2
fittizio. Allora il testo di Time diventa più che mai significativo: chi più di Bowie è
riuscito a rappresentare lo spirito del tempo nel tempo irreale del palcoscenico? Sul
quale esso, in entrambi i sensi, di storia e di esperienza, si impone in tutta la sua forza.
“Oh God I’m still alive” sarebbero potute essere le parole di Ziggy Stardust, prima di
essere ucciso, proprio su un palcoscenico.
I still don’t know what I was waiting for
And my time was running wild
A million dead-end streets
Every time I thought I’d got it made
It seemed the taste was not so sweet
So I turned myself to face me
But I’ve never caught a glimpse
Of how the others must see the faker
I’m much too fast to take that test
Ch-ch-ch-ch-Changes
(Turn and face the strange)
Ch-ch-Changes
Don’t want to be a richer man
Ch-ch-ch-ch-Changes
(Turn and face the strange)
Ch-ch-Changes
Is gonna have to be a different man
Time may change me
But I can’t trace time
I watch the riplets change their size
But never leave the stream
Of warm impermanence
So the days flow thru my eyes
But still the days seem the same
(…)
Strange fascination, fascinating me
Changes are taking the pace I’m going thru
Ch-ch-ch-ch-Changes
(Turn and face the strange)
Ch-ch-Changes
Look out you rock’n’rollers
Ch-ch-ch-ch-Changes
(Turn and face the strange)
Ch-ch-Changes
Pretty soon now you’re gonna get older
Time may change me
But I can’t trace time
Inutile sottolineare come Changes sia da considerarsi il manifesto di tutta una
carriera che ha cambiato maschera con il mutare dei tempi: Bowie si definisce “the
faker”, parlando di se stesso in terza persona e anticipando così l’avvento dei suoi
personaggi e le loro crisi di identità.
3
Se paradossalmente dovessimo sostituire al titolo di ogni album di Bowie l’anno in
cui essi furono pubblicati, non faremmo altro che rendere esplicito ciò che, comunque,
appare abbastanza chiaramente:
Each album was fairly successful at illustrating the particular era, or sort of photographing the time I
was in. It was a musical time photograph. I’d like to look back through the Seventies and think that I had
a little set of photographs of time capsules about what each year was like. (Spring 1979)
1
Bowie riesce a catturare il presente soprattutto attraverso le immagini e le sensazioni,
senza esplicitarlo attraverso il linguaggio, rivelando una precisione straordinaria nel
fotografare un’epoca. Space Oddity aveva dimostrato un tempismo invidiabile nello
sfruttare lo scalpore provocato dai viaggi nello spazio, essendo stata pubblicata poco
prima dello sbarco sulla luna. In realtà nascondeva una critica all’ottimismo tecnologico
degli anni ‘60. Ziggy Stardust partiva da un presupposto molto simile: se in quel
periodo appariva essenziale per un musicista salire su un palco con una chitarra e un
paio di jeans e cantare contro la guerra, a favore dell’amore universale, Bowie con il
personaggio di Ziggy ha fatto esattamente l’opposto: ha messo in scena uno spettacolo
fatto di immagine, più che di propositi che oggi definiremmo “buonisti”. Ziggy era
l’apoteosi dell’apparenza, era superficialità infinita, sarebbe riduttivo definirlo
semplicemente “glam”. Certamente partiva dal glam, ma il più grande personaggio
creato da Bowie ha soprattutto cantato la fine di un’epoca che non poteva fare altro che
soccombere sotto il peso delle sue stesse illusioni. E lo ha fatto inventandosi un fumetto
di fantascienza. C’erano tutti i presupposti per creare un mito. E così è stato. Sono in
molti a considerare Ziggy non un’interpretazione di Bowie, ma una persona del tutto
distinta dal suo creatore. Un esperimento teatrale fallito, nel momento in cui il creatore
si è irrimediabilmente perso nel suo personaggio. Naturalmente questa schizofrenia non
poteva durare per sempre: “Look out you rock’n’rollers/(…)/ Pretty soon now you’re
gonna get older”, ammoniva Changes. E Bowie, come non poteva permettersi di
impazzire, non poteva neppure permettersi di invecchiare, mentre i tempi richiedevano
una nuova trasformazione. A volte questa operazione è stata sotto certi aspetti del tutto
inconsapevole. È accaduto con l’ultimo dei personaggi di Bowie, il Duca Bianco, che,
manifestando sinistre simpatie per i regimi di estrema destra, rispecchiava quanto stava
avvenendo in Europa:
Over in Los Angeles, where all this was happening for me, I had absolutely no idea what was going
on in England so, presumably, if the swastika was becoming a motif in the London punk scene, it was
synchronistic. I was certainly unaware of it.
