Giacomo Leopardi, grazie alla sua solidissima competenza filologica e
alle svariate traduzioni degli antichi, saprà fornire alcune preziose
osservazioni sulla traduzione all'interno dello Zibaldone.
Di Elio Vittorini verrà presentata una nutrita raccolta di testi
proveniente dalla sua corrispondenza con amici, editori, collaboratori,
scrittori e funzionari governativi. Nella lettere riportate l’autore
racconterà alcuni aspetti della sua attività traduttiva: gli inizi difficili,
la censura fascista e le vicende editoriali dell’Americana, i rapporti
con gli altri autori che collaborarono alla sua opera editoriale, ecc.
Il principale contributo di Pavese consisterà nella valutazione a
posteriori da lui effettuata sulle traduzioni proprie e di altri autori
durante il regime fascista. Il titolo del paragrafo a lui dedicato
(“Ritorno all’uomo”) rimanda ad un suo famoso articolo pubblicato
appena finita la guerra in cui giustificò le scelte intraprese negli anni
passati mostrando il valore culturale e umano che le contraddistinse e
considerandole un presupposto indispensabile per la rinascita della
cultura e della vita civile italiane.
L’ultimo autore-traduttore proposto sarà Corrado Alvaro. Ritroveremo
negli articoli dello scrittore e giornalista calabrese una critica severa e
puntuale alle traduzioni delle opere teatrali circolanti in Italia nel
dopoguerra. La loro scarsa qualità verrà indicata come uno dei motivi
del progressivo impoverimento della lingua italiana, che rischia di
adattarsi passivamente al loro stile sciatto e innaturale.
I La traduzione come fenomeno culturale
1.1 La traduzione e la nascita delle culture armena, russa e
tedesca
1.1.1 Le traduzioni armene della Bibbia e della “scuola
ellenistica”
La letteratura armena inizia agli albori del V sec. d.C. grazie
all’immane sforzo traduttivo che rende dal greco in armeno i libri
della Bibbia. Tale traduzione (denominata dei “primi traduttori”)
costituisce il testo più antico e fondamentale della letteratura armena,
perché è proprio per essa che l’alfabeto armeno viene creato e la
lingua armena viene per la prima volta fissata per iscritto. Il rispetto
per il testo sacro impone di tradurlo integre et fideliter, cioè senza
aggiungere né togliere nulla, ed infatti le poche divergenze dal testo
greco generalmente in uso sono imputabili a varianti del testo greco
originario piuttosto che a libere interpretazioni dei traduttori.
Straordinario nell’opera dei “primi traduttori” è però che l’aderenza al
testo greco non viene ottenuta piegando una lingua come l’armeno
(privo di una qualsiasi tradizione scritta) alla struttura del greco
(lingua che invece aveva già allora un’antichissima e ben consolidata
tradizione scritta), ma sforzandosi di trovare soluzioni compatibili con
l’armeno e mostrando nella piena riuscita di ciò una singolare maestria
nell’uso delle proprie risorse linguistiche. A parte gli inevitabili
prestiti e calchi lessicali e semantici (talvolta anche sintattici) la prima
traduzione della Bibbia riesce ad essere fedele ed il più possibile
aderente al testo di partenza senza snaturare la lingua armena, e ci
riesce in maniera così chiara e naturale che essa viene tuttora
considerata dagli armeni “la regina delle traduzioni”. E’ stata (ed è)
tenuta in altissima considerazione da molti studiosi, specialmente per
quanto riguarda la traduzione dei Vangeli, proprio in virtù della sua
scelta di una traduzione del significato del testo piuttosto di
un’impossibile traduzione parola per parola. Essa è anche servita da
modello per le traduzioni coeve dei testi dei padri della chiesa
(Eusebio di Cesarea, Giovanni Crisostomo, Cirillo di Alessandria,
Basilio di Cesarea, ecc.), che costituiscono, insieme alla prima, il
corpus della letteratura classica armena.
Cfr. G. Bolognesi, Traduzioni Tardo-antiche ed Alto-medioevali in Medio Oriente, in AA.VV.,
Processi Traduttivi: Teorie ed Applicazioni, La Scuola, Brescia 1982, pp. 11-38.
A questo testo fondamentale succedono un’altra traduzione della
Bibbia (denominata dei “secondi traduttori”, allievi dei primi ed
operanti nella seconda metà del V secolo) e a partire dal VI secolo la
cosiddetta “scuola ellenofila”, che traduce autori greci. Poco c’è da
dire riguardo alla Bibbia dei “secondi traduttori” se non che il suo
armeno si differenzia già da quello della prima traduzione e può essere
perciò definito “postclassico”.
