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Capitolo Primo
Le pari opportunità: la tutela della donna
SOMMARIO: 1.1 La parità di trattamento tra i sessi nelle politiche comunitarie di prima e seconda
generazione; 1.2 Divieto di discriminazione nell‟ordinamento italiano: uno sguardo d‟insieme dall‟eguaglianza
sostanziale al Codice delle pari opportunità; 1.2.1 Le azioni positive di genere. Dalla normativa comunitaria
alle nuove disposizioni nell‟ordinamento italiano.
1.1 La parità di trattamento tra i sessi nelle politiche comunitarie di
prima e seconda generazione.
Da sempre il lavoro, nelle sue varie forme e articolazioni ha accompagnato
l‟evoluzione dell‟uomo. In questo ambito, il problema del rapporto tra i sessi e, in
particolare, il rapporto tra donna e lavoro è rimasto per tanto tempo marginale. Il
tema della sessualità e della maternità sono stati infatti alla base dei movimenti
femministi degli anni „70.
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È grazie ad un‟evoluzione socioculturale, all‟entrata dell‟Italia nella Comunità
Europea e, in generale, alla più diffusa informazione e presa di coscienza, che oggi
è possibile una maggior tutela della donna lavoratrice, nel suo ruolo di donna e di
madre. Per far si che ciò si potesse concretizzare nelle singole realtà, sono state
introdotte sia norme dirette a garantire pari opportunità per uomo e donna, sia
norme relative alla conservazione del posto di lavoro nei casi specificatamente
tutelati. Il concetto di pari opportunità riassume l'intento di garantire uguali
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F. AVALLONE, “DONNA E LAVORO. Ricerca psicosociale sulla condizione lavorativa della donna
nelle organizzazioni”, ed. Franco Angeli, Milano, 1989.
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condizioni e prospettive di vita a tutti i cittadini, attraverso la definizione di
politiche e iniziative finalizzate alla rimozione degli ostacoli che impediscono
un'effettiva parità. In ambito comunitario il termine pari opportunità è utilizzato in
riferimento a interventi a favore di gruppi svantaggiati e, principalmente, alle
azioni volte a ridurre le disparità tra uomini e donne.
Il tema della tutela antidiscriminatoria è da sempre stato trattato dal diritto
comunitario, il quale ha favorito, grazie a specifici obblighi di adeguamento per i
paesi aderenti all‟Unione europea, il diffondersi di tale disciplina anche nel diritto
interno.
Negli anni Novanta inizia il cosiddetto “periodo d‟oro” per la disciplina
antidiscriminatoria, dovuto all‟ampliamento e all‟approfondimento della tutela
contro le discriminazioni.
Nel 1998 il Trattato di Amsterdam inserisce nel Trattato Ce una nuova clausola
antidiscriminatoria, introducendo per la prima volta, oltre ai tradizionali divieti di
discriminazione relativi alla nazionalità e al sesso, anche quelli relativi alla razza,
l‟origine etnica, la religione, le convinzioni personali, l‟handicap, l‟età e
l‟orientamento sessuale. Nella stessa occasione viene riformulato l‟art. 119 del
Trattato (ora art. 141), allargando il campo di applicazione del principio di
uguaglianza di genere dalla retribuzione al complesso delle condizioni di lavoro e
di occupazione, donando alle azioni positive un ruolo ancora più importante di
quello che esse avevano assunto con la precedente disciplina.
Uno dei primi interventi diretti a rimuovere le discriminazioni per sesso, c.d. di
genere, è stato effettuato dalla direttiva n. 76/207/CE, poi modificata dalla direttiva
n. 2002/73/CE, emanata in tema di parità di trattamento tra uomini e donne per
quanto riguarda l‟accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione
professionale, e le condizioni di lavoro
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, utilizzando quale base giuridica, l‟art. 141
del Trattato.
La direttiva 2002/73/Ce, a differenza di quanto avveniva con la dir. n. 76/207/Ce,
introduce una nozione di discriminazione sessuale indiretta e diretta, riferendosi
con la prima ad ogni comportamento pregiudizievole, fondato su criteri e prassi
apparentemente neutri, ma che di fatto mettono o potrebbero mettere in una
situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso rispetto a
quelle dell‟altro, salvo che, nel caso di attività di lavoro, caratteristiche di sesso
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In GUCE del 5.10.2002, C L 269/15.
