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INTRODUZIONE
Il Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione del 2008 ha prodotto
un mutamento epocale nei rapporti tra Italia e Libia. È stata
un'operazione di altissimo significato politico, che ha consentito di
superare le conseguenze di un passato doloroso. Decennali dissapori
infatti, inficiavano la crescente interdipendenza economica che non era
mai venuta meno neanche al momento della rivoluzione del 1969.
D‟altronde è un rapporto che copre tutti i settori: politica, economia,
scambi culturali e universitari, sistema di difesa, traducendosi di
conseguenza in un vantaggio per le imprese italiane, alle quali il Trattato
stesso riserva una posizione di speciale riguardo. In fin dei conti, è stata
una lunga gestazione, passata tra minacce, momenti di idillio e continue
ambiguità. Basti ricordare che tra i punti più bassi, vi è stata sicuramente
la cacciata nel 1970 di tutti gli italiani residenti sul suolo libico e
l‟espropriazione di tutti i loro beni. Tuttavia l‟intesa, è stata raggiunta con
il placet italiano alle richieste libiche sui torti subiti durante
l‟occupazione coloniale del secolo scorso. Cinque miliardi di dollari in
cambio di misure per combattere l‟immigrazione clandestina e favorire
gli investimenti delle aziende italiane.
Dopo la revoca delle sanzioni ONU nel 2004, l‟Italia si è trovata in prima
linea nel siglare nuovi accordi commerciali con la Libia. Un vantaggio
sia strategico che economico, il cui punto di partenza lo si fa risalire alla
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costruzione del primo gasdotto in territorio libico nel 1959 da parte
dell‟ENI di Enrico Mattei che ha dato input poi, anche ad investimenti in
altri settori quali l‟agricoltura, l‟edilizia, gli autoveicoli e le armi. Lo
sdoganamento della Quarta sponda ha sortito dunque l‟effetto di far
conciliare le diverse esigenze che i due stati hanno dovuto affrontare per
rilanciare la loro economia. L‟Italia necessita della Libia per rifornirsi di
idrocarburi e ottenere importanti affari per le proprie imprese
nell‟edilizia, nell‟impiantistica e nella costruzione di infrastrutture.
Dall‟altro lato, la Libia sta cercando di attuare una svolta strategica.
Seguendo l'esempio di altri paesi produttori, intende porre le premesse
per costruire un'economia meno dipendente dal petrolio e dal gas naturale
ed importare tecnologie e “conoscenze” per dimezzare il gap di sviluppo
con la sponda settentrionale. Questo processo d‟apertura è però
sottoposto ad alcuni vincoli politici, perlopiù dettati dalla necessità di
fare accettare alla popolazione la collaborazione con l‟Occidente ed altri
invece riguardanti la particolare struttura politica della Jamahiriyya.
Nel corso degli anni, tra i due paesi si è ricercata una stabile
cooperazione basata su un forte sostegno sia politico che diplomatico. Di
conseguenza la stabilità regionale è il collante che dovrebbe mantenere
salda questa collaborazione. Forse non sarebbe possibile pensare oggi ad
una Libia senza il “fattore Gheddafi”; il paese potrebbe cadere in balìa di
conflitti tribali o essere conquistata dal fondamentalismo religioso
diventando una seria minaccia alle porte dell‟Europa. Per non parlare poi
del “lavoro sporco” che la Jamahiriyya sta compiendo per conto dell‟UE
nel bloccare il flusso di immigrati clandestini. Ciononostante, il successo
della politica estera italiana nel capitolo delle relazioni con la Libia
nasconde un altro lato della medaglia che manifesta tutti i limiti della
strategia, essenzialmente basata sull‟ottenimento di vantaggi economici.
Al di là dei recenti, e per taluni eccessivi, toni amicali di Berlusconi, la
Libia è un paese troppo rilevante perché si possa mettere in dubbio la
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stabilità della relazione con il regime con pressioni su temi come i diritti
umani, la libertà di espressione, il trattamento dei richiedenti asilo o altre
questioni. In questo campo e per il futuro non si può che sperare in una
successione illuminata, magari quella del secondogenito di Gheddafi,
Saif al-Islam.