Completamente differenti per tecnica traduttiva e caratteristiche
linguistiche sono invece le traduzioni della “scuola ellenistica”.
Questo periodo è unanimemente considerato il più oscuro di tutta la
letteratura armena. Queste traduzioni letterali sono talmente pervase di
rozzi grecismi e di pedisseque imitazioni di costrutti sintattici greci da
risultare difficilmente comprensibili agli stessi armeni senza la
comparazione con gli originali greci. Numerosissimi sono i calchi
greci, persino nei casi in cui i “primi traduttori” avevano utilizzato
termini armeni dello stesso significato di quelli greci, i traduttori della
“scuola ellenistica” ricalcano pedissequamente gli elementi costitutivi
dei termini greci, forgiando così neologismi pressoché incom-
prensibili. Ma oltre a questi meri esercizi linguistici sono molti i calchi
dal greco che rispondono a reali necessità espressive e che sono entrati
effettivamente a far parte del patrimonio lessicale armeno: gran parte
della terminologia tecnica armena in campo teologico, retorico,
filologico, letterario, scientifico, matematico, astronomico, ecc., è
costituita da calchi greci. Grazie ad essi inoltre l’armeno ha sviluppato
una grande facilità ad assimilare termini stranieri per mezzo di prefissi
e suffissi. Infine, le traduzioni della “scuola ellenistica” sono
importantissime in campo filologico perché hanno conservato opere
della letteratura greca di cui non si conservano redazioni originali
indenni da successive interpolazioni e manomissioni (come nel caso
dei Progymnasmata di Elio Teone) o addirittura di opere i cui
originali greci sono andati persi (come molte delle opere di Filone).
La letteratura armena nasce quindi da una traduzione e si sviluppa per
alcuni secoli grazie ad altre traduzioni. Esse hanno influenzato
profondamente la cultura e la stessa lingua armene: è attraverso la
prima traduzione della Bibbia che la nazione armena prende coscienza
di sé, mentre il costante confronto con la cultura europea (soprattutto
greca) ha avvicinato due culture geograficamente lontane dando a
quella armena il carattere cosmopolita che le è proprio.
1.1.2 Le traduzioni di Cirillo e Metodio: fondamenti delle
letterature slave e primi sviluppi nella Russia di Kiev
Nell’863 d.C. l’impero di Bisanzio manda in Moravia i due monaci
Costantino (in seguito celebre con il nome di Cirillo) e Metodio allo
scopo di cristianizzare quella regione prima che lo faccia la Chiesa
romana (e l’impero germanico ad essa alleato). Qui i due monaci
iniziano un’intensa predicazione in lingua slava, che conoscono
perché è di uso corrente nella natia Salonicco, e traducono alcuni testi
creando un alfabeto adatto alla nuova lingua. Così facendo danno
inizio alla prima tradizione scritta slava. La Moravia è nell’area
d’influenza del cristianesimo occidentale, cosicché dopo alcuni
decenni il cristianesimo di lingua slava viene sradicato dai feudatari e
dal clero germanico, che utilizza il latino come tutto il clero alle
dipendenze di Roma, e definitivamente cancellato dall’invasione
magiara. Gli allievi dei due monaci salonicensi, cacciati dalla
Moravia, portano con sé i libri liturgici tradotti in slavo e continuano
l’opera di evangelizzazione più a sud, nello stato bulgaro di Boris I,
anch’esso abitato da slavi. La relativa uniformità linguistica di tutti i
popoli dell’area slava rende possibile l’utilizzo della stessa lingua e
costituisce un’arma potentissima nelle mani dell’impero bizantino
contro l’espansione religiosa occidentale, che oltre alla Moravia
conquista la Slovenia, la Croazia e la Polonia, ma non va oltre. Dopo
la Bulgaria è la volta della Serbia e verso la fine del millennio tocca
alla Russia (il 988 è tradizionalmente considerata la data ufficiale
della sua cristianizzazione, con il battesimo del principe di Kiev
Vladimir Svjatoslavič). Le conseguenze culturali dell’evangeliz-
zazione della Russia sono enormi: essa passa dallo stato di nazione
barbarica a quello di nazione europea a tutti gli effetti perché
l’appartenenza alla Chiesa equivale alla conquista di diritti sociali e al
riconoscimento internazionale.