2
È significativo ricordare che Bowie, soprattutto nei panni di Ziggy Stardust, fu uno
dei pochi artisti che i punk rispettavano. E cos’erano gli umanoidi di Diamond Dogs se
non una versione primigenia dei punk? E cosa cantavano i punk se non lo stesso inno
funebre per la morte degli anni ‘60 che Ziggy Stardust aveva intonato qualche anno
prima? Il suono dello Zeitgeist nella seconda metà degli anni ‘70 non era quello violento
del punk, ma era quello cupo e depressivo di Low e “Heroes”. L’ispirazione per questi
due album storici veniva da Berlino, dove Bowie si era trasferito, e dagli esperimenti
dei Kraftwerk, gruppo di Düsseldorf, già allievi di Stockhausen convertitisi ad un
genere meno difficile, che contribuirono a portare al grande pubblico la musica
1
Barry Miles (ed.), Bowie In His Own Words, London, Omnibus Press, 1980, p.79.
2
Intervista di Steve Sutherland per New Musical Express, 20 Marzo 1993.
4
elettronica. Ma quello che nei Kraftwerk era stato freddo esperimento, in Bowie
diventava esperienza, quando cantava la propria depressione e anche quella di una città
e di tutta un’epoca, quella di un’Europa alla quale “non restava altro che il suo passato”,
come pare abbia detto Brian Ferry
3
, assieme a Ziggy un’altra delle icone glam. Che cosa
poi sia successo dopo quello che è da molti considerato il periodo più creativo nella
carriera di Bowie, è difficile dirlo. Dopo Scary Monsters, in cui egli si separava
definitivamente dal Major Tom, pare essere subentrato, assieme all’equilibrio, anche un
periodo di crisi, forse in parte dovuto all’enorme successo di Let’s Dance, che lo ha
portato a trasformarsi da artista di culto in una superstar a tutti gli effetti. “It was hardly
surprising Bowie had so little to offer in the ‘80s – he’d already lived through them”, ha
detto il giornalista Ben Thompson
4
. Niente di più corretto: i migliori esempi musicali
degli anni ’80 si rifacevano a quel suono elettronico che ha reso grande la cosiddetta
“trilogia berlinese”, mentre le avanguardie parevano assopite. Non c’è dunque nulla di
strano se a Bowie non rimase altro che tuffarsi nel mainstream e godere di un successo
ormai consolidato e disperatamente noioso. Bisognerà aspettare i Tin Machine, gruppo
che Bowie fondò assieme al chitarrista Reeves Gabrels, per trovare qualche segno di
rinascita. Ancora una volta egli parve anticipare i tempi, quando, con il rock
decisamente hard della band, parve preannunziare l’ondata grunge, capeggiata proprio
da Kurt Cobain, che sarebbe arrivata da Seattle di lì a poco. Da quel momento Bowie
ricominciò a sperimentare, a seguire i movimenti delle correnti periferiche, non solo in
campo musicale, ma anche artistico, ad analizzare una nuova epoca di conflitti,
un’epoca frammentata e schizofrenica, come Ziggy Stardust.