In questi primi mesi del 2011, stanno avendo luogo in Nord-Africa
rivolgimenti politici che hanno spazzato dalla poltrona governativa
leaders storici filo-occidentali come Mubarak in Egitto e Ben Alì in
Tunisia. L‟incendio si è propagata anche nella “illusoriamente” stabile
Libia, la cui situazione, sino ad oggi ( 7 marzo 2011) non è sfociata
ancora in uno stato di normalità. A differenza della Tunisia e dell‟Egitto,
dove la situazione si è apparentemente stabilizzata nel giro di poche
settimane, nella Jamahiriyya l‟instabilità tende a perdurare. Di fatto
sembra che il potere si sia frantumato in favore del sistema clanico/tribale
che ha sempre caratterizzato tale regione, con il rischio quindi di
un‟afganizzazione del paese o di una situazione molto simile alla
Somalia. Si parla di una Cirenaica (la cui città principale è Bengasi) in
mano agli insorti e una Tripolitania, sede dei palazzi governativi, ancora
nelle redini di Gheddafi. È ben noto come la prima regione, in cui è
radicata ancora l‟influenza senussita, sia sempre stata ostile al
Colonnello. Quest‟ultimo per recuperare terreno nei confronti dei
“ribelli”, non si è risparmiato nell‟utilizzare l‟esercito (ed anche i
mercenari) per sedare con metodi poco “ortodossi” la ribellione in corso,
suscitando di conseguenza lo sdegno dell‟Occidente e spingendo, in ogni
caso, verso il sollecitamento per un‟operazione umanitaria sotto l‟egida
dell‟ONU. Il governo italiano dopo le titubanze dei primi giorni all‟inizio
degli avvenimenti, sembra si sia allineato alle posizioni di USA e UE
sulla condanna della repressione libica e sull‟opportunità di applicare
eventuali sanzioni al governo di Tripoli. A questo punto sembra che sia a
rischio lo stesso Trattato stipulato nel 2008. Il ministro della Difesa
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italiano La Russa ha persino dichiarato l‟intesa “sospesa” o “inoperante”.
I rischi derivanti da una cessazione del Partenariato d‟amicizia sono
molteplici e potrebbero ripercuotersi seriamente sull‟economia italiana.
Nel breve periodo, l‟Italia è il paese maggiormente esposto agli effetti
dell‟interruzione delle esportazioni libiche, anche se la fluidità del
mercato del petrolio da un lato, e l‟eccesso di offerta e gli abbondanti
afflussi di gas naturale dall‟altro (specialmente da Algeria e Russia),
dovrebbero garantire al nostro paese un sufficiente grado di sicurezza
degli approvvigionamenti. Lo scenario più pessimistico, quello di una
cronica instabilità, per effetto di una guerra civile o del fallimento dello
stato stesso, potrebbe avere implicazioni molto negative sia per l‟ENI che
per l‟Italia. La compagnia, infatti, vedrebbe gli ingenti investimenti nel
Paese congelati (se non persi) e la propria produzione globale ridursi. Ciò
rischierebbe inoltre, di provocare un aumento del prezzo degli
idrocarburi che inciderebbe su un‟economia internazionale ancora non
uscita dal caos della recente crisi finanziaria.
In questo lavoro analizzo la valenza che questo trattato ha avuto
soprattutto sulle relazione economiche tra i due paesi, partendo con un
excursus storico sui legami economici instaurati dall‟anno della
rivoluzione di Gheddafi, sino ai giorni nostri. Illustrerò il ruolo degli
investimenti libici nella finanza italiana, in rapporto anche con la recente
crisi economica. L‟importanza che hanno giocato petrolio e gas naturale
nel raggiungimento dell‟intesa e le commesse che le imprese italiane
hanno ottenuto grazie all‟accordo, senza dimenticare i risvolti sul piano
politico e sulla nota dolente del contenimento dell‟immigrazione
clandestina.
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(CARTINA FISICA DELLA LIBIA TRATTA DAL SITO “PROGETTO FMH”,
http://www.projectfmh.com/index1.html).
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CAPITOLO I
STORIA DELLE RELAZIONI ECONOMICHE ITALO-LIBICHE
DAL 1969 AI GIORNI NOSTRI
Il 1969 è stato un anno fondamentale nella storia delle relazioni politiche
ed economiche tra Italia e Libia. Da un lato, lo spartiacque tra un paese
appena uscito dal colonialismo e la sua proiezione verso il
consolidamento di uno status internazionale di primo livello. Dall‟altro, il
colpo di stato del giovane colonnello Muammar Gheddafi, che sarà la
causa di un nuovo riposizionamento della politica economica italiana
nello scacchiere del Mediterraneo. Dalla salita al potere del Colonnello
bisognerà ricostruire le basi attraverso cui analizzare il tormentato
rapporto tra Tripoli e Roma.
