2
E’ lo spinoso problema della “tutela dell’interesse sociale”
e/o della “tutela della minoranza”, eterno problema di ogni
fenomeno associativo; problema attualissimo, solo che si
pensi al fenomeno, ormai considerato fisiologico, del
controllo precostituito nelle società di grandi dimensioni,
ove la volontà sociale frequentemente è espressione di
gruppi minoritari, spesso detentori di esigui pacchetti
azionari, i quali potrebbero essere spinti a gestire la società
come “cosa propria”, animati come sono da interessi
extrasocietari, e perciò pregiudizievoli per la società o per la
minoranza. Nella grande impresa, oltretutto, il problema è
accentuato dal fenomeno dei gruppi di società, nelle quali
spesso scelte operative formalmente autonome, ma
sostanzialmente ispirate all’interesse di gruppo risultano
lesive degli interessi dei soci di minoranza della singola
società che le adotta.
Ma se l’analisi del problema può essere facile, estremamente
difficile ne è la soluzione : manca, infatti, nel nostro
ordinamento societario una norma che identifichi
espressamente una fattispecie di abuso nelle deliberazioni
assembleari adottate a maggioranza.
Ciò che, poi, dispone il diritto societario positivo sembra
essere di poco aiuto a tal fine. Abbiamo, infatti : una
generale nozione di contratto di società (art.2247 c.c.) ; la
previsione di una serie di garanzie di legalità formale che
3
devono assistere il procedimento deliberativo (artt.2366 s.
c.c.) ; una norma che garantisce il rispetto dell’eguaglianza
dei diritti azionari (art.2348 c.c.) ; il riconoscimento di
alcuni casi, rigorosamente delimitati, in cui spetta al socio
dissenziente un diritto di recesso. L’unica disposizione di
legge che espressamente subordina l’esplicazione del potere
deliberativo ad esigenze d’interesse sociale ha carattere
peculiare, per materia ed ambito di applicazione, riguardando
l’esclusione o limitazione del diritto di opzione (art.2441
c.c.) ; che cosa, poi, sia “interesse sociale” non è
espressamente definito, anzi è tutt’altro che pacifico.
Il previsto sistema d’invalidità delle deliberazioni sembra, a
sua volta, piuttosto vago : l’art.2377 c.c. sanziona con
l’annullabilità le deliberazioni “che non sono prese in
conformità della legge o dell’atto costitutivo” ; l’art.2379
c.c. prevede la nullità per le deliberazioni aventi oggetto
impossibile o illecito ; illusoria sembra essere l’attribuzione
del potere d’impugnazione ad amministratori e sindaci,
atteso che gli uni s’identificano con il gruppo di comando,
gli altri sono nominati da coloro che dovrebbero essere
controllati.
Certo, la deliberazione che violi un diritto soggettivo del
socio, cioè un interesse espressamente od implicitamente
riconosciuto al socio in termini assoluti, a prescindere da
una valutazione degli altri contrastanti interessi sussistenti
4
nella fattispecie, determina sicuramente la reazione
dell’ordinamento giuridico, gli unici dubbi potendo
riguardare la forma di tutela apprestata. Ma tali diritti
soggettivi del socio, ammesso che esistano, si riducono a ben
poco ; e comunque resterebbe il problema della tutelabilità di
quelle prerogative del socio che non assurgono a tale rango.
In via generale, dunque, nulla è disposto espressamente
quanto agli interessi realizzabili attraverso la deliberazione,
alle finalità che possono darsi a giustificazione della stessa,
ai rapporti tra maggioranza e minoranza, talchè si potrebbe
facilmente concludere che il potere della maggioranza, sotto
il profilo funzionale, è assoluto, immune da limiti.
Una spiegazione possibile di ciò può essere tentata
supponendo la configurazione economica del fenomeno
societario posta dal legislatore alla base della disciplina
delle società per azioni.
In effetti la legge sembra aver supposto che gli unici
interessi dei soci in questo campo siano costituiti
dall’interesse sociale, cioè dall’interesse che ciascun socio
ha nella società, ed ha poi ritenuto che in ordine all’interesse
sociale tutti i soci si trovino nella stessa identica posizione. I
soci riuniti in assemblea sarebbero, così, animati dallo stesso
intento, del conseguimento del lucro da ripartire, per cui
potrebbero sorgere fra di loro unicamente delle divergenze di
valutazione nella scelta dei mezzi più idonei al
5
raggiungimento di quello scopo, per la composizione delle
quali basterebbe il principio di maggioranza. La disciplina
delle s.p.a., insomma, sembra essere articolata sul
presupposto della mancanza di un conflitto d’interessi tra i
soci, e sembra, di conseguenza, negare in partenza gli abusi
del gruppo di comando.