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costituiscano requisiti essenziali al loro svolgimento. Con discriminazione diretta
ci si riferisce ad ogni situazione nella quale una persona è trattata meno
favorevolmente, in base al sesso, rispetto ad un‟altra in una situazione analoga.
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Tali definizioni consentono, tramite una loro interpretazione positiva,
l‟individuazione dei comportamenti illeciti, e fissano, quindi, l‟ambito di indagine
in maniera circostanziata.
Per quanto riguarda la condizione della donna che si trova in stato di gravidanza o
di maternità, la presente direttiva, nell‟art. 2, introduce il diritto di riprendere il
proprio posto di lavoro al termine del periodo di congedo, e a beneficiare di
eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante
la sua assenza. Ciò vuol dire che un trattamento meno favorevole per ragioni
legate alla gravidanza o al congedo di maternità, costituisce, ai sensi della direttiva
92/85/CEE, una discriminazione.
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Al fine di assicurare un livello più efficace di protezione, anche alle associazioni,
organizzazioni e altre persone giuridiche, dovrebbe essere conferito il potere di
avviare una procedura, secondo le modalità stabilite dagli Stati membri, per conto
o a sostegno delle vittime.
La direttiva in esame impone poi agli Stati membri l‟onere di introdurre nei propri
ordinamenti tutte le misure necessarie a tutelare le lavoratrici che si trovino lese da
uno stato di discriminazione, anche per i rapporti di lavoro già conclusi, e devono
garantire l‟accesso di tali soggetti alle azioni positive stabilite dalla normativa
nazionale, come da raccomandazione del Consiglio delle Comunità Europee del 13
dicembre 1984, sulla promozione di azioni positive a favore delle donne.
Il principio della parità di retribuzione tra gli uomini e le donne è fermamente
stabilito dall'art. 141 del trattato e dalla direttiva 75/117/CEE del Consiglio, per
avvicinare la normativa degli Stati membri all'applicazione del principio della
parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso
femminile. Questo principio costituisce una parte essenziale e imprescindibile
dell'acquis comunitario in materia di discriminazioni basate sul sesso.
La direttiva del 2002 chiude, così, la stagione delle cd. direttive di “seconda
generazione” (così denominate per mettere in risalto la continuità solo parziale con
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In GUCE del 5.10.2002, C L 269/17.
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In GUCE del 5.10.2002, C L 219/18.
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le direttive degli anni settanta, ottanta e novanta)
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, stagione inaugurata dalla dir. n.
2000/43/Ce
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, che attua il principio di parità di trattamento fra le persone
indipendentemente dalla razza e dall‟origine etnica; nonché dalla dir. n.
2000/78/Ce
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, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento fra le
persone in materia di occupazione e di condizioni di lavoro
8
.
Nel luglio del 2006, viene emanata una nuova direttiva, la dir. n. 2006/54/Ce
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, che
allarga l‟ambito di intervento oltre al principio di parità di trattamento previsto
dalla direttiva del 2002, e si configura come un contenitore giuridico che
ricomprende sia le direttive che hanno attuato il principio di parità retributiva tra
uomini e donne (dir. n. 75/117/Ce e dir. n. 86/378/Ce), sia la direttiva sull‟onere
della prova (dir. n. 97/80/Ce), nonché la dir. n. 2002/73/Ce già menzionata.
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Nella direttiva del 2006 l‟auspicio dell‟attuazione del principio della parità di
trattamento, di cui alla direttiva del 2002, si affianca a quello della realizzazione
delle pari opportunità. Questo ampliamento dello spettro di azione non è
funzionale ad una modifica delle nozioni di discriminazione che vengono
riproposte identiche a distanza di quattro anni. Anche la delimitazione tra il lecito
e l‟illecito utilizza gli stessi parametri, sia con riferimento all‟accesso al lavoro,
alla promozione ed alla formazione professionale, sia con riguardo alle condizioni
di lavoro, compresa la retribuzione, nonché i regimi professionali di sicurezza
sociale (cfr. art. 1 dir. n. 2006/54/Ce).