Gheddafi, immancabilmente, è stato l‟artefice della rottura con il passato,
con l‟incapacità della monarchia senussita di fare riforme contro un
corrotto sistema patrimoniale. Colui che ha reciso il “cordone
ombelicale” che ha legato la Libia del secondo dopoguerra al
neocolonialismo di USA e Gran Bretagna. Il ruolo del popolo libico poi,
il cui tessuto sociale si è sempre basato sulla solidarietà e sugli interessi
di famiglie, clan , tribù, catapultate all‟improvviso nell‟esperimento di
una terza via tra marxismo e capitalismo denominata dal suo fautore
“Jamāhīriyya” ossia “Stato delle masse”. Un sistema di congressi e
comitati popolari, una “società senza Stato”, per il cui raggiungimento è
stato necessario smantellare un gran numero di istituzioni politiche ed
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economiche. Il risultato finale non ha fatto altro che determinare, quale
“fulcro” dello Stato, una struttura informale caratterizzata da un
equilibrio di potere ed autorità che include una ristretta cerchia di intimi
intorno al leader.
La sovrastruttura ideologica che ha sotteso questo slancio si è basata su
un forte richiamo al nasserismo, di cui il Colonnello si è auto designato
quale principale erede. Il nazionalismo d‟altronde, è stato anche l‟arma
attraverso la quale la Libia ha difeso la sua risorsa più importante: il
petrolio (e successivamente il gas). Elemento attorno a cui si snodano le
fasi più importanti della storia recente dell‟ ex “scatolone di sabbia” : il
colonialismo italiano; la monarchia senussita e la Jamāhīriyya.
Gli italiani, a causa della seconda guerra mondiale, non sono riusciti in
tempo a sfruttare il combustibile fossile. Negli anni ‟50 però, grazie
all‟opera dell‟ENI di Enrico Mattei, hanno costruito il primo impianto di
estrazione. La monarchia invece, è riuscita a sfruttare le entrate delle
esportazioni petrolifere per creare una forma di clientelismo economico,
riuscendo di conseguenza ad ottenere anche l‟incoraggiante risultato
della crescita dell‟alfabetizzazione, dei salari e della spesa sanitaria.
Gheddafi ha spiazzato tutti, espellendo in primis dal suolo nazionale le
basi americane ed inglesi. Atto indispensabile per dare inizio alla
creazione di quella “repubblica delle masse” auspicata nelle righe del
Libro verde, summa del pensiero politico del Colonnello. Tuttavia il
provvedimento più eclatante è stato preso nel 1970 con la cacciata e la
confisca di tutti i beni della comunità italiana, considerata anche come la
prima incrinatura dei rapporti politici ed economici tra i due paesi.
Questa misura è stata adottata in violazione del trattato del 2 ottobre
1956, nel quale lo Stato libico riconosceva e rispettava i diritti civili e di
proprietà dei cittadini italiani presenti sul territorio. Il testo stabiliva
inoltre che «nessuna contestazione potrà essere avanzata nei confronti
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delle proprietà dei cittadini italiani in Libia, acquistati anteriormente alla
costituzione dello Stato libico».
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Inoltre l‟accordo «aveva riconosciuto
alla Libia una somma di quasi 5 miliardi di lire “come contributo alla
ricostruzione economica” e non quale risarcimento per i danni di guerra,
come in realtà richiesto inizialmente dai libici».
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Secondo Gheddafi era inammissibile che le terre libiche fossero proprietà
degli stranieri. Il tutto è stato giustificato come la “giusta” aspirazione del
popolo libico «a riavere le proprietà prese ai propri padri ed avi durante il
colonialismo italiano che ha portato la morte in questo paese e profanato
le cose sacre, impossessandosi delle proprietà del popolo e
sottomettendone le persone.»
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Nonostante l‟Italia in quel momento fosse attraversata da una crisi di
governo, l‟approccio moderato e realista del ministro Aldo Moro, fu teso
a contrastare l‟asprezza del provvedimento anche con il sostegno di altri
paesi arabi amici. L‟Egitto in primis. Allo stesso tempo si
incominciavano a valutare delle misure di ritorsione.
Una reazione di forza, prontamente scartata a causa della presenza nel
Mediterraneo della flotta russa e delle controproducenti reazioni che si
sarebbero sollevate nel mondo arabo. L‟istituzione di una tassa sui
combustibili fossili importati, in modo da coprire l‟indennizzo per gli
italiani espropriati. Dar vita a sanzioni economiche ed in tal caso ridurre
le importazioni di petrolio in favore di altri paesi produttori, ad esempio
il Golfo Persico.
1
Varvelli, Arturo, L’Italia e l’ascesa di Gheddafi, la cacciata degli italiani, le armi e il
petrolio (1969-1974), Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2009, p. 108.
2
Varvelli, L’Italia e l’ascesa di Gheddafi, la cacciata degli italiani, le armi e il petrolio
(1969-1974), p. 31.
3
Varvelli, L’Italia e l’ascesa di Gheddafi, la cacciata degli italiani, le armi e il petrolio
(1969-1974), p 184.