Se tale visione del fenomeno societario teoricamente
conserva una certa valenza per le società a ristretta base
azionaria, nelle quali l’omogeneità della compagine azionaria
e la partecipazione attiva dei soci alle assemblee dovrebbero
assicurare un esercizio oculato del potere, proprio perché
svolto da chi più rischia, essa certamente non si addice alle
cd. società “giganti”, specie quelle con azioni diffuse tra il
pubblico dei risparmiatori.
In queste, l’assemblea degli azionisti, così come immaginata
dalla legge, è un’astrazione.
Non è vero che la maggioranza è “figlia del caso”: la società,
anzi, è spesso dominata da un gruppo precostituito di
azionisti, che tengono saldamente le redini della società, con
conseguente frattura del rapporto potere-rischio, che
dovrebbe essere alla base del principio maggioritario.
Non è vero che i soci sono divisi solo da contrastanti
valutazioni del medesimo interesse., I soci, al contrario,
spesso perseguono interessi diversi, contrapposti ; ed è un
dato di fatto che la partecipazione alla società è determinata
6
da motivi prettamente egoistici, per cui ogni socio cerca di
trarre il massimo vantaggio individuale dalla società ; così
come è un dato di fatto che frequentemente l’interesse
dell’azionista nella società è condizionato da altri interessi,
che con la società niente hanno a che fare.
E’ stato affermato, infatti, che neppure le delibere sulla
gestione dell’impresa attengono ad un interesse comune dei
soci in quanto tali, quale sarebbe quello alla produzione del
massimo profitto per la società, in quanto “anche rispetto
agli investimenti sociali esiste una diversità di interessi dei
soci, giuridicamente rilevanti, non solo rispetto alla
distribuzione o al reinvestimento degli utili, ma anche
relativamente alla loro diversa propensione al rischio e ai
loro diversi interessi a profitti più o meno immediati e quindi
potenzialmente distribuibili in tempi diversi”
1
.
Esistono o possono esistere, quindi, veri e propri conflitti
d’interessi tra i soci, la soluzione dei quali non può essere
affidata ad una meccanica applicazione del principio di
maggioranza, che può tradursi in strumento che consente al
gruppo di comando il perseguimento dei propri particolari
fini o la risoluzione a proprio favore dei conflitti inerenti
alla gestione sociale.
1
PREITE, L’ ”abuso” della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari
delle società per azioni, Milano, 1992,105-106.
7
Il problema dell’abuso, comunque, è squisitamente giuridico
; prescinde dalla dimensione e dai connotati sociologici od
economici della società . Esso nasce nel e dal principio di
maggioranza ed involge, quindi, l’intero assetto d’interessi
societario.
Si tratta sostanzialmente, ed in prima approssimazione, di
indagare sull’esistenza di eventuali limiti generali
all’applicazione della regola di maggioranza, ulteriori
rispetto a quelli attinenti alla mera forma del procedimento
deliberativo e a quelli derivanti da specifiche norme
societarie, e riguardanti, invece, le finalità, e gli interessi ad
esse sottostanti, perseguibili dai soci mediante il voto. Visto
nell’ottica dei soci “dissenzienti”, il problema si specifica in
quello di accertare se ed in quali limiti vi siano interessi non
perseguibili, attraverso la deliberazione, a danno della
minoranza, di vagliare insomma la consistenza della
subordinazione, insita nel principio maggioritario, degli
interessi di questa alla “volontà sociale”, quale espressa dai
votanti a maggioranza.
L’aver affermato la giuridicità del problema dell’abuso
implica che in tanto si potrà parlare di “abuso” in quanto
siano ravvisabili un divieto legale di “abusare” della
posizione di comando, appunto, e norme e/o principi di
diritto che ne conferiscano concreta applicazione.
Precisamente, essendo la delibera riconducibile ad un
8
fenomeno di potere, “inteso come idoneità dell’azione ad
incidere, anche, su di una sfera giuridica diversa da quella
degli agenti”
2
, l’”abuso” consisterà inevitabilmente nella
violazione delle norme regolanti l’esercizio del potere
assembleare, specificamente di quelle norme che dettano le
condizioni perché le decisioni dell’assemblea siano
vincolanti per “tutti i soci, ancorchè non intervenuti o
dissenzienti”, “condizionando l’operatività del principio
maggioritario”
3
La mancanza nel “corpus” di diritto societario di un
riferimento normativo espresso ad un divieto di abuso della
regola di maggioranza non può non indirizzare la ricerca nel
senso di esaminare se i limiti suddetti siano desumibili da un
principio implicito nell’ordinamento o da un enunciato
normativo espresso, nella legislazione non societaria, avente
carattere di principio espresso o clausola generale.
