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Introduzione
Dalla seconda metà degli anni Novanta fino a tutta la prima parte del 2008
l‟occupazione cresce in Italia a ritmi sostenuti. Contribuiscono a tale risultato
l‟andamento moderato delle retribuzioni, la progressiva flessibilizzazione delle
forme di lavoro e la crescita delle attività del terziario a elevato contenuto
occupazionale.
Il lungo e ininterrotto periodo di sviluppo si riflette nel significativo
miglioramento del tasso di occupazione, che raggiunge il 58,7 % nella media del
primo semestre del 2008, più di 7 pp rispetto al 1997. Tuttavia, con il procedere
della crisi economica, le condizioni del mercato del lavoro nel corso del 2008
sono andate deteriorandosi.
Il mercato del lavoro è uno dei principali fattori per constatare la salute di
un'economia: ad una richiesta di lavoro di solito si collegano necessità di aumento
della produzione e nuovi salari, quindi maggiori possibilità di accesso ai
consumi. Per comprendere meglio il fenomeno che ci appresteremo ad analizzare,
ritengo sia indispensabile aprire una parentesi sulle caratteristiche del mercato del
lavoro e sulle teorie che lo investono.
In presenza di mercati completi e di perfetta informazione è evidente che non
può esistere disoccupazione. D'altronde, è facile rendersi conto che la condizione
reale, quella in cui viviamo, è di imperfetta informazione, il che rende meno facile
l‟incontro tra lavoratori disponibili e posti vacanti. Questo scenario sta alla base
della “teoria della ricerca” (job search theory), con la quale si cerca di spiegare
l‟esistenza del tasso naturale di disoccupazione positivo. Per spiegare l‟esistenza
di questa disoccupazione permanente si ricorre al “salario di riserva”, determinato
dall‟uguaglianza tra il costo marginale di continuazione della ricerca e il beneficio
marginale della ricerca (possibilità di raggiungere una retribuzione migliore della
precedente). Chiaramente il salario di riserva dipende dallo stipendio
precedentemente percepito dal lavoratore (ora disoccupato) e diminuisce con il
4
passare del tempo di ricerca della nuova occupazione, fungendo da meccanismo
di auto-selezione: i disoccupati, secondo questa teoria, accettano solamente il
salario che ritengono giusto per le loro capacità, andando così a formare la
disoccupazione volontaria
1
.
Una visione empirica però, ci mostra come questa teoria potrebbe al massimo
spiegare il comportamento dei giovani in cerca della prima occupazione e non del
totale della disoccupazione, che, secondo le statistiche, è composta da licenziati
(non per loro volontà) che raramente cercano il lavoro in modo attivo, ma che lo
attendono
2
, accettando solitamente la prima proposta che viene offerta loro.
In molte correnti di pensiero invece, si considera la disoccupazione una
conseguenza delle rigidità salariali: i salari dovrebbero diminuire all‟aumentare
della disoccupazione, per favorire nuove assunzioni. La rigidità coinvolge sia il
salario nominale (o monetario), ossia la quantità di moneta che viene data al
lavoratore dipendente in cambio della sua prestazione, sia quello reale, che
rappresenta il potere d'acquisto del primo, cioè la quantità di beni e servizi che il
lavoratore può ottenere con esso, sull‟andamento del quale l‟impresa effettua le
proprie scelte.
L‟evidenza empirica mostra le possibili cause della rigidità, spesso dovuta alla
durata pluriennale dei contratti di lavoro e quindi resi, nel breve periodo, non
modificabili, ovvero per l‟effetto negativo che la diminuzione del salario potrebbe
avere sulla performance del lavoratore e, dunque, sulla produzione.
Volgiamo ora l‟attenzione a tre modelli specifici che fornirebbero una
spiegazione endogena, a livello microeconomico, non solo della rigidità del
salario reale, ma anche della sua collocazione su livelli superiori rispetto a quelli
1
A questo tipo di disoccupazione si contrappone la disoccupazione keynesiana (involontaria), che tende a
protrarsi nel tempo, non esistendo meccanismi automatici che portino all‟equilibrio di piena occupazione.
2
Teoria dell‟attesa, piuttosto che teoria della ricerca, in parte anche a causa dei sussidi di disoccupazione, che
potrebbero appunto produrre disoccupazione da attesa.
