1
Introduzione:
L‟argomento di questa tesi, il confronto linguistico tra La romana di
Alberto Moravia e le versioni filmiche che ne sono state tratte,
nasce dalla volontà di conciliare l‟interesse per la linguistica italiana
(in particolare per l‟italiano contemporaneo), quello per la letteratura
(Moravia, intellettuale antifascista, romanziere, narratore, giornalista,
critico, sceneggiatore e soggettista, tra i primi ad esplorare, nelle
sue opere, i temi della sessualità moderna, dell‟alienazione sociale e
dell‟esistenzialismo, è uno dei più importanti scrittori del Novecento)
e quello per la lingua dei mezzi di comunicazione di massa, nello
specifico il cinema, una forma d‟arte che ha saputo unire parole,
musica e immagini in movimento, entrando a pieno titolo
nell‟immaginario collettivo come la decima musa.
Affrontare l‟analisi linguistica della trasposizione cinematografica di
un romanzo ha significato toccare diverse questioni: dalla diffusione
dell‟italiano nella società novecentesca alla variazione diamesica,
dalle caratteristiche del linguaggio cinematografico al problema della
trasposizione cinematografica di un‟opera letteraria.
Anzitutto, essendo stato Alberto Moravia uno scrittore che operò nel
corso di quasi tutto il Novecento, dal ‟29, anno del suo primo
romanzo (Gli indifferenti), fino quasi al 1990, anno della sua morte,
mi è sembrato opportuno trattare inizialmente della diffusione che la
lingua italiana conobbe nel corso di tale secolo. Vediamo, così,
come negli anni dell‟unificazione politica la realtà linguistica si
presentasse dominata dall‟uso dei dialetti, soprattutto a causa del
fatto che la maggior parte della popolazione, essendo analfabeta e
non frequentando la scuola, non aveva la possibilità di venire in
contatto con la lingua italiana scritta, né tantomeno con quella orale.
2
Intervennero poi, tra la fine dell‟Ottocento e nel corso del
Novecento, tutta una serie di fattori -quali la formazione di un
apparato statale unitario, il sorgere di grandi agglomerati urbani, le
migrazioni, la riduzione dell‟evasione scolastica, la formazione di un
corpo di burocrati geograficamente eterogeneo e di un esercito
nazionale- che, in maniera diretta e indiretta, favorirono l‟espansione
dell‟italiano, se non nell‟uso effettivo nella quotidianità, almeno come
potenzialità d‟uso. Tali fattori, quindi, determinarono la progressiva
regressione dei dialetti, in favore dell‟adozione delle varietà regionali
d‟italiano, facendo sentire sempre dei più il divario esistente tra
dialetto e lingua comune, e permisero ad un numero sempre
maggiore di parlanti di disporre di diversi registri linguistici. Ho
affrontato, quindi, il problema del ruolo che i mezzi di comunicazione
di massa hanno avuto in questo processo, proponendo l‟italiano
come lingua non più esclusivamente scritta, ma effettivamente
parlata, trattando, nel primo capitolo, della radio e della televisione,
(del cinema si parla nel terzo capitolo). Inoltre, mi sembra opportuno
dedicare un paragrafo, seppur breve, alla situazione linguistica di
Roma, non solo per il fatto che la capitale occupa un posto
d‟eccezione nella storia linguistica italiana, ma soprattutto perché
Moravia, romano, ambienta il suo romanzo La romana, oggetto della
mia analisi, proprio a Roma: sono così partita dalla
smeridionalizzazione del romanesco e dal suo avvicinamento al
toscano nel Cinquecento per arrivare all‟epoca postunitaria, con
l‟accentramento nella capitale dell‟amministrazione, della
burocrazia e delle agenzie giornalistiche, poi della radio, delle case
cinematografiche e della televisione, che hanno reso Roma il
principale centro di diffusione della lingua nazionale.