Invero, un’ipotesi testuale di repressione dell’abuso di voto è
prevista, in via generale, all’art.2373 c.c. : si rende utile,
quindi, un esame preliminare di tale disposizione.
2. L’art.2373 c.c. : il conflitto d’interessi.
2
FERRO-LUZZI, La conformità della deliberazione assembleare alla legge e
all’atto costitutivo, Milano, rist.1993, 151s.
3
FERRO-LUZZI, op.loc.cit.
9
L’art.2373 c.c. stabilisce che “il diritto di voto non può
essere esercitato dal socio nelle deliberazioni in cui egli ha,
per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con
quello della società”, pena l’impugnabilità della
deliberazione “qualora possa recare danno alla società” e se,
senza il voto dei soci in conflitto, non si sarebbe raggiunta la
necessaria maggioranza.
La nostra giurisprudenza prevalente, sulla scorta di una
dottrina tutt’oggi maggioritaria, offre, tuttavia,
un’interpretazione restrittiva dell’art.2373 c.c.
4
Si ritiene, infatti, che l’interesse personale del socio deve
essere, innanzi tutto, un interesse appunto, e non un motivo
5
.
Ai sensi dell’art.2373 c.c. si prescinde dalla situazione
soggettiva del socio, non rilevano i motivi psicologici che
muovano in concreto il socio nella determinazione del voto :
è irrilevante il fatto che il socio abbia creduto onestamente
di agire nell’interesse sociale o che abbia errato nella
valutazione dello stesso o, al contrario, che il voto sia stato
4
Emblematica, al riguardo, è CASSAZIONE 11 marzo 1993, n.2958, in
Riv.dir.comm., 1994,II,311, per la quale la fattispecie del conflitto d’interessi ex
art.2373 c.c. è caratterizzata da un contrasto oggettivo e preesistente tra l’interesse
concretamente perseguito dal socio di maggioranza e quello istituzionale della
società, individuato quest’ultimo in un interesse a contenuto patrimoniale, e
precisamente in quello che il patrimonio societario non sia danneggiato dalla
deliberazione, “potendosi individuare la ratio dell’articolo richiamato nella necessità
di colpire attentati all’integrità patrimoniale della società” (Nello stesso senso è la
Relazione al cod.civ., n.971).
5
L’opinione è assolutamente generale : cfr., da ultimo, CASSAZIONE 4 maggio
1991, n.4927, in Soc.,1991,1209 s.; T.MILANO 15.10.1987, in Soc.,1988,255 ;
T.MILANO 9.11.1987, in Giur.comm.,1988,II,967.
10
dato per assumere una posizione di vantaggio nei confronti
degli altri soci.
Tale interesse deve essere, poi, in contrasto con l’interesse
della società, nel senso che la soddisfazione dello stesso
deve implicare necessariamente il sacrificio dell’interesse
sociale
6
. Questo, poi, stando alle formule impiegate dai
giudici, è di frequente considerato in questa materia come
interesse istituzionale della società, “autonomo, diverso e
trascendente rispetto a quello dei soci, intesi sia
singolarmente che collettivamente”
7
, alla conservazione
dell’efficienza dell’impresa e dell’integrità del patrimonio
sociale ; non mancano, tuttavia, riferimenti espressi
all’”interesse comune dei soci come tali”
8
.
L’interesse in conflitto deve essere rilevabile sulla base di
una obiettiva situazione dell’azionista, preesistente rispetto
alla votazione assembleare. Sul requisito della preesistenza
della situazione conflittuale si sono confrontate
sostanzialmente due tesi. Una limita le ipotesi rilevanti di
conflitto ai casi in cui il socio sia destinato ad assumere una
6
V., per tutte, CASSAZIONE 4 maggio 1991, n.4927,cit. ; v. anche T.MILANO
27.4.1989, in Giur. comm.,1991,II,92 e T. MILANO 17.9.1987, in
Giur.comm.,1987,II,797. In dottrina v. MENGONI 445 ; GAMBINO 233s. ; JAEGER
208s ; contra, MINERVINI 321, per il quale si avrebbe “conflitto” in ogni caso di
“divergenza” tra l’interesse del socio e quello della società
7
V. T.CATANIA 30.9.1993, in Foro it.,1994,I,890 e T.MILANO 15.10.1987, cit.
8
V.A.MILANO 4.7.1989, inGiur.it.,1989,I,2,915 per la quale l’esercizio del voto è
legittimo finchè l’interesse particolare con esso perseguito “non si contrapponga a
quello solidale degli altri partecipanti” ; v. anche T.MILANO 11.4.1988, in
Giur.it.,1988,I,2,305.