Le innovazioni più significative apportate dalla dir. n. 2006/54/Ce sono
essenzialmente due: previsioni in materia di parità retributiva e parità di
trattamento nel settore dei regimi professionali.
Innanzitutto, prendendo in considerazione le previsioni in materia di parità
retributiva, vi è stata una riformulazione implicita della nozione di retribuzione: il
divieto di discriminazione riguarderà ‹‹un qualunque aspetto o condizione della
retribuzione››, considerando, quindi, come retribuzione, tutte le prestazioni in
contanti o in natura, presenti o future, versate dal datore di lavoro al lavoratore.
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Le direttive “di prima generazione” erano tutte rivolte all‟attuazione del principio di parità di
trattamento tra uomini e donne.
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In GUCE del 19.7.2000, C L 180/22.
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In GUCE del 2.12.2000, C L 303/16.
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Per maggiori approfondimenti sulle direttive 2000/78/Ce e 2000/43/Ce, v. CHIECO P., “Le nuove
direttive comunitarie sul divieto di discriminazione”, RIDL, 2002, I, p. 75 ss.
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La direttiva dovrà essere recepita dagli Stati membri entro due anni dalla sua entrata in vigore.
10
M. BARBERA, “Il nuovo diritto antidiscriminatorio. Il quadro comunitario e internazionale”,
Giuffrè editore, Milano, 2007.
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Il sistema di classificazione della retribuzione, poi, ‹‹deve basarsi su principi
comuni per i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile ed essere
elaborato in modo da eliminare le discriminazioni fondate sul sesso››. Questo
comporta che i sistemi di classificazione professionali debbano essere formali e
analitici e basati su fattori non discriminatori.
Considerando, poi, la parità di trattamento nel settore dei regimi professionali di
sicurezza sociale, la direttiva del 2006 interviene recuperando le norme principali
della dir. n. 86/378/Ce (modificata dalla dir. n. 97/96/Ce), chiarendone
l‟interpretazione, senza cambiarne le previsioni ed incorpora la giurisprudenza più
recente in materia.
Tra le direttive di seconda generazione trova collocazione anche un ulteriore
intervento legislativo, attuato nel 2004 (dir. n. 2004/113/Ce) allo scopo di
realizzare il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto
riguarda l‟accesso ai beni e servizi e la loro fornitura. Questa direttiva fu esclusa
dall‟operazione di rifusione, molto probabilmente a causa della non omogeneità
tematica oggetto della disciplina. Si conferma, così, la scelta del legislatore
comunitario di adottare una base comune per tutte le previsioni in materia
antidiscriminatoria.
1.2 Divieto di discriminazione nell’ordinamento italiano: uno
sguardo d’insieme dall’eguaglianza sostanziale al Codice delle pari
opportunità.
Il sesso di appartenenza non è stato, tra i diversi fattori in base ai quali si possono
realizzare discriminazioni a danno dei lavoratori, l‟elemento discriminante su cui
si sono concentrate le prime preoccupazioni del legislatore italiano. Nonostante
tale esordio, però, è su questo terreno che sono state originariamente sperimentate
soluzioni tecniche, di ordine sia sostanziale che processuale, poi riproposte con
riguardo ad altre forme d‟illegittima differenziazione dei trattamenti e ove lo
sforzo di elaborazione di adeguate risposte giuridiche ha raggiunto, almeno dal
punto di vista teorico, il più elevato grado di maturità.
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11
D. IZZI, “Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro. Il diritto antidiscriminatorio tra genere e
fattori di rischio emergenti”, Casa Editrice Jovene, Napoli, 2005, p. 25.
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I principi fondamentali dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro femminile e
che vengono incontro alla promozione della parità di trattamento, sono
essenzialmente due: il principio di uguaglianza (artt. 3 e 37 Cost., 1° comma), e il
principio di tutela della maternità (art. 31 Cost., 2° comma e ribadito nell’art. 37
Cost., 2° comma).