Con David Bowie non è facile dire dove finisca il calcolo e dove inizi la vera
ispirazione artistica. Di certo, se ci fosse stato solo cinismo, egli avrebbe fallito, come è
successo a quanti sono giunti al successo grazie alla semplice premeditazione. Bowie
non ha fallito perché in lui non c’è premeditazione, o meglio, non c’è solo
premeditazione. I suoi personaggi erano lo spirito di un epoca perché tali dovevano
essere, a prescindere dal risultato sul pubblico. A volte addirittura percepiva tutto questo
come un’operazione talmente inconscia da essere irritante, quasi non fosse chiaro
neppure a lui stesso quello che stava facendo (“I built models of things that I didn’t
fully understand”
5
). O magari il risultato era di farlo sentire in qualche modo fuori
posto:
I play either awkward people or fanatics. Isolationists is what I’m doomed to play. The anachronism.
The right person in the wrong time. Or the wrong person in the right time. Never will I quite match.
6
Un problema per Bowie pare essere stata anche la sua middle-classness,
l’appartenenza alla classe media borghese che, a suo dire, restringeva in senso estetico
la sua visione delle cose, rendendo per lui inadeguato ciò che scriveva:
I do put myself against other writers and find my sensibilities thwarted and rather dulled and that…
angers me. […]
…and this somebody else’s statement, I know – that the worst joke God can play is to make you an
artist, but only a mediocre artist.
7
3
Cit. da Patrice Bollon, Le metamorfosi di una star, in David Bowie Superstar, Milano Libri, 1985.
4
The Independent, 1996.
5
Intervista di Steve Sutherland per New Musical Express, 20 Marzo 1993.
6
Intervista di Chris Hodenfield per Rolling Stone, Ottobre 1979.
7
Intervista di Angus MacKinnon per New Musical Express, Settembre 1980.
5
In ogni caso, i personaggi rimangono la chiave di tutto, almeno all’inizio. Egli non
voleva essere il cantante impegnato che pontifica da un palco:
It’s a product of those things happening out through there. What’s going on in the world?
Pontifications I’d be pleased to make, but they hold so little validity. I’d rather blend them into a
character.
8
Bowie voleva intrattenere. “I want to act” diceva già in un’intervista del 1966,
quando ancora lottava per emergere, passando da una band all’altra. La sua ambizione
era, ed è rimasta, quella di essere un artista dalle molte facce, musicista e non solo
musicista, che usava il rock come un mezzo per trasmettere il suo messaggio, che era
sopra ogni cosa se stesso:
What the music says may be serious, but as a medium it should not be questioned, analysed or taken
so seriously. I think it should be tarted up, made into a prostitute, a parody of itself. It should be the
clown, the Pierrot medium. The music is the mask the message wears – music is the Pierrot and I, the
performer, am the message.
9
Una parafrasi di MacLuhan, di cui aveva colto, adattandolo a se stesso (strategia
tipica per chi ha saputo piegare i tempi, piegandosi ad essi) solo ciò che serviva al suo
scopo, la forma che coincide con il messaggio. Il suo desiderio era essere un entertainer
e unire in qualche modo musica e teatro. Per fare questo si unì alla compagnia teatrale
di Lindsay Kemp, dove imparò il mimo, la recitazione senza l’ausilio di alcun supporto
scenografico. L’occasione per mettere in pratica quanto aveva appreso arrivò con Ziggy,
e Bowie creò il suo capolavoro. Sfruttando i parametri del camp, la sua apparente
superficialità, ha trasmesso un messaggio più profondo di quanto non fosse nelle sue
stesse intenzioni. Il messaggio nascosto dietro un altro messaggio, la maschera del
Pierrot. Bowie, come ha fatto giustamente notare David Buckley
10
, più che essere
propriamente un poseur, assumeva la posa del poseur, in un infinito gioco di specchi e
di rimandi a se stesso e al personaggio da lui interpretato.