3
La diffusione della lingua nazionale porta inevitabilmente con sé il
problema della distinzione tra lingua parlata e scritta,
particolarmente sentito per una situazione linguistica come quella
italiana, sebbene, almeno fino a pochi decenni fa, gli studiosi
abbiano dedicato poco spazio allo studio della lingua orale e delle
sue caratteristiche, privilegiando l‟analisi della lingua scritta,
soprattutto letteraria. Dovendo confrontare le caratteristiche
dell‟italiano scritto (del romanzo moraviano) e dell‟italiano veicolato
da un medium come il cinema (le trasposizioni cinematografiche), mi
sembra necessario trattare della varietà diamesica, descrivendo,
quindi, le caratteristiche che assume la lingua a seconda del mezzo
attraverso cui viene veicolata, sottolineandone le differenze, ma
anche i punti in comune. Il linguaggio cinematografico, del resto,
rientra nella varietà di italiano trasmesso (nata insieme ai moderni
mezzi di comunicazione), a metà strada tra scritto e orale, concepito
come scritto ma destinato ad una fruizione orale: una lingua, quindi,
che non deve sembrare scritta ma riprodurre la spontaneità del
parlato in situazione.
Dovendo applicare la mia analisi linguistica ad un testo letterario e
poi alle sue riduzioni filmiche, in un capitolo apposito descrivo le
caratteristiche del linguaggio cinematografico: osservando dapprima
la sua incidenza sulla lingua italiana (quanto e come ne ha favorito
la diffusione e quanto l‟abbia influenzata a livello lessicale e
morfosintattico), poi evidenziandone gli elementi caratteristici sia a
seconda del periodo storico (a partire dal cinema muto, passando
per il periodo fascista, per il Neorealismo, fino a quello
contemporaneo, non escludendo neanche la lingua impiegata nel
doppiaggio) sia a seconda dei vari livelli di analisi linguistica. Così, è
stato possibile notare come il cinema italiano sia partito da una
4
sostanziale adesione ai modelli linguistici teatrali, presentandosi
sostanzialmente italofono, per avvicinarsi progressivamente ad una
lingua più agile e colloquiale, che comprende anche parlate locali,
varietà regionali e, per quanto riguarda il cinema contemporaneo,
l‟‟italiano dell‟uso medio‟ (Sabatini), che si impone accanto
all‟italiano standard dei film stranieri doppiati. Inoltre, visto il ruolo di
particolare rilievo che il dialetto ricopre nella situazione linguistica
italiana, mi è parso opportuno evidenziare le caratteristiche più
rilevanti del suo uso nel cinema, osteggiato da alcuni (convinti che il
cinema dovesse proporsi come propulsore della lingua nazionale),
sfruttato da altri (a volte con intenti comici-macchiettistici, a volte con
intenti mimetici-documentaristici).
Un altro capitolo è stato dedicato alla lingua letteraria del
Novecento, di cui è però difficile fornire una descrizione lineare e
omogenea; pertanto ho descritto le caratteristiche della lingua
impiegata da alcuni dei maggiori scrittori del secolo, per scorgere
una generale tendenza ad avvicinarsi alla lingua viva, più familiare e
colloquiale, ricca di elementi tipici del parlato. Particolare attenzione
è stata dedicata, in un paragrafo, alla prosa narrativa del secondo
dopoguerra, periodo al quale appartiene La romana (pubblicato per
la prima volta nel ‟47). Il romanzo, anche per la tematica affrontata,
rientra a pieno titolo nella corrente neorealista, la quale portò al
centro della narrazione realtà popolari, degradate e regionalmente
circoscritte, che gli scrittori hanno variamente realizzato, ora
ricercando una medietà linguistica, ora ricorrendo a diversi registri
linguistici, ai gerghi e ai dialetti, chi per soddisfare un intento
mimetico, chi per motivi ideologici o espressionistici, ma comunque
approdando ad una lingua media e parlata che diventa lingua della
narrazione.
5
Dal momento che l‟oggetto della tesi è la trasposizione
cinematografica di un‟opera letteraria, è parso opportuno affrontare
la questione dello stretto rapporto che il cinema italiano, fin dalla sua
nascita, ha intrattenuto con la letteratura attingendo, per i suoi
soggetti, ad opere letterarie (teatrali, narrative), dapprima
rivolgendosi quasi esclusivamente ai grandi classici,
successivamente cercando di sfruttare il successo commerciale di
opere qualitativamente meno elevate ma di sicuro successo presso
il grande pubblico; è notevole anche la partecipazioni di numerosi
scrittori ai processi cinematografici, dalle collaborazioni alle
sceneggiature e ai dialoghi alla critica cinematografica, dalla regia
alla produzione di opere filmiche.
