluzione nel
tempo siano strettamente legati alla nostra cultura, al modo in cui percepiamo la
realtà e la rappresentiamo, per mezzo delle parole.
Soprattutto nel mondo odierno, dominato dalle spinte alla globalizzazione e alla
comunicazione tra paesi con culture e lingue differenti, spesso molto lontane tra
loro, è più che mai importante la conoscenza e la comprensione reciproca: in questo
contesto, la traduzione si pone, quindi, ancora una volta, come risorsa
imprescindibile e necessità fondamentale.
Numerose, negli ultimi anni, sono state le ricerche dedicate a questo tema di
studio vasto e complesso, dalle origini assai lontane nel tempo. Fin dall’antichità,
infatti, studiosi e filosofi hanno spesso rivolto la loro attenzione verso questa
disciplina del campo della linguistica, che ha subìto, come osserveremo nel corso
II
della nostra ricerca, un’evoluzione non del tutto lineare, segnata, a volte, da nette
divisioni tra scuole di pensiero appartenenti a tradizioni diverse.
Un interesse nuovo e specifico si è poi sviluppato, recentemente, nei confronti
della pratiche di traduzione audiovisiva, in passato sottovalutate e considerate come
fenomeni secondari, non degni di particolare attenzione, nell’ambito degli studi sulla
traduzione. In un mondo, però, in cui lo scambio e la diffusione di informazioni ed
idee vengono quasi esclusivamente veicolati dai mass-media attraverso gli schermi,
siano essi televisivi o cinematografici, queste tipologie particolari di trasferimento
linguistico, assumono un ruolo cruciale.
Ho scelto, quindi, come materia della mia analisi un “testo filmico”, proprio per
la sua rilevanza nel contesto attuale, oltre che per la sua peculiarità: si tratta, infatti,
di un testo complesso, in cui la combinazione di codice scritto, orale e visivo,
comporta, durante il processo di traduzione e adattamento, numerosi ostacoli e
problemi specifici, dovuti alle restrizioni e ai vincoli imposti dalla necessità di
sincronismo. In particolare, ho ritenuto più appropriata, ai fini della mia valutazione,
la scelta di esaminare lo script di un copione adattato per il doppiaggio, in quanto a
mio avviso, questa pratica traduttiva, più di altre, quali la sottotitolazione
interlinguistica, richiede al traduttore-adattatore, oltre alle competenze e l’esperienza
acquisita, delle abilità creative specifiche.
Nella selezione pratica del testo da sottoporre al mio esame, la mia attenzione si è,
poi, rivolta al regista Pedro Almodóvar. In ogni sua opera, infatti, questo autore di
fama mondiale, mette in luce il suo profondo e radicato legame con le tradizioni e la
cultura spagnola, che si delinea, a livello visivo, nell’ambientazione delle sue pellicole,
ma, soprattutto, a livello linguistico, nelle scelte espressive dei suoi personaggi.
Questo strettissimo vincolo tra linguaggio e cultura di provenienza, che caratterizza i
lavori di Almodóvar, rappresenta, a mio avviso, un tema di studio di particolare
interesse, attraverso il quale è possibile evidenziare con maggiore chiarezza i limiti
dell’attività traduttiva e il ruolo, talvolta fondamentale, delle abilità e capacità
artistiche del traduttore, posto di fronte ad una ancor maggiore molteplicità di
variabili che ne condizionano e ostacolano il lavoro.
III
Il presente lavoro è stato suddiviso in tre capitoli principali, ciascuno dei quali
affronta nel dettaglio una tematica specifica.
Il PRIMO CAPITOLO, fornisce una panoramica generale sull’evoluzione delle
teorie della traduzione nel mondo occidentale. Dalle prime riflessioni sulla querelle tra
traduzione letterale e traduzione libera, che ha condizionato per secoli lo studio di
questa disciplina, si arriva a considerare le prime vere e proprie teorie “scientifiche”
della traduzione negli anni ‘60. A partire da questo momento, infatti, lo studio della
Traduttologia ha assunto un carattere più sistematico e si è articolata in tre rami
principali: gli studi teorici, descrittivi e applicati. Nell’ultimo ventennio del XX
secolo, infine, si assiste ad un vero boom dei Translation Studies, con l’allargamento
delle riflessioni teoriche a modelli interdisciplinari integrati.