Per lungo tempo gli slavi di Russia, Bulgaria e Serbia sono
accomunati dalla stessa letteratura liturgica e dalla stessa lingua, che i
filologi hanno chiamato “paleoslava”, in quanto le differenze
nazionali diventeranno sensibili solo in seguito. In realtà questa
comunanza linguistica si attua solamente nella lingua letteraria
liturgica, mentre le parlate locali diventano progressivamente dei
dialetti e poi delle lingue autonome. Le traduzioni dal greco d’altra
parte arricchiscono lo slavo letterario (attraverso i calchi e altri
Cfr. R. Picchio, Storia della Letteratura russa antica, Nuova Accademia Editrice, Milano 1959,
pp. 11-51.
espedienti prosodici) consolidandolo come lingua letteraria. Si crea
così una sorta di dualismo linguistico: una lingua letteraria comune a
Russia, Serbia e Bulgaria, e una lingua popolare orale che diventa
sempre più autonoma e differenziata.
Le traduzioni russe comprendono vari generi letterari: naturalmente i
primi testi ad essere tradotti sono testi liturgici, ma accanto ad essi
compaiono anche testi apocrifi, agiografie e anche letteratura profana:
trattati e testi d’intrattenimento. Per quanto riguarda i primi, bisogna
innanzitutto dire che per avere una versione completa della Bibbia
bisognerà attendere fino alla fine del XV secolo, però già dal X secolo
circolano in Russia messali, evangeliari e raccolte di preghiere. Il testo
religioso più antico pervenutoci è il cosiddetto Vangelo di Ostromir,
scritto dal diacono Grigorij per il nobile Ostromir di Novgorod intorno
agli anni 1056-’57. Parallelamente ai testi canonici si diffondo le
traduzioni di testi apocrifi elaborati dalla cristianità orientale e talvolta
anche da quella occidentale, in cui però accanto ai personaggi biblici
compaiono anche personaggi storici o mitici, e che in seguito
influenzeranno spesso la letteratura russa (quando comincerà a
produrre testi autonomi, non solo traduzioni). La cosiddetta Paleja
contiene le più diffuse leggende del vecchio testamento, mentre
l’Andata di Maria alle pene dell’inferno contiene una visione
dell’inferno in cui il contrappasso riflette la morale e il diritto
popolare degli slavi balcanici che l’hanno prodotta. Per quanto
riguarda le agiografie, il loro carattere stilistico principale è una
rigidezza formale che porta ad una schematizzazione della vita dei
santi, allo scopo di creare nelle coscienze dei credenti un’idea
pressoché invariabile di santità: il santo è devoto ma è anche
mansueto, esempio del suddito perfetto. Tutto ciò che non ha a che
fare, direttamente o indirettamente, con la religione è costituito da
raccolte dotte di logica, storia, scienze naturali, poesia di autori
bizantini, cosicché per lungo tempo in Russia il concetto di libro si
identificherà con quello di raccolta dotta.
1.1.3 La traduzione di Lutero della Bibbia
La traduzione di Lutero è l’ultima in ordine cronologico delle tre
grandi opere di traduzione qui prese in considerazione ma non è
assolutamente inferiore alle precedenti per quanto riguarda l’enorme
influsso operato sulla lingua e sulla cultura del proprio paese. Essa
rappresenta uno degli esempi più alti della tradizione occidentale
nell’ambito della pratica e della teoria della traduzione, che ha trovato
proprio nei testi sacri della Bibbia il suo campo d’azione principale
1
.