Particolarmente fertile è stato il rapporto tra il cinema e Alberto
Moravia, la cui scrittura è stata considerata particolarmente adatta
ad essere tradotta nel linguaggio filmico e la cui narrativa spesso ha
voluto rappresentare la realtà romana (pensiamo appunto a La
romana, ma anche ai Racconti romani e a La ciociara), nel periodo
in cui Roma andava diventando il centro della vita cinematografica
nazionale. Alto è il numero di film tratti dalle sue opere, ma
numerose sono anche le sue collaborazioni come sceneggiatore,
adattatore (anche dei suoi stessi romanzi o racconti) e soggettista.
Un altro tema legato a quello della riduzione filmica di un‟opera
letteraria è il problema della trasposizione cinematografica, spesso
criticata in quanto considerata una semplificazione e una
banalizzazione (in un certo senso inevitabile) del testo originario, col
fine ultimo di raggiungere il successo commerciale. Il problema,
variamente risolto da sceneggiatori e registi, consiste, infatti, nella
traduzione di un testo codice visivo (quello scritto) ad un codice
maggiormente complesso, frutto dell‟intreccio di vari codici (iconico,
6
acustico, verbale). La traduzione, quindi, di un sistema linguistico-
letterario in un sistema iconografico in movimento, fruito con
modalità totalmente diverse rispetto a quelle di un testo scritto che
presenta limiti come quello della durata relativamente breve di una
pellicola o come la non possibilità, per lo spettatore, di ritornare su
determinate parti di testo che magari non ha immediatamente
compreso. Pertanto, una trasposizione cinematografica (al cui
interno la „riduzione‟, non a caso, è la modalità più adottata nel
cinema), per quanto possa presentarsi fedele al testo dal quale
prende le mosse, non potrà che esserne una riscrittura, tanto che
non pochi studiosi hanno creduto opportuno considerare un film,
seppur tratto da un testo letterario, come un‟opera totalmente
indipendente.
Avvicinandomi al nucleo centrale del mio lavoro, ho brevemente
presentato il romanzo moraviano e le due trasposizioni, una
cinematografica ed una televisiva, che ne sono state fatte,
inserendo, in questo stesso capitolo, un‟intervista con Franco
Bernini, sceneggiatore affermato che collaborò, insieme allo stesso
Alberto Moravia, alla sceneggiatura della miniserie televisiva de La
romana, della quale, non essendo reperibile in alcun modo il
lungometraggio, mi ha fornito parti della sceneggiatura, oltre a utili
indicazioni, di carattere generale, sul funzionamento delle riduzioni
cinematografiche e, nello specifico, sulle scelte linguistiche operate
nell‟adattamento del testo moraviano per la televisione.
Arriviamo così all‟analisi vera e propria: fatte le opportune
considerazioni sulla lingua impiegata da Moravia ne La romana, da
cui emerge -data la sfasatura tra la condizione della protagonista e
la qualità, linguistica e psicologica, del suo discorso- quanto il
realismo dello scrittore non sia vincolato ad un intento mimetico-
7
documentaristico, quanto piuttosto al servizio della penetrazione
psicologica dei personaggi, ho condotto dapprima un‟analisi
linguistica del romanzo, che mostra quanto la lingua impiegata dallo
scrittore sia ancora, in parte, ancorata alla tradizione letteraria, ma
rivela anche l‟intento dell‟autore di aderire ad una medietà
linguistica, inserendo, talvolta, fenomeni tipici della lingua parlata,
che però non si discostino in maniera troppo marcata dalla norma
(tutti quei fenomeni, quindi, rientranti nell‟italiano dell‟uso medio);
invece, il dialetto è praticamente assente, limitato a sporadiche
forme lessicali.