Nel SECONDO CAPITOLO, l’attenzione si focalizza sul particolare ambito
della traduzione audiovisiva, proponendo una breve introduzione sul passaggio dal
cinema muto a quello sonoro, con gli inevitabili problemi dovuti a questa
innovazione. Una volta illustrate le diverse metodologie di traduzione impiegate per
trasferire gli elementi linguistici del testo filmico, ci concentreremo sulla pratica del
doppiaggio, analizzandone gli attori, le fasi tecniche, i vincoli e le problematiche
specifiche. Nella parte conclusiva del capitolo si presenterà anche l’attuale
condizione del mercato degli audiovisivi e si offrirà una personale valutazione sul
dibattito “doppiare o sottotitolare” che coinvolge studiosi e critici della traduzione.
Il TERZO CAPITOLO, infine, rappresenta il nucleo di questo lavoro. A seguito
di una contestualizzazione relativa al regista e all’opera cinematografica scelta, Los
abrazos rotos, si introdurrà l’analisi linguistica pratica, in una logica contrastiva tra
spagnolo e italiano. Prenderemo in esame le tecniche comunemente impiegate dai
traduttori, supportandole con esempi tratti dal corpus di analisi; successivamente si
evidenzieranno le difficoltà, i problemi e gli errori più ricorrenti nell’ambito della
traduzione tra le due lingue, soffermandoci in modo particolare sulle caratteristiche
del linguaggio colloquiale e gergale all’interno della pellicola.
Buona lettura.
1
LE TEORIE DELLA TRADUZIONE
1.1 Il concetto di traduzione
Nel corso dei secoli la traduzione, sia orale che scritta, ha rivestito un ruolo
importante nella comunicazione tra esseri umani appartenenti a popoli diversi,
ciascuno con una cultura e soprattutto un linguaggio differente. Essa nasce dalla
necessità di permettere, anche a coloro che non hanno conoscenza della lingua
originale, l’accesso al testo. La traduzione, inoltre, nata come attività orale, è
divenuta scritta in Francia, soltanto nel periodo Rinascimentale. A partire da
quell’epoca si assiste ad un intensificarsi di interventi, discussioni e dibattiti ai quali si
accompagna una crescente richiesta di testi da tradurre, anche se il vero e proprio
sviluppo di questa attività si registra a partire dall’inizio del XX secolo. Infatti,
sebbene la pratica della traduzione sia esistita fin dai tempi antichi, gli studi in questo
campo hanno portato alla sua evoluzione come disciplina accademica solo nella
seconda metà del ventesimo secolo.
Il termine ‘traduzione’ può avere diversi significati: può essere riferito al campo di
studio in generale, al prodotto (il testo tradotto) o al processo (l’atto di produrre una
traduzione, altrimenti definito ‘tradurre’). Il processo della traduzione tra due diverse
lingue implica che il traduttore cambi un testo originale (TO) scritto nella lingua
originale (LO) e lo trasformi in un testo (TT) scritto in un differente codice
linguistico (LT).
Louis Kelly ha asserito che una teoria ‘completa’ della traduzione “has three
components: specification of function and goal; description and analysis of
operations; and critical comment on relationships between goal and operations”.
(Venuti 2000[2004]:4)
1
Kelly osserva, inoltre, come, nel corso della storia, i teorici
abbiano teso ad enfatizzare uno di questi tre componenti, a discapito degli altri.
L’aspetto che ha ricevuto la maggiore enfasi, come sostiene Venuti, si è poi spesso
trasformato in una sorta di raccomandazione o prescrizione che definisse la qualità
della traduzione .
1
“ha tre elementi: l’individuazione della funzione e gli obiettivi; la descrizione e l’analisi delle
operazioni [di traduzione]; e il commento critico alla relazione tra gli obiettivi e le operazioni.”
2
Fino alla prima metà del 1900 erano soprattutto coloro che concretamente
effettuavano le traduzioni ad interessarsi dei problemi traduttivi: in altre parole non
esisteva una vera e propria teoria, ma piuttosto varie considerazioni sui diversi
quesiti traduttivi. Fu solo a seguito del secondo dopoguerra che apparvero reali
contributi teorici, che consentirono la nascita di un nuovo campo di investigazione
accademica, quello dei Translation Studies, grazie ad autori che affrontarono in modo
‘globale’ il tema della traduzione e permisero la nascita di una vera e propria scienza
linguistica.