Da San Gerolamo fino a Lutero l’esigenza di diffondere i Vangeli in
lingue diverse dal greco costituisce uno sforzo costante di ogni chiesa
d’Europa, poiché nessun catecumeno dev’essere tenuto lontano dalla
salvezza a causa delle barriere linguistiche, né tantomeno è possibile
per i ministri del culto conoscere sommariamente le Sacre Scritture o
addirittura pronunciarle senza essere capiti. Inoltre ogni spinta
riformistica in seno alla Chiesa si è necessariamente accompa-gnata
ad una ricerca di una nuova versione della Bibbia, sentita come più
autentica e comprensibile rispetto a quella ufficiale, vista ormai come
fuorviante interpretazione del messaggio divino
2
. L’opera di Lutero si
prefigge quindi di fornire al popolo tedesco lo strumento
indispensabile per il suo riscatto religioso, basato anche sulla lettura
privata dei testi sacri, che allora devono necessariamente essere scritti
in una lingua compresa facilmente da tutti a prescindere dalla classe o
dalla regione di provenienza. Lutero inizia quest’opera immane nel
periodo più travagliato della sua vita: la bolla papale di scomunica
l’aveva già colpito nel 1520 ed il fatto di averla pubblicamente
bruciata non aveva che peggiorato la sua posizione di fronte alla
chiesa di Roma, così che la sua ferrea decisione di accettare l’invito a
presentarsi alla dieta di Worms (dalla quale non sarebbe certamente
mai più tornato) assume le tinte inequivocabili della volontà di
martirio come testimonianza di fede. Ma Lutero non giunge mai a
Worms, perché viene rapito dagli uomini del principe Federico il
Saggio di Sassonia, suo protettore, e tenuto nascosto nella fortezza di
Wartburg
3
. Qui, tra sofferenze fisiche e spirituali, traduce in due mesi
il Nuovo Testamento basandosi soprattutto sulla traduzione che ne
aveva fatto Erasmo da Rotterdam nel 1516: una versione in latino
filologicamente corretta. L’edizione di Lutero esce nel settembre del
1522 (la cosiddetta “Septemberbibel” o “September-Testament”,
stampata da Hans Lufft
4
) e ad essa ne segue subito un’altra a
dicembre, segnata da centinaia di correzioni
5
. Per una traduzione
completa della Bibbia bisogna aspettare fino al 1534: in quest’opera è
aiutato da diversi collaboratori, primo fra tutti Melantone, ma il peso
dell’enorme responsabilità connessa ad una simile impresa farà sì che
Lutero riveda e corregga la sua traduzione fino alla sua morte
6
.
1
G. Steiner, Dopo Babele, Garzanti, Milano 1994, p. 297.
2
G. Steiner, ibid.
3
L. Mittner, Storia della Letteratura Tedesca, Einaudi, Torino 1977, vol. I, tomo secondo, p.611.
4
M. F. Frola, Lutero e l’Arte del Tradurre, in AA.VV., Processi Traduttivi: Teorie ed applica-
zioni, La Scuola, Brescia 1982, p. 59.
5
L. Mittner, op. cit., p. 617.
6
M. F. Frola, op. cit., p.59.
Le due edizioni dei Vangeli conoscono da subito un grande successo:
87 in altotedesco e 19 in basso tedesco, con una tiratura, soltanto tra il
1522 e il 1534, stimata intorno alle 200˙000 copie
7
. L’opera di Lutero
ha sui tedeschi un doppio effetto: da una parte è lo strumento
indispensabile attraverso cui la riforma religiosa si diffonde
rapidamente tra di loro e dall’altra fornisce loro l’esempio di una
lingua allo stesso tempo letteraria e popolare, una lingua finalmente di
tutti i tedeschi
8
. Inizialmente Lutero dichiara di adottare “la lingua
della cancelleria sassone, che è seguita da tutti i principi tedeschi”,
però successivamente adotta nelle sue edizioni continuamente rivedute
le forme del dialetto basso sassone (in particolare quello di Meissen,
da sempre considerato particolarmente puro), che i parlanti delle altre
regioni assimilano spontaneamente leggendo la sua Bibbia;
contemporaneamente egli elimina da questo dialetto le forme che si
adattano poco o per nulla al senso linguistico degli altri dialetti,
sempre finaliz-zando la sua ricerca ad una lingua immediatamente
comprensibile da tutti
9
.
Effettivamente Lutero non crea questa lingua, il Neuhochdeutsch,
perché una parziale unificazione fonetico-morfologica era già iniziata
nelle zone orientali dal tempo della loro colonizzazione (XIII secolo)
mentre un’unificazione sintattica c’era già stata grazie alle cancellerie
(soprattutto quella di Praga) durante il XIV secolo, ma è grazie alla
sua Bibbia che essa si diffonde ampiamente
10
.
Lutero parla della sua traduzione in diversi passi delle Tischreden
(ossia i discorsi che teneva a tavola con gli studenti a pensione da
lui)
11
e nella famosa Sendbrief vom Dolmetschen, del 1530, dove tra
l’altro rende ragione
12
della sua traduzione di Rom. 3,28
(“Arbitramur, hominem justificari ex fide absque operibus”): “Wir
halten, das der mensch gerecht werde on des gesetzs werck, allein
durch den glauben”
13
. Come motivazione all’aggiunta di “allein” nel
testo tedesco egli afferma che è tipico della lingua tedesca usare
“allein” in contrapposizione a “nicht” o a “kein” quando si parla di
due cose delle quali una viene affermata e una negata, e a sostegno di
questa tesi adduce alcuni esempi tratti dalla lingua quotidiana
14
. Con
7
M. F. Frola, ibid., p. 60.
8
L. Mittner, op. cit., p. 468.
9
L. Mittner, ibid., p. 618.
10
L. Mittner, ibid.
11
M. F. Frola, op. cit., p. 60. Alla nota 1 è segnalata una lista di questi interventi, in riferimento
alla Weimarer Ausgabe delle opere di Lutero.