Per operare un confronto linguistico tra il romanzo e le due
trasposizioni cinematografiche, ho trascritto alcuni dei dialoghi che
presentano una corrispondenza tra il testo originario e le sue
riduzioni filmiche: è così possibile notare, in linea generale, come,
nelle versioni destinate ad un pubblico cinematografico e televisivo
gli autori abbiano cercato di avvicinare i dialoghi ad una lingua più
colloquiale e realistica, eliminando quegli elementi tipici della lingua
letteraria accolti nella scrittura di Moravia. Allo stesso modo, i testi
delle sceneggiature subiscono una riduzione e una semplificazione
sia a livello lessicale, che morfosintattico (un tentativo di
normalizzazione linguistica avviata dal film del ‟54 e proseguita dallo
sceneggiato dell‟88 che, probabilmente dato il diverso periodo
storico, inserisce più frequentemente fenomeni tipici dell‟italiano
dell‟uso medio, evidenziando una maggiore tendenza ad aderire al
parlato spontaneo). Tuttavia, probabilmente a causa del fatto che lo
stesso scrittore collaborò ad entrambe le sceneggiature, alcuni
dialoghi si presentano sostanzialmente uguali a quelli del testo
originario, seppure con alcune differenze che mostrano il tentativo
8
degli autori di avvicinarli alla lingua d‟uso, più agile e familiare per il
pubblico.
9
Capitolo 1: La situazione linguistica italiana nel
Novecento
1.1 La diffusione della lingua nazionale
Già prima del Risorgimento, nella tradizione culturale italiana era
presente l‟idea che la lingua fosse una componente essenziale della
nazione. Oltre all‟atteggiamento di letterati e patrioti, a consolidare il
primato della lingua che almeno a partire dal Rinascimento si era
cominciato a chiamare “italiana” oltre che “fiorentina” o “toscana”, fu
anche l‟esigua presenza di minoranze alloglotte, che, secondo De
Mauro, al momento dell‟unificazione non raggiungevano neanche
l‟1%, ma anche cinquant‟anni dopo, quando i confini nazionali si
estesero includendo nuovi gruppi di un‟altra lingua, raggiunsero
appena il 2%,
1
una schiera piuttosto esigua che negli anni
dell‟unificazione era ancora meno di un quinto della popolazione e in
gran parte concentrata a Firenze e a Roma.
2
Già diversi decenni prima dell‟unificazione, l‟italiano venne definito
(ad esempio da Carlo Gozzi e Ugo Foscolo) una lingua morta e la
situazione non cambiò dopo l‟unità: se il primato dell‟italiano era un
dato certo e sicuro sul piano culturale e politico, di certo non lo era
sull‟effettivo piano linguistico,
3
dominato invece dall‟uso dei dialetti
(vari e difformi, risultanti dalle diverse correnti innovative che
investirono il latino nelle diverse regioni, nonché della discontinua
1
De Mauro (1998).
2
De Mauro/ Mancini/ Vedovelli/ Voghera (1993), p. 16, De Mauro (1998), p. 24.
3
“A che l’italiano fosse davvero l’idioma principalmente usato dagli italiani si opponevano abiti e
caratteri che, radicati da secoli nella società italiana, avevano prodotto condizioni linguistiche assai
singolari, cioè, in definitiva, il paradosso di una lingua celebrata ma non usata e, per così dire, straniera
in patria.” (De Mauro 1998, p. 14).
10
realtà geografica, che secondo De Mauro avrebbe favorito in
maniera decisiva i particolarismi regionali
4
) che neanche l‟adozione,
a partire dal Trecento, di una lingua comune, sul piano letterario e,
in generale, dello scritto, -il fiorentino letterario- aveva attenuato.
Naturalmente, il fatto che l‟italiano è stato per secoli usato soltanto
in cerchie ristrette e in particolari occasioni solenni, ha influenzato
non solo l‟atteggiamento stilistico degli scrittori, ma anche le sue
strutture fonologiche, morfologiche e sintattiche (come ad esempio
la polimorfia, per cui una stessa forma si presenta in due varianti,
entrambe conservate), la formazione interna della lingua e la sua
evoluzione storica.
Inevitabilmente questo uso ristretto della lingua nazionale rese
ancor più solido e vitale l‟uso dei dialetti, invece di farli regredire,
cosicché essi, cui competeva una piena dignità sociale (in
particolare alle loro varianti illustri dei maggiori centri urbani),
costituivano lo strumento di comunicazione quotidiana non solo
degli strati popolari, ma anche dei ceti colti, aristocratici e letterati,
oltre che nella vita privata anche in quella pubblica e in occasioni
solenni (come le prediche, le orazioni politiche e giudiziarie).