Innanzitutto occorre analizzare il principio di eguaglianza sostanziale su cui si
basa il nostro ordinamento, a partire dalla Costituzione. A tal proposito l‟art. 3
Cost. recita che ‹‹tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti
alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali››, mentre è compito della Repubblica
‹‹rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese››. La norma mira al riconoscimento delle “pari
dignità” di ogni persona, lasciando intendere, nel 2° comma, che la garanzia
dell‟effettiva possibilità di ciascuno di orientare autonomamente le proprie scelte
non può essere disgiunta dall‟impegno al superamento delle condizioni di minorità
che comprimono in concreto, per alcuni, tale possibilità. Col principio di
eguaglianza sostanziale si impone allo Stato e agli enti pubblici di porre in essere
quelle misure specifiche di sostegno volte a realizzare una reale parità di
trattamento, sostenendo le categorie svantaggiate. Il principio di eguaglianza
formale, invece, è inteso come uguaglianza di fronte alla legge, tramite il quale si
impone che vengano trattate in modo eguale situazioni eguali. Ciò che non si può
dimenticare è che la ‹‹libertà e dignità della persona…sono elementi costruttivi del
principio di uguaglianza››, non valori ad esso estranei.
L‟art. 37 Cost. introduce un vero e proprio divieto di discriminazione a favore
della donna per cui ‹‹la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro,
le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore›› e, inoltre, ‹‹le condizioni di
lavoro devono consentire›› alla donna ‹‹l’adempimento della sua essenziale
funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale ed adeguata
protezione››. Tale principio di tutela della maternità viene anche ripreso,
esplicitamente, dall‟art. 31 Cost., 2° comma.
I due criteri si condizionano a vicenda nel senso che la discriminazione pone limiti
alla parità e la parità pone limiti alla discriminazione. Di fatti, la discriminazione è
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valida solo sino a quando essa intende tutelare interessi di carattere sociale,
riguardanti la salvaguardia dell‟integrità fisica e morale della donna, soprattutto in
relazione alla maternità. Quando invece la discriminazione non risulta più
oggettivamente giustificata dalle tutele di interessi sociali, allora deve subentrare il
criterio della parità: forme di eccessiva garanzia dell‟adempimento della funzione
familiare della donna costituirebbero situazioni di eccessivo protezionismo che
potrebbero andare a discapito della lavoratrice stessa, accentuandone la difficoltà
d‟impiego.
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Continuando ad analizzare la nostra Costituzione, dall‟art. 41 si evince che
l‟iniziativa privata è libera, ed essa non può svolgersi in contrasto con l‟utilità
sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; si
tratta di accertare se l‟obbligo dei privati di rispettare la parità di trattamento dei
sessi nel rapporto di lavoro possa essere costituito come un vincolo specifico o
come il riflesso di un più vasto principio paritario che venga a limitare l‟autonomia
negoziale. Il limite alla libertà imprenditoriale, rappresentato dalla “sicurezza,
libertà e dignità umana”, si riflette sul potere direttivo e organizzativo aziendale,
nel senso che le misure organizzative ed i mezzi da apprestare per il lavoratore,
affinché adempia la prestazione con diligenza, devono essere congrui ed adeguati
allo scopo.
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Nel donare la garanzia di parità di trattamento, il nostro ordinamento impone però
al datore di lavoro un esercizio non arbitrario dei poteri datoriali, in quanto questi
dovranno tener conto delle disposizioni in materia dettate dalla legge 300/1970.
Nello Statuto dei lavoratori (art. 15), infatti, si dichiara la nullità di tutti gli atti o
patti diretti a subordinare l‟occupazione di un lavoratore per motivi legati
all‟adesione o non adesione ad una associazione sindacale, ovvero cessi di farne
parte; sia per motivi legati alla discriminazione nell‟assegnazione di qualifiche o
mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, nonché per patti o atti
diretti a discriminare per motivi legati al sesso, alla politica, alla religione, alla
razza, alla lingua.
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G. COTTRAU, “La tutela della donna lavoratrice. 1”, Memorie dell‟Istituto giuridico, serie II,
memoria CXLVI, G. Giappichelli ed., Torino, 1971.
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Cass. 1 settembre 1997, n. 8267, con sentenza relativa all'attività di collaborazione cui
l'imprenditore è tenuto nei confronti dei lavoratori a norma dell'art. 2087 cod. civ. che si estende
all'adozione di tutte le misure che si rivelino idonee a tutelare l'integrità psicofisica del lavoratore.