Va sottolineato, inoltre, che per molto tempo l’evoluzione di questa disciplina
non ha avuto, come le altre scienze, un continuum lineare, ma al contrario, ha visto
l’altalenarsi di due concezioni opposte: traduzione letterale, ovvero parola per parola,
e traduzione libera. Solo in seguito, con l’apertura degli studi sulla traduzione ad
altre discipline complementari, si è affermata una nuova visione, che ha permesso il
superamento di questa querelle, e che va sotto il nome di teoria interpretativa o del
senso.
1.2 Excursus storico sulla nascita e lo sviluppo della disciplina della traduzione nel
mondo occidentale.
I primi ‘studi’ sulla pratica della traduzione risalgono al primo secolo avanti Cristo,
con filosofi quali Cicerone, Orazio, Quintilliano ed Sant’Agostino; e dal quarto
secolo dopo Cristo furono portati avanti da San Gerolamo.
Tuttavia, prima della seconda metà del XX secolo la teoria della traduzione si
limitò ad un insieme di concetti ed idee non connessi tra di loro, né sistematizzati.
In questo periodo, che Newmark definisce il ‘prenulllinguist ic period of translation
2
’, la
teoria della traduzione sembrava bloccata nello ‘sterile dibattito’, descritto da Steiner,
sul fatto che la traduzione dovesse seguire il metodo letterale oppure quello libero.
Flora Ross Amos, nel suo libro Early Theories of Translation, non vede affatto la
storia della teoria della traduzione come ‘a record of easily distinguishable, orderly
2
‘periodo prenullinguistico della traduzione’
3
progession’ (Ross Amos 1920[1973]: 10)
3
. Le teorie erano di solito confuse e
sconnesse, un’accozzaglia di prefazioni, in cui i primi teorici presentavano
giustificazioni e commenti al loro approccio, spesso facendo poca attenzione, o non
avendo addirittura accesso, alla maggior parte dei lavori scritti precedentemente.
Una spiegazione di questa tendenza è fornita da Amos:
This lack of consecutiveness in criticisms is probably partially accountable for
the slowness with which translators attained the power to put into words,
clearly and unmistakably, their aims and methods (Munday 2001: 23)
4
Le correnti di pensiero, in quest’epoca, tendevano a condannare e tacciare di
essere imprecisa e superficiale la traduzione la traduzione parola per parola.
Cicerone ha delineato il suo approccio alla traduzione in Libellus de optimo genere
oratorum (46 a.C.), nell’introduzione alla sua stessa traduzione dal greco al latino dei
discorsi di Demostene:
[…] nec converti ut interpres, sed ut orator, sententiis isdem et earum formis
tamquam figuris, verbis ad nostram consuetudinem aptis. In quibus non
verbum pro verbo necesse habui reddere, sed genus omne verborum vimque
servavi. Non enim ea me adnumerare lectori putavi oportere, sed tamquam
appendere. (Cicerone, 46 a.C.[1889]: V-14)
5
L’‘interprete’ della prima riga rappresenta il traduttore letterale, che opera
seguendo il metodo parola per parola, mentre l’‘oratore’ cerca di produrre lo stesso
senso ed effetto del discorso originale.
Anche il poeta latino Orazio, nella sua opera Ars Poetica (I sec a.C.) sostiene che
“nec verbo verbum curabis reddere fidus interpres nec desilies imitator in artum,
3
“la testimonianza di un’evoluzione sistematica, facilmente distinguibile”
4
“Questa mancanza di consecutività nella critica è probabilmente responsabile in parte della
lentezza con cui i traduttori arrivavano a mettere in parole, in maniera chiara e inequivocabile, i loro
obiettivi e metodi”
5
“[…]e non le ho tradotte come un traduttore ma come un oratore con i medesimi concetti e
rispettandone lo stile e le figure retoriche ma con scelte lessicali adatte alla nostra mentalità. In esse
non ho ritenuto necessario tradurre parola per parola ma ho rispettato nel loro insieme il senso e la
forza espressiva delle parole. Giacché ritenni conveniente non elencarle al lettore ma quasi
presentarle come pensate.” (Trad. C.Mandrillo)
4
unde pedem proferre pudor uetet aut operis lex
6
” (vv. 133null135). In un altro famoso
passaggio della sua opera (“Non satis est pulchra esse poemata; dulcia sunto et,
quocumque volent, animum auditoris agunto”
7
vv. 99null100) egli, sottolinea anche
l’obiettivo di produrre un testo esteticamente piacevole e creativo nella lingua
d’arrivo, un concetto che ha avuto grande influenza nei secoli successivi.