Al momento dell‟unità, quindi, l‟italiano non solo si presentava
assente dall‟uso parlato, ma era minacciato persino nel suo dominio
dell‟uso scritto: a spingere De Mauro a fare una simile affermazione,
è, come egli stesso spiega, soprattutto il fatto che nei decenni
anteriori l‟unità, in tutta la Penisola ai dialetti, in particolare le loro
varianti illustri elaborate nei maggiori centri urbani, competeva una
piena dignità sociale, in quanto usati non solo dagli strati popolari,
ma anche da quelli colti, dalle aristocrazie e dai letterati, spesso
anche nella vita pubblica e in occasioni solenni come le
4
De Mauro (1998).
11
predicazioni, le orazioni politiche e giudiziarie, alla corte del re
Vittorio Emanuele, nei salotti borghesie e aristocratici.
5
Fuori dalla Toscana e da Roma (dove i dialetti locali erano
particolarmente vicini alle strutture fonomorfologiche e lessicali
dell‟italiano), la lingua comune poteva essere acquisita solo
attraverso lo studio scolastico. Ma nel 1861, quando venne fatto il
primo censimento della popolazione del nuovo regno, oltre il 78%
della popolazione risultò analfabeta, quasi priva di venire a contatto
con l‟uso scritto della lingua.
6
Inoltre l‟inchiesta condotta da
Corradini nel 1910 confermò non solo che la sola istruzione
elementare era insufficiente a garantire un duraturo possesso della
lingua,
7
ma anche che la metà degli insegnanti era solito tenere le
lezioni in dialetto, situazione già affrontata da Matteucci nella sua
inchiesta del 1864-65 che evidenziò come bastasse conoscere
l‟ortografia per poter insegnare nelle scuole elementari:
conseguenza di questa scarsa dimestichezza degli insegnanti con la
lingua italiana fu che essi si rivolgevano ai propri alunni in dialetto,
con la scusa di non essere altrimenti compresi. Se nel 1862
l‟istruzione postelementare era impartita all‟8,9 per mille della
popolazione, possiamo concludere che gli italofoni costituivano l‟1%
al momento dell‟unità nazionale,
8
rispecchiando così le profonde
5
De Mauro (1998), pp. 32-33.
6
E non bisogna commettere l’errore di pensare che il restante 20% fosse in grado di leggere e scrivere,
ma purtroppo solo dal 1951 i censimenti italiani hanno cominciato a distinguere i “semianalfabeti” (che
hanno qualche dimestichezza con l’alfabeto) dagli “alfabeti” a pieno titolo, cfr. De Mauro (1998).
7
A dispetto di quanti avevano ritenuto soddisfacente la legge Casati -entrata in vigore nel 1860 nel
regno di Sardegna e successivamente estesa, con l’Unificazione, a tutta Italia- che prevedeva l’obbligo
scolastico solo per i primi due anni delle classi elementari.
8
A questi vanno aggiunti (come ricorda Castellani) i circa 400. 000 toscani e i 70. 000 romani non
analfabeti, cosicché gli italofoni sarebbero stati il 2,5% della popolazione italiana (per un totale di circa
600. 000 individui). Ma già nella seconda edizione del 1970, De Mauro riconosce come vi siano ragioni
per reputare ottimistiche tali statistiche sui livelli d’istruzione negli anni dell’unificazione, cfr. Castellani
(1982), p. 3.
12
fratture che nel corso del tempo si erano create non solo tra le
diverse regioni, ma anche tra le diverse classi sociali del Paese.
9
Castellani, tuttavia, non ritiene veritieri i dati proposti da De Mauro,
dubitando sia del “numero delle persone colte negli anni in cui è
stata raggiunta l‟unità, sia i criteri in base ai quali si possono definire
italofoni o non italofoni gl‟Italiani di quei tempi.”