Ziggy faceva parte di quello stile musicale denominato glam rock, che a sua volta
presentava molti dei codici del camp, sebbene, come dicevamo, non sia riconducibile in
senso stretto a nessuna delle due correnti. La sua interpretazione del glam, come ha
detto Buckley
11
, “was as much to do with the flaunting of gender codes and injecting a
certain artiness and detachment into popular music as with attempts to shock the masses
in the era of hippy, joss-stick-tinged stupefaction”.
Le caratteristiche principali del glam erano una tendenza all’artificio, alla posa,
all’apparenza esasperata contro il prendersi sul serio dei “cantautori” impegnati e dei
musicisti progressive, l’individualismo contro le ideologie di uguaglianza e di
comunione (che spesso sfociavano nel fondamentalismo) predicate dagli hippies,
l’ambiguità sessuale contro l’ostentazione virile dei vari gruppi rock. C’era soprattutto
un privilegio della forma sul messaggio, e anche una certa ironia nel prendersi gioco di
tutta la serietà della musica contemporanea. Il glam non è mai stato una cosa seria, e
prenderlo come tale è stato l’errore, sottolineato dallo stesso Bowie, del regista Todd
8
Intervista di Timothy White per Crawdaddy, Febbraio 1978.
9
Intervista di John Mendelsohn per Rolling Stone, 1 Aprile 1971.
10
David Buckley, Stange Fascination, London, Virgin Books, p.104.
11
Ibid. p.77.
6
Haines, che con il suo Velvet Goldmine ha voluto raccontare la storia di un cantante
glam all’inizio degli anni ‘70, terribilmente simile alla storia di Ziggy.
Gran parte di queste proprietà si trovano in quel particolare stile che negli anni ’60
(sebbene la sua origine fosse di molto antecedente) venne denominato camp. È possibile
che Bowie non si sia inserito in modo consapevole in questa corrente: avendo fatti
propri (e portati alla migliore espressione) i parametri del glam, andava da sé che
dovesse assumere anche le caratteristiche comuni con il camp. Sicuramente egli
ricordava i Teddy Boys degli anni ’50, e negli anni ’60 aveva in parte vissuto
l’esperienza Mod: entrambi questi movimenti giovanili rivendicavano una propria
identità culturale (o controculturale, come veniva definita) rifiutando la serietà della
cultura “alta” istituzionalizzata e borghese. Ma il vero maestro del camp negli anni ’60,
colui il quale lo portò alla massima popolarità (paradossalmente creando allo stesso
tempo le basi per la sua crisi) fu Andy Warhol. Egli elevò gli oggetti di uso comune al
rango di “opera d’arte” (famose le sue serigrafie rappresentanti le scatole di Campbell e
le bottiglie di Coca-Cola), riprendendo un atteggiamento tipico del camp,
l’apprezzamento in senso snobistico di prodotti popolari e legati alla cultura di massa.
Che li rendeva, ovviamente, di élite. Coloro i quali aderivano alle modalità del camp,
infatti, nonostante si rifacessero alla cultura di massa, proprio per il modo con cui
trattavano questa materia, discriminavano coloro i quali non erano partecipi del loro
“gusto”. C’è dunque nel camp anche una forte componente di individualismo. Uno degli
aspetti che più colpivano in David Bowie all’inizio degli anni ’70, era proprio il suo
individualismo, la sua “unicità”, la sua alterità. Individualismo poi esasperato nella
figura del Duca Bianco. Un isolazionista, avrebbe detto in seguito. L’isolazionismo che
avrebbe poi portato alla solitudine di Berlino, che fu subita più che cercata.
Nel camp era allo stesso tempo d’uso (nella variante di high camp) il vedere in
termini di divertimento ciò che era percepito come serio. Negli spettacoli di Ziggy,
Bowie, che oggi sente di essere stato parte di coloro i quali “had the stance of being
some kind of breakdown between high and low art”
12
, rendeva “popolari” due forme
d’arte che non lo erano, quali il teatro kabuki e il mimo. Si può dire che in Bowie
manchi però il movimento opposto, quello dal basso verso l’alto, che egli ha ritenuto
essere appannaggio di Brian Eno:
One thing that Brian and I realised is that he tends to take things from the street or from low art and
elevate them to a high-art level. I do precisely the opposite. I steal from high art and take it down to street
or vulgar level.