Ai tempi dei romani la traduzione ‘parola per parola’ si effettuava sostituendo
ciascun singolo termine della lingua d’origine (invariabilmente il greco) con il suo più
vicino equivalente in latino, includendo il testo tradotto a fronte del testo originale
in greco. Questa procedura si adottava per evitare il pericolo dell’assimilazione della
cultura ellenica in un momento storico in cui le istituzioni romane volevano
abbatterne il potere politico con un una fioritura culturale indipendente dalla Grecia.
(Llácer Llorca 2004:19)
San Gerolamo condivise, alcuni secoli più tardi, questa stessa linea di pensiero:
“Non verbum e verbo, sed sensum exprimere de sensu”, ovvero che non si deve
tradurre parola per parola, bensì il senso del senso. Contro chi lo criticava di scrivere
traduzioni scorrette, nella sua opera De optimo genere interpretandi (395 d.C.), egli
descrisse la sua strategie nei seguenti termini:
Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi
greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l’ordine delle parole è un mistero,
non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso (Epistulae 57, 5, trad.
R. Palla)
Gerolamo disprezzava tanto l’approccio letterale perché, seguendo così
strettamente la forma della lingua d’origine, si produce una traduzione assurda, che
maschera il senso dell’originale; mentre con l’approccio libero il senso e il contenuto
possono essere trasmessi con maggiore efficacia. Egli si allontanava, in questo modo,
dalla tradizione traduttiva religiosa che, soprattutto nel Medioevo, tornerà ad
adottare un metodo letterale.
6
“[…] non ti affanni a rendere parola per parola come un fedele traduttore, e se non ti riduci, da
imitatore, in strettoie dalle quali il troppo rispetto o le esigenze artistiche ti impediscono di cavare i
piedi” (Trad. C.Mandrillo)
7
“Non basta che la poesia sia bella deve suscitare e condurre il nostro spirito dove preferisce”
(Trad. C.Mandrillo)
5
Lo stesso tipo di preoccupazione sul metodo più corretto da adottare, sembra
essere stato preso in considerazione in altre ricche e antiche tradizioni traduttive
come quelle del mondo cinese e di quello arabo.
Nella società occidentale, il problema della traduzione libera o letterale fu per più
di mille anni dopo San Gerolamo legato alla traduzione della Bibbia e altri testi
religiosi e filosofici. La principale preoccupazione della Chiesa cattolica era quella di
trasmettere un unico e corretto significato prestabilito del Testo Sacro; qualunque
traduzione divergesse dall’interpretazione condivisa ed accettata veniva considerata
eretica e doveva essere censurata o bandita.
8
Esse erano utilizzate come arma contro
la Chiesa e il più evidente esempio di ciò fu il lavoro cruciale importanza di Martin
Lutero sul Nuovo Testamento (1522) e successivamente sul Vecchio Testamento
(1534). Lutero giocò un ruolo centrale nella Riforma Protestante e, nel contempo,
l’uso che egli fece di un dialetto regionale e socialmente marcato aiutò in maniera
fondamentale a rafforzare quella forma della lingua tedesca come standard.
Nella sua traduzione della Bibbia, nella quale adottò il medesimo approccio di S.
Gerolamo, si distanziò notevolmente metodi impiegati da alcuni suoi contemporanei
rinascimentali, come Frate Luis de León, che ancora utilizzavano il metodo letterale.
Infine, sebbene l’opera di Lutero non apportò sviluppi significativi al dibattito
letterale – libero aperto più di mille anni prima, il suo contributo fu importante dal
punto di vista dell’attenzione alla lingua e il lettore del testo tradotto:
Man muß die Mutter im Hause, die Kinder auf der Gassen, den gemeinen
Mann auf dem Markt drum fragen, und denselbigen auf das Maul sehen, wie
sie reden und danach dolmetschen; da verstehen sie es denn und merken, daß
man Deutsch mit ihnen redet” (in Störig 1963: 21, citato in Munday 2001:
198)
9
8
L’esempio più famoso fu quello dell’umanista francese Etienne Dolet. Egli venne condannato ad
essere arso vivo dalla facoltà di teologia della Sorbona nel 1546, apparentemente a causa di un
errore di traduzione in un passaggio dei dialoghi di Platone. Avendo tradotto come ‘rien du tout’
(assolutamente niente) un’espressione che si riferiva a ciò che si trova dopo la morte, fu tacciato di
blasfemia e accusato di non credere nell’immortalità dello spirito.