10
Egli nota come i
dati utilizzati dallo studioso per la sua Storia linguistica siano
lacunosi e basati principalmente sui quadri numerici degli studenti
dei licei, dei ginnasi e delle scuole tecniche nell‟anno scolastico
1862-63, ritenendoli non adatti ad essere usati come base per
calcolare la popolazione colta. Proponendo, invece, di utilizzare le
più precise statistiche dell‟istruzione secondaria pubblica e privata
nel 1862-63 e dei seminari, ritiene che gli italofoni per cultura delle
regioni, esclusa la Toscana (dove l‟”italofonia naturale” andrebbe
distinta da quella “colta”
11
), sarebbero stati circa 145.500.
12
C‟è però
da considerare che nel decennio successivo l‟unità l‟istruzione era
ancora largamente impartita a domicilio (soprattutto alle ragazze);
erano quindi circa 80.000 gli studenti che, pur non avendo
frequentato le scuole medie, avevano una buona conoscenza della
lingua letteraria: il numero degli iscritti alle scuole medie o superiori
non può quindi bastare per calcolare il numero effettivo degli
italofoni. In conclusione, modificando i criteri di De Mauro per quanto
riguarda la componente toscana e italiana mediana e correggendo
la base e i modi del calcolo della popolazione colta, Castellani
9
De Mauro (1998), p. 90.
10
Castellani (1982), p. 4.
11
Castellani propone, a differenza di De Mauro, di considerare i toscani che fanno capo al sistema
linguistico fiorentino, italofoni “per diritto di nascita, e non in quanto abbiano appreso a leggere e
scrivere.” (Castellani 1982, p. 18).
12
Castellani (1982), p. 11. In tale calcolo sono già stati tenuti in considerazione i vari elementi negativi,
come l’interruzione degli studi poco dopo i primi anni, il minor numero di alunni in epoca precedente e
l’inesistenza delle scuole tecniche e professionali prima della metà del secolo. E’ invece esclusa una
certa percentuale di giovanissimi (dai 3 ai 13 anni, educati in famiglie in cui l’italiano veniva usato
abitualmente.
13
ottiene una percentuale d‟italofonia compresa tra il 12,63% e il
9,52%.
13
In questa situazione è ovvio che l‟acquisizione dell‟italiano non
avvenisse attraverso le quotidiane situazioni della vita associata
pubblica e privata, ma solo attraverso un prolungato studio
scolastico. Il suo uso, quindi, non si presentava spontaneo e
naturale come quello dei dialetti, ma eccezionale e artificioso: una
lingua usata solo nei registri stilistici più alti mal si prestava ad
essere usata anche per le esigenze di maggiore immediatezza ed
efficacia espressiva, soddisfatte solo con l‟adozione del dialetto. Tra
l‟altro quest‟ultimo veniva considerato dalla stessa popolazione che
se ne serviva manifestazione di una cultura „altra‟, le cui esperienze
e tradizioni non riescono ad essere adeguatamente espresse
dall‟italiano nazionale, dovendo ricorrere ad una terminologia
estranea, imposta dall‟alto e spesso mal assimilata, incapace di
rappresentare la realtà agricola e il sottofondo urbano.
L‟unificazione politica ottocentesca portò dunque con sé problemi e
necessità del tutto nuove,
14
prima fra tutte quella di creare un
apparato statale unitario. Principalmente nei capoluoghi delle
regioni, e specialmente a Roma, si andò formando un ceto dirigente
regionalmente composito, che aveva la necessità quindi di adottare
una lingua comune: gli organi del nuovo Stato e le sue sedi
favorirono l‟adozione e la diffusione della lingua nazionale,
unitamente all‟azione della scuola unitaria e ad altri fattori di
cambiamento, come lo sviluppo di un mercato unitario di capitali e
13
Castellani (1982), p. 24.
14
L’Unità politica presentò da subito la tendenza a ricomporre una situazione vecchia di secoli proprio
perché il venire a contatto di realtà troppo diverse provoca una loro più chiara identificazione.
All’interno dei confini di uno Stato unitario, esplose quindi l’antitesi Nord e Sud, città e campagna e il
perpetuarsi di questi squilibri significò, dal punto di vista linguistico, che i centri di maggior prestigio,
come Roma e Firenze, apparivano zone depresse rispetto a un Nord sempre più industrializzato, ma
dialettofono, cfr. Stussi (1993).