13
Allo stesso tempo, come Warhol, Bowie mostrava che l’arte non prescinde dal
discorso economico: l’arte con Warhol perde l’aura di romantica unicità ed è resa
fruibile dalla massa e serializzata. Bowie smascherava nelle sue canzoni e sul palco le
strategie del music-business, mostrando che egli stesso, come artista, era un’entità
“commerciabile”, e come lui lo erano tutti i cantanti impegnati che predicavano la pace
e l’uguaglianza.
Ci sono poi altri due punti comuni con il camp in Bowie: l’idea della vita come teatro
e i riferimenti all’omosessualità. Come si è detto, il glam privilegiava figure dall’aspetto
androgino favorendo la confusione di genere (gender-bending in inglese). Può essere
significativo il fatto che all’epoca (dal 1970 al 1974) fosse al potere il governo
12
Intervista di Tony Parsons per Arena, Maggio/Giugno 1993.
13
Intervista di Ingrid Sischy per Time Out, 1995.
7
conservatore di Edward Heath. Fabio Cleto nel suo saggio sul camp dice che la prima
attestazione del vocabolo risale al 1909 e indica “una gestualità eccessiva ed effeminata,
sottilmente allusiva a una condizione omosessuale”
14
. La variante detta low camp è
quella propria degli ambienti omosessuali. Sarebbe esagerato dire che quando Bowie
dichiarò di essere gay segnò la propria carriera. Certo fece parlare di sé. E infatti egli
non divenne popolare negli ambienti gay dal momento che ci si rendeva conto di quanto
la sua mossa fosse soprattutto un’ottima trovata pubblicitaria:
In the States, towards the end of the Seventies, I think the gay body was pretty hostile towards me
because I didn’t seem to be supporting the gay movement in any kind of way. And I was sad about that.
Because I had come to the realisation that I was pretty much heterosexual.[…]
It seemed to me the one taboo that everyone was afraid to break. I thought – well, if there’s one thing
that’s going to put me on the edge, this is it. Long hair didn’t mean much anymore. So I thought – right.
Let’s really go into the gay lifestyle and see what that’s about and see how people relate to me.
15
Rimane un’ultima cosa da dire su Bowie e il camp. Susan Sontag ha scritto:
Camp is a vision of the world in terms of style – but a particular kind of style. It is the love of the
exaggerated, the “off”, of things being-what-they-are-not. […]
Camp sees everything in quotation marks. It is not a lamp but a “lamp”.
16
E ancora:
To perceive camp in objects and persons is to understand being-as-playing a role. It is the farthest
extension, in sensibility, of the metaphor of life as theatre.
17
Ziggy significava essere una rockstar solo interpretandone la parte, era l’artificio
supremo, la posa portata alla massima espressione. Lo spettatore era invitato, come ha
detto Cleto, “ad adottare una sorta di pensiero travestito, a fingere di collaborare o a
collaborare fingendo di credere”
18
, mentre nel camp “il soggetto è reso equivalente alla
sua performance e alle sue rappresentazioni”
19
. “It was cold and it rained so I felt like an
actor” diceva Bowie in Five Years, e chi avrebbe potuto dirlo meglio di lui, che aveva
trasportato il suo personaggio dal palcoscenico alla vita? L’ironia del glam, il distacco
del camp: tutto ciò è fallito in quel momento. Dell’immagine nel rock Bowie ha detto:
The interesting thing about rock is that at some point there’s a complete dissociation between the
physical image and the perceived image. At some point the image becomes another person’s altogether,
which the first personal can’t even completely control. And that thing – a kind of social manifestation – is
what people are coming to see.