5
dell‟equilibrio walrasiano
3
. Trattasi della “teoria del sindacato”, dei modelli
“insider-outsider” e della teoria dei “salari d‟efficienza”.
Secondo la teoria del sindacato, i modelli con imperfezioni di mercato si
possono collocare all‟interno di due categorie che rappresentano le estremità: i
modelli con potere monopolistico del sindacato e i modelli con potere
monopsonistico delle imprese (in grado di pagare il salario minimo competitivo e
di controllare l‟occupazione). In questa situazione, il sindacato, sfruttando il
potere monopolistico che appartiene ad esso, cercando di ottenere condizioni
migliori per i propri iscritti, rendendo i salari più elevati di quelli competitivi,
causerebbe disoccupazione
4
.
Per quel che riguarda i modelli insider-outsider, i primi rappresentano gli
occupati a tempo indeterminato e i secondi i disoccupati in cerca di lavoro e gli
occupati a tempo determinato. Chiaramente gli insider “spingono” per
incrementare le loro retribuzioni mantenendo così fuori dal “mercato primario” gli
outsider che, al contrario, non hanno interesse agli aumenti retributivi che
avrebbero sicuramente pessime conseguenze a livello occupazionale. Questa
teoria spiega la durata e la persistenza della disoccupazione, e mostra come una
disoccupazione anche elevata non riduce gli elevati salari reali, poiché gli outsider
non hanno alcun potere di contrattazione salariale.
La terza teoria microeconomica utilizzata per spiegare la rigidità dei salari
reali, è quella dei salari d‟efficienza (efficency wages), che si occupa di studiare
gli incentivi che spingono le imprese a corrispondere ai lavoratori un salario più
alto rispetto a quello di mercato, allo scopo di aumentarne la produttività e
l'efficienza. In realtà, esiste un gap informativo tra datore e lavoratore su quale sia
il reale effetto sull‟impegno di quest‟ultimo; inoltre, ciò potrebbe avere un effetto
positivo per il singolo, ma a livello macro avrà sicuramente effetti negativi sui
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Per equilibrio walrasiano, o equilibrio economico generale, si intende la condizione di un sistema economico
in cui i prezzi assicurano l‟uguaglianza fra domanda e offerta in tutti i mercati; in tale situazione sia i
consumatori che i produttori non hanno alcun interesse a modificare la propria posizione sui diversi mercati.
4
Soprattutto a livello intermedio, in quanto il grado di centralizzazione della contrattazione salariale è stato
posto in relazione non lineare (curva ad U) rispetto alla performance economica (Calmfors e Driffil, 1988).
6
livelli occupazionali complessivi. La teoria degli efficiency wages spiega anche la
persistenza dei differenziali salariali e la segmentazione del mercato del lavoro.
La disoccupazione che si creerebbe dalla rigidità del salario reale è di tipo
keynesiano
5
, quindi involontaria, essendo generata da una domanda aggregata
effettiva insufficiente a garantire la piena occupazione
Le tre precedenti teorie di carattere microeconomico, in particolare i modelli
insider-outsider e la teoria degli efficency wages, sono state pure utilizzate per
fornire una spiegazione del fenomeno macroeconomico dell‟isteresi della
disoccupazione, fenomeno analizzato da economisti soprattutto keynesiani
6
.
Secondo tale teoria, se la disoccupazione si mantiene a lungo al di sopra del suo
valore d‟equilibrio, questo comincerà a sua volta ad aumentare nel tempo. La
teoria dell‟isteresi, ha cercato di spiegare la persistenza di disoccupazione elevata
per molti paesi europei durante gli anni Ottanta e Novanta, sottolineando
un‟asimmetria ciclica fra la fasi recessive, dove la disoccupazione peggiora più di
quanto tenderà a migliorare in quelle espansive seguenti. Il suggerimento
proveniente dalla politica economica è il ricorso alle politiche attive del lavoro, ad
esempio un‟ulteriore sviluppo di efficienti servizi per l‟impiego e interventi sul
capitale umano (come riqualificare i disoccupati di lungo termine).