14
manodopera che determinò il sorgere di grandi agglomerati urbani di
popolazione (nuovi per le dimensioni e il carattere regionalmente
composito delle correnti immigratorie) e i connessi scambi
demografici interregionali.
Solo con la creazione di nuovi rapporti tra le regioni e i ceti della
penisola, prima che sul piano linguistico, su quello delle strutture
economiche, sociale e culturali, l‟uso della lingua nazionale si
sarebbe potuto estendere a cerchie più ampie di persone. Ciò
avvenne infatti a seguito di tutti quei fattori che l‟unificazione politica
portò con sé, determinando il progressivo abbandono dei dialetti e la
correlativa adozione della lingua comune.
In primo luogo le migrazioni, determinate dal progressivo aumento
della popolazione (grazie soprattutto al miglioramento delle
condizioni sanitarie) che spinse milioni di italiani (più di venti milioni
secondo i dati medi decennali dell‟ISTAT)
15
a trasferirsi all‟estero (le
cosiddette migrazioni esterne), stabilmente o per un periodo più o
meno lungo, o in una regione diversa dalla propria (le migrazioni
interne). Un movimento così ampio della popolazione, dal punto di
vista linguistico, non solo ha favorito prestiti lessicali tra l‟italiano e le
lingue straniere, ma ha inciso anche in un altro senso: l‟emigrazione,
non avendo colpito in maniera uniforme le varie regioni e categorie
di persone, ma soprattutto quelle in cui l‟uso del dialetto era più
esteso, è stata più intensa nelle regioni meridionali, in cui più alta
era la percentuale di analfabeti e ha interessato soprattutto i ceti
rurali, incidendo quindi soprattutto sugli analfabeti dialettofoni (per
quelli che si erano stabiliti all‟estero, la lontananza dalla propria terra
e dai propri cari fece loro comprendere anzitutto l‟importanza di
saper scrivere).
15
Un movimento così ampio di persone ha reso ragionevole per lo studioso chiedersi quale sia stata la
sua incidenza linguistica cfr. De Mauro (1998), p. 54.
15
Ma ancora più rilevanti, dal punto di vista delle vicende linguistiche,
sono state, secondo De Mauro,
16
le migrazioni interne al Paese,
direttamente collegate ai fenomeni di industrializzazione e
urbanesimo: favorendo l‟osmosi di popolazione, con il conseguente
indebolimento dei dialetti e il sorgere di un numero maggiore di
grandi centri urbani (nei quali agiscono in maniera maggiore le forze
che diffondono direttamente l‟italiano, quindi scuole, uffici pubblici,
spettacoli)
17
, esse hanno agito non solo su coloro che si stabilivano
in città ma anche su quanti già vi risiedevano. Oltre al fatto che i
dialetti dei centri di emigrazione perdevano parlanti, gli idiomi dei
centri maggiori (i cosiddetti dialetti “civili”) si andavano indebolendo,
dal momento che i parlanti dovevano scendere a compromessi con
le nuove persone arrivate (che parlavano i cosiddetti dialetti
“rustici”): è nell‟ambito di tale fenomeno che si ritrovano le tracce
dell‟uso di un idioma che si propone di essere sovradialettale.
De Mauro ritiene che anche la scuola postunitaria, nonostante le
gravi carenze (tra le quali la massiccia evasione dell‟obbligo
scolastico), occupa un posto di primo piano nella diffusione della
lingua comune a sempre più larghi strati sociali
18
. Alla piena
efficienza delle istituzioni scolastiche primarie si opponevano
numerose forze e circostanze (le carenze legislative e delle finanze
comunali, l‟ostilità del clero e del ceto dirigente conservatore), tanto
che ancora nel 1910, come mostra l‟inchiesta del Corradini,
l‟istruzione elementare era un lusso, cosicché l‟apparato scolastico,
invece di imporsi sull‟ambiente, vi si doveva adeguare, con la già
ricordata conseguenza che i maestri usavano il dialetto o un misto di
16
De Mauro (1998), p. 68.
17
“Per tale concentrazione di forze nelle grandi città la popolazione, più che nei centri minori e nelle
campagne, è portata se non anche ad esercitare attivamente, almeno a dover subire ricettivamente
l’uso della lingua nazionale.” (De Mauro 1998, p. 80).
18
De Mauro (1998), p. 88.