20
Probabilmente egli a quei tempi fu convinto dell’identità tra immagine e persona, tra
il personaggio e l’interprete. E Bowie rimase solo con il suo personaggio.
14
Fabio Cleto, “Camp”: l’estetismo nella cultura di massa in Storia della civiltà letteraria inglese a cura
di Franco Marenco, Torino, UTET, 1996, p.531.
15
Intervista di Tony Parsons per Arena, Maggio/Giugno 1993.
16
Susan Sontag, Notes on camp, cit. da David Buckley, Strange Fascination, London, Virgin Books,
1999, p.108
17
Ibid.
18
Fabio Cleto, op. cit. p.530.
19
Ibid. p.533.
20
Intervista di Philip Bradley per International Musician, Giugno 1990.
8
Negli anni ‘70 gli spettacoli di Bowie passarono dalla teatralità eccessiva delle
scenografie del Diamond Dogs Tour (in parte riprese per il Glass Spider Tour nel 1987)
alla freddezza espressionista di quello successivo all’uscita di Station To Station. Nel
1978 egli diceva:
I was sort of half serious when I said that I’d developed a school of pretension within rock and roll. I
can see why I said that. I don’t necessarily agree with it now. I only said it as, again, a throwaway. But
there is some strength in it, I think. Quite definitely.
21
Pretenziosità o meno, rimane il fatto che Bowie resta uno dei musicisti più influenti
degli ultimi trent’anni, e come tale è stato votato non dal pubblico, ma dai suoi stessi
colleghi in una classifica stilata nel 1998.
Come dicevamo, Bowie, piuttosto che rivolgersi al mainstream, ricercava il suono
del suo tempo negli stili periferici, nelle avanguardie. In un certo senso con la sua
musica ci ha dato una guida per leggere la nostra era. Non sarebbe comunque del tutto
corretto definirlo musicista di culto, in quanto, anche nei suoi periodi più sperimentali,
egli ha ampiamente superato le vendite che di solito hanno questo genere di artisti. In
ogni caso, come egli si era rifatto a quegli stili marginali, allo stesso modo intere
generazioni di musicisti che sono venuti dopo di lui si sono rifatti alla sua musica.
La sua influenza, a partire dalla già citata esperienza punk, non si è ancora esaurita.
Negli anni ‘80 ci sono stati i New Romantic, capeggiati da Duran Duran e Spandau
Ballet e poi tutta la corrente New Wave e Dark di Depeche Mode, Cure e Bauhaus.
Negli anni ‘90 con il recupero del Brit Pop, ispirato soprattutto alla musica dei Beatles,
Bowie si ritrova negli atteggiamenti decadenti di Suede e Placebo, ma anche nel suono
dei Blur e dei Pulp, che richiama l’apparente semplicità di Hunky Dory. Ultimamente
anche Marilyn Manson, probabilmente il più grande businessman del rock degli anni
’90, ha reso un tributo al glam e a Ziggy nel video di The Dope Show, nel quale
appariva vestito di lustrini e con la chioma rosso fuoco.
Il concerto di addio di Ziggy, diretto da D.A. Pennebaker, ancora oggi non manca di
sorprenderci per la sua contemporaneità, per la sua freschezza, per la genialità con cui
Bowie si è saputo proporre sul palcoscenico. Probabilmente Bowie rimarrà nella storia,
come tutti gli altri musicisti a cui è casualmente capitato durante il loro percorso di
cogliere l’essenza della propria epoca. I Beatles sono stati, come in molte altre cose, tra
i primi. In un certo senso si può dire che Bowie ha iniziato nel punto in cui i Beatles si
erano interrotti. Ma lo ha fatto in tono minore. I Beatles hanno segnato un’epoca,
Bowie, assieme ai suoi “eroi” (che le virgolette di “Heroes” siano una reminiscenza
camp?), le ha assorbite tutte dando loro una nuova interpretazione e un nuovo
significato. Alla ricerca del tempo.
21
Intervista di Michael Watts per Melody Maker, Febbraio 1978.