Altre teorie, relative all‟andamento dell‟occupazione, sono quelle riguardanti
la flessibilità nel mercato del lavoro, che può essere considerata passiva (di breve
periodo) o innovativa (di lungo periodo). Per la prima forma di flessibilità,
l‟efficienza dei mercati è considerata condizione necessaria e sufficiente ai fini di
una buona performance economica, efficienza che presuppone lo smantellamento
di tutte le rigidità e di tutti gli ostacoli normativi e istituzionali
7
. Mentre la
“flessibilità innovativa”, non riguarda solo i mercati efficienti, ma trova alimento
anche in forme avanzate di partecipazione, coordinamento e partnership
pubblico/privato, cercando di favorire l‟elevazione del capitale umano.
5
Nell‟attuale situazione di recessione, c‟è una componente rilevante di nuova disoccupazione keynesiana,
dovuta al calo dei consumi aggregati e degli investimenti.
6
Marelli E., Signorelli M., Politica economica, Giappichelli editore, 2010, p. 439.
7
Ivi, p.444.
7
L‟analisi tradizionale di flessibilità del mercato però si riferisce a quella
passiva, composta dalla flessibilità salariale (intesa coma la reattività dei salari
alle variazioni della domanda e dell‟offerta di lavoro), dalla flessibilità
occupazionale e da quella spaziale (la mobilita territoriale dei lavoratori).
La flessibilità occupazionale può essere interna (organizzativa, si riferisce alle
modalità di utilizzo del fattore lavoro) ed esterna (chiamata anche “numerica”).
La flessibilità occupazionale esterna fa riferimento ai costi prodotti da scelte di
assunzione (flessibilità in entrata) e licenziamenti (flessibilità in uscita); quella in
entrata dipende da diversi fattori quali: le istituzione che favoriscono il passaggio
scuola/università-lavoro compresi i servizi per l‟impiego e dalla presenza di
tipologie contrattuali (spesso a termine) in grado di svolgere una funzione “ponte”
per i giovani che si apprestano ad entrare nel mercato del lavoro. A questo
proposito troviamo quella che, in questa circostanza, a noi più interessa: la
flessibilità contrattuale, che, se adoprata correttamente, favorirebbe una migliore
transizione verso forme contrattuali maggiormente stabili, evitando i rischi
possibili di intrappolamento su ripetute forme contrattuali temporanee
8
.
Lo scopo di questo lavoro è cercare di fare chiarezza sulla consistenza del
lavoro temporaneo nel nostro Paese, in particolare nel decennio precedente la
recessione, per avere un‟analisi del fenomeno più omogenea e non alterata
dall‟andamento del ciclo economico. Inoltre, cercheremo di valutare il ruolo che il
lavoro temporaneo svolge nel funzionamento del mercato del lavoro e le difficoltà
che incontrano i lavoratori temporanei a transitare ad un lavoro a tempo
indeterminato, prestando particolare attenzione alla condizione e ai percorsi
professionali dei giovani e delle donne, che rappresentano la parte della società
maggiormente occupata tramite contratti di lavoro atipici.
Rispetto allo scorso secolo il mercato del lavoro ha subito profondi
cambiamenti, sia da un punto di vista quantitativo, sia qualitativo. Lo spirito che
ha influenzato la società fordista nel corso del Novecento risulta essere ora in
crisi. In passato l‟occupazione era principalmente caratterizzata da grandi
8
Ivi, p.448.
8
industrie, in cui i lavoratori erano occupati in maniera stabile e i percorsi
lavorativi procedevano attraverso carriere interne spesso basate sull‟anzianità, con
la garanzia delle tutele sindacali.
Alla fine degli anni Settanta con l‟emergere di alcuni mutamenti nella struttura
della domanda e dell‟offerta del mercato, l‟occupazione come era conosciuta
comincia ad evolversi; vengono introdotte nuove tipologie contrattuali e nuove
modalità lavorative dette atipiche. Tali cambiamenti sviluppano alcune
contraddizioni e ambivalenze tipiche delle fasi di passaggio. Il sistema di welfare
resta infatti ancorato a un sistema produttivo superato, offrendo ancora protezione
solo a coloro che appartengono al vecchio modello, in cui il lavoratore è
impiegato con un contratto a tempo indeterminato, e lascia privi di protezione
adeguata tutti coloro che devono affrontare i rischi e le difficoltà del lavoro
flessibile.