12
Secondo Mittner con scarso successo, cfr. “L. Mittner, op. cit., p. 620”.
13
M. F. Frola, op. cit., p. 62.
14
M. F. Frola, op. cit., p. 63.
questo egli vuole affermare che non è possibile una traduzione
letterale, parola per parola, di un testo perché le due lingue di partenza
e di arrivo di una traduzione adottano strategie diverse per esprimere
uno stesso concetto, pertanto il traduttore deve paradossalmente
riservarsi di “alterare” il testo proprio per preservarne il significato
15
.
Lutero raccomanda comunque di imparare le tre lingue necessarie per
comprendere la Bibbia nel testo originale: ebraico, greco e latino.
Nonostante lo sforzo di chiarificazione del proprio operato di
traduttore Lutero non può essere considerato un teorico della
traduzione: per lui essa è solamente il mezzo per raggiungere un fine
più alto, quello religioso, e anche quando mette nero su bianco alcune
sue idee in materia (come testimonia l’esempio della “Sendbrief”) è
solamente per difendere la sua traduzione dagli attacchi di chi avversa
tale fine religioso
16
.
15
Una posizione simile è espressa da San Girolamo in una lettera ( San Girolamo, Epistola LVII,
Ad Pammachium de optimo genere interpretandi, 5,7) anche se non è riferita alle Sacre Scritture:
“Ego enim non solum fateor, sed libera voce profiteor me in interpretatione Graecorum absque
sripturis sanctis, ubi et verborum ordo mysterum est, non verbum e verbo sed sensum exprimere
de sensu.”, cit in “ M. F. Frola, op. cit., p. 64, nota 9”.
16
M. F. Frola, op. cit., p. 66.
II) La traduzione nelle teorie linguistiche del XX° secolo
2.1 La traduzione nelle teorie linguistiche del XX° secolo
Il seguente paragrafo si ripropone di ricostruire brevemente le tappe
della difficile affermazione della pratica traduttiva all’interno delle
teorie linguistiche contemporanee. Infatti, nonostante l’attività pratica
della traduzione sia continuata e si sia resa sempre più necessaria
durante tutto questo secolo, solo in anni relativamente recenti è
riuscita a conquistarsi l’attenzione che le spetta sul piano teorico.
De Saussure, benché non tratti esplicitamente della traduzione nelle
sue opere, ha influito profondamente sull’atteggiamento tenuto da
gran parte dei linguisti nei confronti di questo fenomeno linguistico,
almeno fino agli anni sessanta. Secondo de Saussure il segno è
un’entità psichica articolata in significante e significato e caratte-
ristiche fondamentali del segno sono l’arbitrarietà e il valore. Proprio
l’arbitrarietà del legame tra significato e significante sembrerebbe
ammettere la possibilità di esprimere uno stesso significato tramite
significanti diversi da quelli codificati dalla langue ma reperibili in
altre lingue, ammettendo così implicitamente anche la possibilità della
traduzione. In realtà, però, il pensiero di de Saussure va nella
direzione opposta perché il valore di ogni segno esiste in forza
dell’opposizione dello stesso a tutti gli altri segni del codice
linguistico a cui appartiene (opposizione articolata su entrambi i piani
del significato e del significante), cosicché è impossibile pensare di
poter esprimere lo stesso significato tramite significanti diversi o
addirittura appartenenti a codici linguistici differenti. Infatti la langue
degli strutturalisti è un sistema segnico chiuso in se stesso che non può
essere messo in rapporto con altri sistemi linguistici. Tuttavia, in un
passo assai oscuro della sua dottrina, sembra sia lo stesso de Saussure
a lasciare aperto uno spiraglio verso una dimensione interlinguistica
accennando al concetto di signification. Tale concetto è stato varia-
mente interpretato proprio a causa dell’oscurità con cui è espresso: De
Mauro
1
(ed inizialmente anche Rigotti
2
), istituendo un rapporto tra il
binomio saussuriano significato: signification e quello Sinn:
Bedeutung teorizzato da Frege, lo considera come la realizzazione del
significato di un segno a livello della parole, e cioè dell’esecuzione,
Cfr. M. Baggio, La traduzione nelle teorie linguistiche contemporanee, in AA.VV., La tradu-
zione nell’insegnamento delle lingue straniere, La Scuola, Brescia 1984, pp. 7-30.