9
“Bisogna domandare alla madre in casa, ai bambini nelle strade, agli uomini semplici e comuni al
mercato e osservare le loro bocche, come comunicano e poi tradurre (a voce); così capiranno e
noteranno che si parla loro in tedesco” (Trad. S.Voncini)
6
Alcuni passi avanti, volti a sistematizzare la teoria della traduzione, vennero
compiuti nell’Inghilterra del diciassettesimo secolo con Dolet, Cowley, Dryden e
Tytler, i quali, con dichiarazioni ponderate, inequivocabili nel loro obiettivo e
significato, hanno portato ad un tipo di classificazione maggiormente basata nella
reale pratica traduttiva.
Uno dei primi autori a definire con chiarezza i propri principi nel lavoro di
traduzione fu Étienne Dolet, un eccellente traduttore e brillante studioso dei classici.
Nel suo manoscritto La manière de bien traduire d’une langue en aultre del 1540, stabilisce
cinque principi, elencati in ordine di importanza, a cui il traduttore dovrebbe
attenersi: il primo si riferisce alla capacità del traduttorenulllettore di comprendere
appieno lo spirito e il contenuto dell’autore originale; il secondo riguarda il grado di
conoscenza e competenza del traduttore nei confronti delle lingue d’origine e
d’arrivo, che si suppone debba essere eccellente per poter comprendere e riportare
le parole dell’autore nel migliore dei modi; il terzo punto evidenzia il punto di vista
di Dolet riguardo alla traduzione parola per parola, che egli considera distruttiva
rispetto al significato dell’originale e alla bellezza d’espressione; nel quarto punto
viene indicata la necessità di evitare l’uso di forme inusuali o di prestiti, a favore di
forme di uso comune; il quinto ed ultimo principio stabilisce che l’autore debba
organizzare le sue scelte linguistiche e l’ordine delle parole in modo tale da dare al
suo lavoro un tono generale appropriato, evitando una riproduzione poco elegante.
(Nida 1964:15null16)
L’enfasi che Dolet pone sull’importanza di un testo tradotto che sia eloquente e
naturale è radicata nel desiderio di rinforzare la struttura e l’indipendenza nella
nuova lingua vernacolare francese.
Abraham Cowley, nella prefazione del suo libro Pindaric Odes (1656), attacca
apertamente quel tipo di poesia che ‘converted faithfully and word for word into
French or Italian prose’
10
(Cowley citato in Ross Amos 1920[1973]: 347). Il suo
approccio è, come egli stesso ammette, più libero e tende a modificare il testo,
10
“traduce fedelmente e parola per parola nella prosa francese o italiana”
7
creando attraverso ‘our wit or invention’
11
un nuovo testo: Cowley ammette ‘I have
in these two odes of Pindar taken, left out and added what I please; nor made it so
much my aim to let the reader know precisely what he spoke, as what was his way
and manner of speaking’
12
(Nida 1964:17) e propone il termine imitation per questo
suo metodo (Ross Amos 1920[1973]: 349). Secondo l’autore, adottando questa
strategia, è possibile riprodurre nel migliore dei modi lo ‘spirito’ del testo originale.
(Amos 1920[1973]:360null361).
Questo approccio provocò accese e forti reazioni, in particolare da parte di un
altro poeta e traduttore, John Dryden, la cui descrizione del processo traduttivo ha
avuto un grosso impatto sulle teorie e la pratica della traduzione successive. Nella
prefazione delle sue traduzioni di Epistulae di Ovidio, Dryden (Munday 2001: 25)
riduce tutte le strategie di traduzione a 3 categorie: metafrasi, ovvero “turning an
author word by word, and line by line, from one language into another”
13
,
corrispondente alla denominata traduzione letterale; parafrasi, ovvero “translation
with latitude”
14
, associata alla traduzione senso per senso (anche denominata fedele)
propugnata da Cicerone; e imitazione, nella quale “the translator not only varies
from the words and senses, but forsakes them both as he sees occasion”
15
(Llácer
Llorca 2004: 19), corrispondente al modello di Cowley (anche denominato
adattamento).