Il presente lavoro si articola in sette capitoli, con cui si è cercato di trattare i
temi citati tramite l‟utilizzo di contributi empirici (Istat, Eurostat, OCSE,
Ministero del lavoro), più un ottavo dedicato alle considerazioni conclusive. Il
primo capitolo è dedicato all‟origine dei contratti atipici e all‟evoluzione
normativa nazionale che è andata a comporre la situazione giuridica attuale; nel
secondo troviamo la classificazione delle tipologie di contratto atipiche dopo la
riforma Biagi e la differenza di tutele che le contraddistingue; il terzo e il quarto
trattano il ruolo effettivo della flessibilità, prima tramite una comparazione a
livello europeo, poi con un‟analisi approfondita sul nostro mercato del lavoro; nel
capitolo successivo si è cercato di descrivere il legame tra le donne e i contratti
atipici, analizzando le varie dinamiche della atipicità femminile; gli ultimi due
sono dedicati rispettivamente al contratto a tutele progressive proposto da Boeri e
Garibaldi e al ruolo che potrebbe avere la flexicurity nel nostro Paese.
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1. L’origine dei contratti atipici e normativa nazionale
La crescita economica, iniziata, verso la metà degli anni Cinquanta, proseguì
fino al 1973, quando i paesi più sviluppati, compresa l‟Italia, si trovarono
improvvisamente coinvolti in una delle più gravi crisi economiche dopo quella del
1929. A provocare la crisi fu l‟aumento del prezzo del petrolio e il conseguente
aumento dei costi di produzione delle merci. A questo fenomeno, si devono
aggiungere i minori investimenti effettuati dagli industriali in quegli anni, perché
la carenza di profitti non poteva più essere recuperata contenendo i salari dei
lavoratori, dato che le proteste di quest‟ultimi avevano ottenuto, proprio in quegli
anni, rilevanti miglioramenti delle retribuzioni.
Questa fase si caratterizzò per instabilità della crescita, inflazione ed anche per
disoccupazione. La domanda di lavoro si modificò rapidamente a causa
dell‟introduzione della tecnologia nelle imprese, della dislocazione territoriale
delle stesse, nonché della comparsa di nuove professioni. Queste trasformazioni,
acceleratesi nel corso degli anni Ottanta, mostrano i mutamenti che le imprese
subirono anche nelle loro dimensioni e nei settori economici di appartenenza: alla
riduzione della grande impresa corrispose la diffusione della piccola impresa, nel
settore industriale ma, soprattutto, in quello terziario. Per di più, il venir meno
della centralità del lavoro subordinato “standard” rappresentò un evidente indizio
delle modificazioni del tessuto economico italiano degli anni Ottanta; ad esso è
seguita nel decennio successivo, l‟applicazione delle manovre finalizzate a
diffondere e normalizzare la flessibilità del mercato del lavoro.
Le trasformazioni tecnologiche ed organizzative, la riduzione dell‟aumento
dell‟occupazione nei settori come l‟industria, l‟agricoltura e, improvvisamente,
10
anche nei servizi, hanno obbligato ad una reazione più rapida sia
nell‟adeguamento della forza-lavoro sotto il profilo professionale, sia nel sostegno
alla domanda di impiego che, pur continuando ad essere formulata dai lavoratori
nella sua accezione tradizionale di lavoro a tempo pieno e continuo, si vedeva
contrapposta sempre più spesso all‟offerta, da parte degli imprenditori, di posti
che richiedevano una prestazione parziale o comunque limitata nel tempo, se non
addirittura del tutto occasionale. Possiamo dire che a metà dei Novanta si assiste
all‟uscita da un‟epoca in cui il mondo del lavoro e le relazioni di lavoro avevano
avuto un assetto uniforme e massificato e all‟entrata in una fase in cui sia l‟uno
che le altre tendono ad essere differenziate
9
.
In questo modo, ci siamo diretti verso il superamento del modello di lavoro
dipendente a tempo indeterminato, stabile e di lunga durata, esclusivo ed a tempo
pieno. L‟avvento della flessibilità nel mondo del lavoro ha attirato l‟interesse
dello Stato che ha cercato d‟intervenire per disciplinare il fenomeno in vista di un
obiettivo preciso: sostenere la trasformazione delle “regole del gioco”
permettendo l‟incontro tra domanda ed offerta di lavoro flessibile cercando di
promuovere l‟aumento dell‟occupazione e di favorire la stabilità del sistema
economico. Tutto ciò in coerenza con quella opinione prevalente che considerava
il complesso degli standard legali, protettivi del “posto fisso”, una causa frenante
l‟incremento dell‟occupazione: se la sicurezza del lavoro resta l‟obiettivo
primario per i lavoratori, al contempo la protezione del “posto”, attraverso regole
giuridiche severe, costituisce per l‟epoca un elemento negativo del mercato del
lavoro.