1
Cfr. T. De Mauro, nota n. 231 del commento a F. de Saussure, Corso di linguistica generale,
Laterza, Bari 1974, pp. 440-442; cit. in M. Baggio, op. cit., p. 9.
2
E. Rigotti, Principi di teoria linguistica, La Scuola, Brescia 1979, p. 38, nota n. 49.
che è diverso da quello di significato, che fa parte della langue, e cioè
del codice. E’ proprio qui che De Mauro rintraccia un’apertura
interlinguistica nella teoria di de Saussure: è la signification a
rimanere intatta nella traduzione e quindi a permetterla in quanto
appartenente alla parole e non alla langue (che, lo ripeto, non può
essere messa in rapporto con altri sistemi linguistici). Così de
Saussure
3
spiega che mutton e mouton hanno la stessa signification in
inglese ed in francese, pur non mantenendo lo stesso significato, che
invece resta specifico per ognuno dei due sistemi linguistici. Infatti è
possibile dire:
“Je mange du mouton” e “I’m eating some mutton”
e:
“le mouton a été tué” ma “the sheep (non the mutton!)
has been killed”
perché il referente extralinguistico dei due termini è lo stesso, ma
diversi sono i campi semantici che i due termini sottendono nelle due
diverse lingue. Successivamente, però, Rigotti
4
si distacca dalla
posizione di De Mauro e rifiuta un accostamento tra il binomio
significato: signification e quello Sinn: Bedeutung. Rigotti
5
nota che
l’opposizione significato: signification non opera nella parole soltanto
a livello interlinguistico, ma anche intralinguistico e lo accosta al
concetto di culminatore semantico proposto da Cigada.
Sia Martinet che Hjelmslev, seppure mantenendosi su posizioni
teoriche distinte, riaffermano l’autonomia e l’autosufficienza del
singolo sistema linguistico sostenute da de Saussure e rinunciano a
dare una spiegazione al fenomeno della traduzione. Tuttavia Hjemslev
non trascura la problematica interlinguistica nella sua teoria e propone
a riguardo la sua nozione di “senso”: i termini “mucca” e “vacca”
sono due varianti dello stesso significato perché ad una differenza sul
piano dell’espressione non corrisponde una differenza sul piano del
contenuto, mentre “mucca” e “asino” sono due invarianti perché
stavolta la differenza si manifesta anche sul piano del contenuto; tale
procedimento di analisi è detto dallo stesso Hjemslev “prova di
3
F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1970, p. 31; cit. in E. Rigotti, ibid.
4
E. Rigotti, La traduzione nelle teorie linguistiche contemporanee, in Processi traduttivi: teorie
ed applicazioni, La scuola, Brescia 1982, p. 72.
5
E. Rigotti, Principi di teoria linguistica, La Scuola, Brescia 1989, p. 366.
commutazione” e Rigotti
6
afferma che la traduzione può essere
considerata un’estensione della prova di commutazione dal livello dei
lessemi a quello del testo. Ne consegue che due testi equivalenti scritti
in due lingue diverse potrebbero venire considerati come le due
varianti di un’unica invariante, cioè due espressioni diverse di uno
stesso senso.
E’ però con Jakobson che la traduzione viene riconosciuta nella sua
rilevanza linguistica. Secondo l’autore il significato di un’espressione
equivale ad un’altra espressione con il medesimo significato, equivale
cioè a tradurre. Così, mentre nella teoria di de Saussure la traduzione
non trovava spazio a causa della concezione del significato, nella
teoria di Jakobson essa coincide con l’interpretazione stessa del segno.
Jakobson, infatti, riprende e fa propria la tesi di Peirce secondo cui la
destinazione del segno consiste nella sua traduzione in altri segni
7
.
Naturalmente la sostituzione di un segno con un altro non comporta
un’equivalenza assoluta tra i due: questa non avviene nemmeno
all’interno dello stesso sistema linguistico per quanto riguarda il
fenomeno della sinonimia, mentre per quanto riguarda la traduzione
vera e propria (quella interlinguistica) Jakobson afferma che essa è
possibile grazie al fatto che abitualmente non si traducono singole
unità linguistiche ma interi messaggi. Spostare quindi l’equivalenza
dai singoli termini (come in de Saussure) ad unità più grandi come i
messaggi sottolinea l’importanza acquisita dall’atto locutorio
concreto, indipendentemente dal fatto se sia parlato o scritto, e
inserisce a pieno titolo il contesto (o il cotesto) nell’ambito della
ricerca linguistica. E’ il primo passo verso il riconoscimento
dell’inadeguatezza della concezione del significato di un testo come la
semplice somma dei significati dei singoli segni, anche perché è la
stessa prassi empirica della traduzione a mostrare come uno stesso
messaggio, uno stesso significato, possa venire espresso dalla L2 con
elementi del codice diversissimi da quelli della L1 rimanendo
sostanzialmente immutato.