Dryden critica i metodi di traduttori come Ben Johnson, che adottano la
metafrasi, poiché li considera ‘verbal copier’ (Dryden citato in Munday 2001: 25) e allo
stesso modo rifiuta l’imitazione, in cui il traduttore usa l’opera originale come un
‘pattern to write as he supposes that author would have done, had he lived in our
age and in our country’
16
(ibid.). Egli preferisce quindi la parafrasi, anche se in un
11
‘il nostro ingegno o fantasia”
12
“In queste due odi di Pindaro ho preso, eliminato e aggiunto ciò che volevo; non essendo il mio
scopo principale quello di far comprendere al lettore precisamente ciò che era stato detto, quanto il
modo e la forma in cui era stato detto”.
13
“tradurre un autore parola per parola, e riga per riga, da una lingua ad un’altra”
14
“traduzione con libertà d’azione”
15
“il traduttore non solo devia dalle parole e i significati, ma si allontana anche da entrambi appena
ne vede l’occasione”
16
“modello per scrivere come si suppone l’autore avrebbe fatto, se fosse vissuto nella nostra epoca
e nel nostro paese”
8
suo lavoro successivo, ovvero la traduzione dell’opera di Virgilio, l’Eneide, si mostra
propenso ad un tipo di traduzione a metà strada tra la parafrasi e la traduzione
letterale:
I thought fit to steer betwixt the two extremes of paraphrase and literal
translation; to keep as near my author as I could, without losing all his graces,
the most eminent of which are in the beauty of his words. (ibid.)
17
In generale, gli scritti di Dryden, così come quelli di altri autori dell’epoca sono
molto prescrittivi: stabiliscono cosa deve essere fatto affinché la traduzione sia
considerata adeguata. La triade proposta da Dryden ha marcato l’inizio di una
definizione di traduzione più sistematica e precisa.
Altri autori contemporanei inglesi, come Pope, ma anche francesi, come
Batteux
18
, e tedeschi, come Herder e Schlegel, condividevano l’avversione di Dryden
per le traduzioni letterali ed esprimevano il bisogno di una metodologia più libera
che permettesse di esprimere al meglio le intenzioni dell’opera originale.
Un successivo importantissimo lavoro fu pubblicato nel 1790 da Alexander
Fraser Tytler, Essay on the principles of translation.
19
La sua teoria si basava su tre
principi o regole: nel primo dichiara che una traduzione dovrebbe fornire una
trascrizione completa delle idee del lavoro originale; il secondo principio fa
riferimento allo stile e il modo di scrivere che dovrebbero mantenere lo stesso
carattere di quello dell’originale; infine, nel terzo principio si afferma che la
traduzione dovrebbe trasmettere la naturalezza della composizione e la facilità di
lettura dell’originale. (Nida 1964: 19)
17
“ho pensato fosse opportuno mantenere una distanza equa tra i due estremi della parafrasi e della
traduzione letterale; per mantenermi quanto più possibile vicino all’autore, senza perdere tutta la sua
grazia, in particolare quella che risiede nella bellezza delle sue parole”
18
Batteux (1760), sebbene in maniera più cauta, giustifica le alterazioni nel momento in cui esse
siano realmente necessarie, ma con un’attenzione particolare, ove possibile, alla forma e all’ordine
delle parole.
19
Tytler fu accusato di plagio da George Campbell. Quest’ultimo, infatti, aveva pubblicato, solo un
anno prima, un’eccezionale opera sulla storia e le teorie della traduzione, nella quale prendeva in
particolare considerazione la traduzione delle Sacre Scritture. Nel suo lavoro Campbell aveva
elencato tre principi o criteri fondamentali che un traduttore doveva seguire: questi tre principi sono
molto simili a quelli che Tytler descrisse nel suo volume The Principles of Translation dell’anno
seguente.
9
Rispetto alla descrizione di Dryden, orientata a mantenere lo status dell’autore
(‘write as the original author would have written had he known the target language’),
Tytler definisce come “ben riuscita” una traduzione orientata verso il lettore della
versione tradotta:
That in which the merit of the original work is so completely transfused into
another language as to be as distinctly apprehended, and as strongly felt, by a
native of the country to which that language belongs as it is by those who
speak the language of the original work. (Tytler citato in Munday 2001: 26)
20
Il terzo principio di Tytler sicuramente rappresenta il più difficile compito di un
traduttore e, secondo lo stesso autore, la soluzione deve essere quella di ‘adopt the
very soul of his author, which must speak through his own organs’
21
ed evitare
un’imitazione scrupolosa che porterebbe alla perdita dello spirito e della naturalezza
dell’originale.