E‟ per tale motivo che possiamo affermare come per noi, oggi , il posto di
lavoro fisso e vicino casa, configurante l‟unica esperienza lavorativa nel corso
della vita, in grado di garantire una considerevole liquidazione in denaro e la
certezza di una pensione adeguata per poter affrontare la vecchiaia nel modo più
sereno, rappresenta uno status ormai superato, in quanto esempio di vita sempre
più raro.
9
Accornero A., Ancora il lavoro: conversazione con Patrizio Di Nicola, Ediesse, Roma, 1995.
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La diffusione dei modelli organizzativi postfordisti nei sistemi produttivi delle
economie avanzate è andata di pari passo con la continua creazione di nuove
forme contrattuali che hanno consentito un notevole ampliamento delle tipologie
di rapporto di lavoro. I nuovi contratti di lavoro, in genere si contraddistinguono
per una maggiore flessibilità e una diminuzione dei diritti sociali ad essi correlati.
Fino a qualche anno fa, l‟uniformità dei rapporti lavorativi, consentiva di
utilizzare definizioni relativamente semplici dei termini “impresa”, “occupazione
dipendente” e “occupazione autonoma” senza incorrere in errori sostanziali o in
quantificazioni errate. Mentre oggi, considerati il continuo aumento delle
tipologie contrattuali regolate dalla normativa in materia di rapporti di lavoro e il
crescente squilibrio riguardo i diritti legati alle varie forme contrattuali, si leva –
in modo particolare per la statistica ufficiale – la necessità di rivedere le
definizioni da adottare nella misurazione dell‟occupazione, così come di
prevedere nuovi schemi classificatori che consentano un approccio alla
quantificazione più realistico e significativo.
1.1. Evoluzione normativa dei contratti atipici
Per descrivere l‟evoluzione nel modo migliore possiamo partire da una
comparazione tra i vari paesi d‟Europa che ci fornisce dei dati a partire dagli anni
Ottanta su cui riflettere. Gli indicatori qui considerati per osservare l‟evoluzione
del grado di flessibilità del mercato del lavoro italiano, sono calcolati dall‟OCSE
rispettivamente per la fine degli anni Ottanta, per la fine anni Novanta e per il
2003 sulla base di un ampio database legislativo.
Per ciascuna Nazione i regimi di protezione all‟impiego (RPI) vengono
misurati in base a 18 elementi di base (items) relativamente ai diversi aspetti della
regolamentazione ad ognuno dei quali viene attribuito un punteggio (da zero a sei,
in base al “grado di rigidità”). I valori ottenuti vengono uniti in medie ponderate
sino a raggiungere un unico indice riferito a: la disciplina relativa ai licenziamenti
individuali, le normative specifiche per i licenziamenti collettivi e la regolazione
delle forme di impiego temporaneo che comprendono sia i contratti di lavoro
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dipendente a tempo determinato, sia la somministrazione di lavoro (lavoro
temporaneo tramite agenzia). Infine tali misure vengono aggregate per costruire
un indicatore unico per ciascun Paese.
Tab. 1.1: Indicatori cardinali della rigidità della legislazione per la protezione
all’impiego
Fonte: elaborazione OECD (OCSE)
N.B.: l‟indicatore di rigidità della legislazione è calcolato per la fine degli anni ‟80, per la fine degli anni ‟90 e per il
2003. Esso misura la rigidità delle normative a protezione del posto di lavoro: ad un maggior valore dell‟indicatore
corrisponde un regime più rigido (vincolistico). Le prime tre colonne presentano i valori dell‟indicatore relativo alla
disciplina dei contratti standard a tempo indeterminato mentre le tre colonne successive fanno riferimento ai
contratti di lavoro temporanei (comprendenti anche la somministrazione di lavoro tramite agenzia). La settima e
l‟ottava colonna si riferiscono alle disposizioni specifiche per i licenziamenti collettivi (non disponibile per la fine
degli anni ‟80). Le ultime tre colonne, infine, presentano l‟indicatore totale (una media dei tre gruppi citati).