Un altro modello interpretativo, quello di Mel’čuk, presenta delle
affinità con quello di Jakobson riprendendone il concetto di significato
e concentrando l’attenzione sui processi traduttivi. Per Mel’čuk il
pensiero ha un’esistenza prelinguistica autonoma rispetto alla lingua,
la quale serve invece a dargli una forma adatta ad esprimerlo
all’interno della comunicazione. Lingua come traduzione dunque,
lingua come tramite tra senso e testo e viceversa. Proprio per questo
6
E. Rigotti, La traduzione…, cit., p. 73.
7
E. Rigotti, Principi…, cit., p. 90.
motivo lo studioso propone un modello del funzionamento del
linguaggio denominato “Senso <==> Testo” dove il senso, in quanto
prelinguistico, prescinde da qualsiasi elemento riconducibile a singole
lingue concrete. Un altro aspetto di grande importanza è costituito da
quelle particolari funzioni che l’autore chiama funzioni lessicali. Esse
legano la voce lessicale presa in considerazione (la “parola chiave”)
con i suoi correlati lessicali, vale a dire altri termini o gruppi di altri
termini che sostituiscono o possono sostituire questa voce lessicale in
determinati contesti (è il caso delle “varianti paradigmatiche” o
“sostituti”) oppure che vengono necessariamente utilizzati per
esprimere determinati sensi in rapporto alla parola chiave. Grazie al
concetto di funzione lessicale l’analisi del lessico trova una
considerevole semplificazione ed è inoltre possibile individuare nuovi
rapporti tra le voci lessicali arricchendo la descrizione delle single
voci, qualità particolarmente utili nell’ambito dell’esercizio concreto
della traduzione. Vale la pena di notare, a questo punto, come il
modello dello studioso sovietico non solo asserisce che la lingua è un
meccanismo traduttivo, ma è di grande aiuto nella pratica concreta
della traduzione.
La necessità di ampliare l’unità minima di ricerca linguistica oltre i
confini dei singoli lessemi è sentita anche dalla scuola generativista
che, non rintracciando nessuna proiezione diretta tra struttura del
pensiero e struttura del discorso, assume la frase come unità minima.
Sebbene il fondatore del generativismo, Chomsky, non ammetta la
traduzione (egli infatti colloca la struttura profonda, responsabile della
generazione dell’enunciato e quindi del significato, ad un livello
successivo a quello delle inserzioni lessicali, che sono
necessariamente intralinguistiche: quindi se il lessico è parte del
significato e il lessico è stretta-mente intralinguistico allora anche il
significato è strettamente intralinguistico, e perciò intraducibile) gli
sviluppi successivi dovuti agli allievi-contestatori semantico-
generativisti dimostrano un’apertura verso le tematiche testuali di
tema e rema (rispettivamente, secondo una definizione della Scuola di
Praga: ciò di cui si dice, che è già noto, e ciò che propriamente si dice
nell’enunciato, che è invece un incremento di informazione) e,
dimostrando l’inadeguatezza della concezione strettamente
intralinguistica del significato proposta da Chomsky, portano
l’attenzione sui processi universali di significazione che sottendono a
tutte le lingue. Infatti le differenze superficiali riscontrabili tra le
lingue naturali diminuiscono man mano che l’indagine si sposta verso
i livelli più profondi soggiacenti all’enunciato. E’ interessante a questo
proposito citare alcuni aspetti della ricerca di Fillmore, più
precisamente riguardo alla sua “grammatica dei casi” e al suo concetto
di significato. Secondo l’autore i rapporti che intercorrono tra i
sintagmi nominali e i predicati, aldilà delle svariate manifestazioni
nelle diverse lingue, sono di numero limitato e comuni a tutte le
lingue. Questi “casi” appartengono ad un livello soggiacente
all’enunciato e sono in grado di enucleare il contenuto semantico
comune a tutte le lingue. Per quanto riguarda invece il concetto di
significato basti ricordare che secondo l’autore ogni voce lessicale non
contiene un’unica informazione semantica ma un insieme di
informazioni ordinate gerarchicamente: oltre all’informazione
privilegiata di un termine (ossia il suo significato in senso stretto)
esiste tutta una serie di altre informazioni presupposte o menzionate in
modo secondario, che possono entrare in gioco a seconda del contesto
in cui il termine è inserito e mutare anche completamente il significato
complessivo dell’enunciato. Tale meccanismo è massimamente
evidente nel linguaggio metaforico ma non bisogna dimenticare che
esso comunque è sempre presente anche nell’uso quotidiano e
concreto della lingua. Il concetto di significato di Fillmore è stato
avvicinato da alcuni studiosi a quello di signification di de Saussure, e
insieme alla suddetta “grammatica dei casi” testimonia l’apertura
interlinguistica dell’autore sematico-generativista.