Un aspetto importante è tuttavia il fatto che Tytler, così come fece Dolet, indica
un ordine di importanza, una categorizzazione gerarchica, per i suoi principi. Ciò è
molto importante, poiché definisce chiaramente in che modo decidere quando un
‘sacrificio’ va compiuto in nome di una giustificazione più importante. In questo
contesto, egli legittima le aggiunte, purché queste siano pienamente giustificate;
ovvero se “they have the most necessary connection with the original thought, and
actually increase its force”
22
(Nida 1964: 19); allo stesso modo, ammette le omissioni
quando le parole sono chiaramente ridondanti e la loro omissione “shall not impair
or weaken the original thought.”
23
(ibid.) Tytler dà anche un intelligente consiglio sul
problema delle zone oscure nel testo originale, sostenendo che il traduttore
dovrebbe giudicare e selezionare il significato che meglio si accorda al contesto
20
“Quella in cui il valore del lavoro originale è così completamente trasfuso nell’altra lingua da
essere percepito da un nativo del paese cui questa lingua appartiene allo stesso modo in cui è sentito
da coloro che parlano la lingua del lavoro originale.
21
‘adottare proprio l’anima dell’autore, che deve esprimersi attraverso i suoi [del traduttore] stessi
organi’
22
“hanno una connessione fondamentale con il pensiero del lavoro originale, e di fatto ne
accrescono la forza [espressiva]”
23
“non deve danneggiare o indebolire il pensiero originale”
10
immediato o al modo di pensare solito dell’autore. La funzione del traduttore è
pertanto concepita come un processo nel quale
he uses not the same colours with the original, but is required to give his
picture the same force and effect. He is not allowed to copy the touches of the
original, yet is required, by touches of his own, to produce a perfect
resemblance. (ibid.)
24
precisando, tuttavia, che “To imitate the obscurity or ambiguity of the original is
a fault and it is a greater one to give more than one meaning.” (ibid.)
25
D’altro canto egli si lamenta dell’influenza che il modello di Dryden ha avuto e
che ha portato a considerare la traduzione come un sinonimo di parafrasi, in cui
“fidelity was but a secondary object”.
26
(ibid.) In questo senso, l’ammonizione di
Tytler, ha chiaramente marcato la chiusura di un periodo della traduzione e l’inizio
di un nuovo periodo, quello del diciannovesimo secolo, più focalizzato sullo status
dell’originale e la forma espressiva nella lingua d’arrivo.
Simbolo di questa dicotomia è stata la polemica tra Francis Newman e Matthew
Arnold sulla traduzione di Omero. Mentre Newman enfatizza l’origine straniera
dell’opera tramite una deliberata traduzione arcaica e nonostante ciò raggiunge un
vasto pubblico; Arnold critica questo approccio nel suo discorso On Tranlsating
Homer (1861), in cui sostiene l’importanza di un metodo di traduzione trasparente.
Arnold esorta il suo pubblico ad affidarsi agli studiosi, che, come egli suggerisce,
sono gli unici in grado di equiparare l’effetto del testo tradotto a quello del testo di
partenza. Come fa notare S. Bassnett in Translations Studies (1980), un’attitudine così
elitaria ha portato, da un lato, alla svalutazione della traduzione, che veniva percepita
come impossibile, in quanto il testo tradotto non sarebbe mai stato all’altezza di
quello originale; dall’altro lato, ha causato la marginalizzazione delle traduzioni che
24
“non usa gli stessi colori dell’originale, ma gli si richiede di trasmettere attraverso la sua immagine
la stessa forza ed effetto. Egli non è libero di copiare i tratti dell’originale, tuttavia è necessario che,
attraverso suoi propri tratti, riproduca una perfetta somiglianza.”
25
“imitare le oscurità e l’ambiguità dell’originale è un errore ed è un errore ancora più grande
trasmettere più di un significato.”
26
“la fedeltà non era altro che un obiettivo secondario.”
11
venivano scritte solo per una selezionata élite. Questa preferenza per la lettura
dell’opera in lingua originale è rimasta radicata in Gran Bretagna fino ai giorni nostri.