Sempre all’interno della corrente generativista merita di essere
accennata anche la variante semantica del modello applicativo di
Šaumjan, già elaborato per spiegare la sintassi. Egli, come de
Saussure, ritiene che il pensiero sia legato inscindibilmente alla lingua
in cui è espresso e che perciò non esista una forma di pensiero allo
stato puro, prelinguistico. A differenza di da Saussure, però, ritiene
invece che il valore linguistico non emerga dall’opposizione con gli
altri valori del codice, ma piuttosto dal confronto con altre possibili
realizzazioni dello stesso valore, equivalenti ad esso. E’ evidente qui
l’influsso del pensiero di Jakobson, ed infatti anche per Šaumjan
comprendere una qualsiasi realizzazione linguistica del pensiero
equivale a tradurla ed il nostro parlare è fondamentalmente un
tradurre, egli però non lascia che il significato si prolunghi idealmente
di traduzione in traduzione in una ricerca infinita di senso, ma
individua il significato di un enunciato in un altro enunciato più
semplice dal punto di vista grammaticale e perciò più conforme al
pensiero. Tale semplificazione dell’espressione, questa traduzione, è
operante anche a livello interlinguistico dove però la forma privi-
legiata di espressione diretta del pensiero non potrà più essere una
lingua naturale, bensì una artificiale detta lingua genotipica. Essa è
un’imitazione astratta, un modello funzionale atto a dimostrare come
l’uomo si serva delle lingue naturali per esprimere gli stessi messaggi
in modi diversi ed è perciò anche il modello astratto dei processi
traduttivi (i quali, come abbiamo visto, costituiscono il funzionamento
stesso del linguaggio).
A partire dagli anni sessanta, dapprima in Germania e
successivamente in tutta Europa, si impone una nuova teoria
linguistica che molti studiosi vedono addirittura come un nuovo modo
di fare linguistica. Questa teoria è detta linguistica testuale (o
linguistica del testo) e il suo aspetto rivoluzionario è considerare
come oggetto di studio della linguistica il testo, non l’enunciato. I
modelli linguistici precedenti ritenevano che l’oggetto d’indagine
della linguistica fosse l’enunciato e presupponevano che il testo fosse
semplicemente una serie di enunciati accostati gli uni agli altri, dato
che esso era il risultato di un’applicazione ripetuta dei meccanismi
generativi dell’enunciato, invece la linguistica testuale ritiene che il
testo sia il segno linguistico originario. L’individuazione di fenomeni
come la coreferenza e l’identità referenziale ha dimostrato da subito la
validità della teoria testuale, nell’esempio:
“Luigi ha comprato una macchina. I vicini lo invidiano”
8
Luigi e lo si riferiscono evidentemente alla stessa entità e istituiscono
collegamenti che superano i confini del singolo enunciato. In generale
gli stessi fenomeni che si verificano tra i morfemi all’interno
dell’enunciato si verificano anche tra gli enunciati all’interno del testo
e ciò costituisce la prova della validità della teoria della linguistica
testuale secondo cui il testo è l’unità in cui ricercare il senso, non
l’enunciato, perché esso può assumere significati diversi a seconda
degli altri enunciati che lo precedono e lo seguono (il cotesto) e a
seconda del contesto in cui è inserito. Il contesto, sebbene non possa
essere considerato parte del testo, è tuttavia oggetto di studio della
linguistica testuale in quanto spesso il collegamento tra gli enunciati di
un testo è intuibile dal fruitore dello stesso testo solo grazie alla sua
conoscenza del mondo, alla sua conoscenza enciclopedica. Ci sono
testi, infatti, che come l’esempio precedente non esplicitano la loro
struttura costruttiva ma ne affidano la ricostruzione al destinatario: se
noi non sapessimo che comprare un’automobile nuova è una spesa
straordinaria che presuppone almeno una minima pianificazione delle
8
Cfr. M. Baggio, op. cit., p. 27.