Durante il Romanticismo la fioritura delle lingue nazionali come prodotto della
formazione di nuovi Stati, spinse i teorici della traduzione e il pubblico in generale
ad un rifiuto delle lingue straniere, in favore di quelle nazionali; e produsse, di
conseguenza, un ritorno verso il letteralismo a danno dell’imitazione neoclassica:
“Le temps des traductions infidèles est passé. Il se fait un retour manifeste verse
l’exactitude du sens et la literalité.” (Leconte de Lisle citato in Llácer Llorca 2004:
20)
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Nel 1813 il teologo e traduttore tedesco Friedrich Schleiermacher scrisse un
importante trattato sulla traduzione: Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens.
Schleiermacher viene riconosciuto come il fondatore della moderna teologia
Protestante e del moderno “modello ermeneutico”, un approccio romantico
all’interpretazione, basato non su una verità assoluta, bensì sui sentimenti profondi e
sulla comprensione individuale.
Egli distingue in primo luogo due diversi tipi di traduttore che lavorano su due
diversi tipi di testo: il Dolmetscher, che traduce testi commerciali, e il Übersetzer, che si
occupa di testi didattici, accademici ed artistici. Questa seconda categoria è
considerata dall’autore ad un più alto livello creativo, poiché rafforza l’uso della
lingua. Sebbene possa apparire impossibile la traduzione di un testo accademico o
artistico – poiché il significato dell’originale è strettamente legato alla lingua in cui è
scritto e alla cultura da cui proviene, cui il testo tradotto non potrebbe mai
pienamente corrispondere – la domanda reale, secondo Schleiermacher, è come
mettere in comunicazione l’autore del TO e il lettore del TT. Egli va oltre il
problema della traduzione letterale, fedele o libera e considera che ci sono solo due
percorsi che il vero traduttore può intraprendere: “Entweder der Übersezer läßt den
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“Il tempi delle traduzioni infedeli è passato. Vi è un chiaro ritorno verso l’esattezza del senso e la
letteralità”
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Schriftsteller möglichst in Ruhe, und bewegt den Leser ihm entgegen; oder er läßt
den Leser möglichst in Ruhe und bewegt den Schriftsteller ihm entgegen.”
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La strategia prescelta da Schleiermacher è la prima, ovvero quella di “spostare” il
lettore verso l’autore. Questo implica che non si debba riprodurre il testo come se
l’autore l’avesse scritto nella lingua e nell’epoca del lettore, ma, anzi, bisogna dare a
chi legge la stessa impressione che il lettore del testo avrebbe avuto leggendo il testo
in lingua originale (Llácer Llorca 2004: 43). Per ottenere ciò il traduttore deve
adottare una strategia ‘alienante’, opposta a quella ‘naturalizzante’, orientata a
valorizzare il linguaggio e il contenuto del testo straniero.
Lo stesso Schleiermacher presenta alcune osservazioni riguardo al proprio
modello. Una di queste considera che se è vero che il traduttore deve trasmettere la
stessa impressione che egli stesso ha percepito dall’originale, è altrettanto vero che
questa impressione dipenderà dal livello di istruzione e di comprensione del
pubblico lettore, che probabilmente differirà notevolmente dal livello di
comprensione proprio del traduttore. In un’altra osservazione l’autore sostiene la
necessità di un ‘linguaggio speciale della traduzione’ che utilizzi, si espressioni più
fantasiose e creative, che altre più standardizzate e automatiche.
Il rispetto di Schleiermacher per il testo originale ha avuto un’influenza
considerevole sugli studiosi fino ai nostri tempi. Infatti Kittel e Polterman
sostengono che praticamente ogni moderna teoria della traduzione, almeno per ciò
che riguarda l’area linguistica tedesca, si rifà, in un modo o nell’altro, alle ipotesi di
Schleiermacher: le considerazioni sui differenti tipi di testo sono importanti nella
distinzione di Reiß delle tipologie di testo, mentre le due tecniche opposte
dell’‘alienazione’ e ‘naturalizzazione’ sono state riprese da Venuti nelle strategie di
‘foreignization’ e ‘domestication’.
Infine, la sua visione del ‘linguaggio della traduzione’ è condivisa da Walter
Benjamin e la descrizione dell’ermeneutica della traduzione viene applicata alla
‘hermeneutic motion’ di George Steiner.
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“O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e muove il lettore verso di lui; o lascia il
più possibile in pace il lettore e muove lo scrittore verso di lui.” (Trad. S.Voncini)
[Schleiermacher, Wilhelm (1838): “Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens.” pp. 207null5, in:
Friedrich Schleiermachers sämmtliche Werke. Dritte Abtheilung: Zur Philosophie. Tomo II. Berlin]