11
posizione di controparte contrattuale rispetto alla società
9
;
l’altra, più moderna, ritiene che ad essere attuale,
preesistente alla delibera, è l’interesse ad un vantaggio
particolare, da realizzare appunto con la deliberazione.
Ma soprattutto acquista rilevanza, ai fini dell’invalidità della
deliberazione, un ulteriore requisito, considerato autonomo
rispetto all’esistenza del conflitto : la delibera, infatti, deve
avere la potenzialità di recar danno al patrimonio sociale
10
.
Dunque, rilevi il solo conflitto “oggettivo” o anche quello
“soggettivo”, e qualunque connotazione, istituzionalistica o
contrattualistica, “astratta” o “concreta”, sia data
all’”interesse della società”, ciò che rileva è, in definitiva,
l’idoneità obiettiva della delibera a provocare un danno alla
società.
Ne segue, ed è opinione comune, che non è in alcun modo
rilevante ex art.2373 c.c. il conflitto d’interessi che riguarda
solo i singoli soci o gruppi di soci tra loro, senza
pregiudicare la società
11
.
9
La tesi è propria della giurisprudenza più antica, anche se è stata recentemente
riproposta da A.MILANO 4.7.1989, cit.,per la quale “il fatto che il votante realizzi
attraverso il voto un interesse proprio (…) non determina una situazione di illiceità a
norma dell’art.2373 c.c. finchè l’interesse personale non fa assumere al socio la
posizione di controparte”.
10
L’individuazione nel danno al patrimonio sociale del “danno alla società” rilevante
ex art.2373 c.c. è nettamente prevalente : v., tra le tante, T.GENOVA 13.10.1986, in
Giur.comm.,1989,II,611 ; T.MILANO 9.11.1987, cit. ; A.MILANO 4.7.1989, cit.;
T.MILANO 12.6.1986, in Foro it.,1987,I,2358. In dottrina cfr., per tutti, GAMBINO,
108s.
11
Su tale ratio dell’art.2373 c.c. sussiste uniformità di vedute : cfr., da ultimo,
T.MILANO 11.4.1988, in Giur.it.,1988,II,2,305 ; T.CATANIA 17.5.1990, in
Riv.not.,1991,495 ; T.MILANO 9.5.1991, in Foro it.,1992,I,2526.
12
In conclusione, l’art.2373 c.c. consentirebbe di reprimere i
soli abusi della maggioranza, titolare di un interesse
extrasociale in conflitto con l’interesse della società, a danno
del patrimonio sociale : come solitamente si afferma
12
, esso è
posto a tutela dell’interesse della società, ha la finalità
primaria e diretta di salvaguardare l’intero gruppo sociale
con riferimento al patrimonio destinato all’attività comune ;
solo indirettamente ed eventualmente è strumento di garanzia
per i soci di minoranza, solo cioè in quanto il loro interesse
rientri nell’ambito dell’ “interesse della società” ivi tutelato.
3. I casi di abuso della regola di maggioranza.
La restrittiva interpretazione giurisprudenziale della
disciplina codicistica del conflitto d’interessi non può, però,
condurre a ritenere esaurita nell’ambito di tale disciplina la
rilevanza giuridica dell’abuso nelle deliberazioni
assembleari.
E’ stato affermato, e se n’è fornito già qualche esempio, che
il legislatore “suppone un conflitto di interessi che non
esiste, non si occupa del conflitto d’interessi che esiste”, o
altrimenti che “accanto all’ipotesi macroscopica e perciò
12
Cfr. GAMBINO, Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per
azioni, Milano,1987, 180s.
13
rara”
13
del conflitto d’interessi in senso tecnico occorre
considerare ben altre ipotesi di abuso, che sono, poi, “le
ipotesi più frequenti e pericolose di abuso della posizione di
controllo nella società per azioni”
14
.
Sono prospettabili, in primo luogo, casi in cui il socio di
maggioranza abbia, in concreto, un interesse extrasociale alla
deliberazione che si colora soltanto a contatto con le finalità
che ne hanno concretamente determinato il voto. A seconda
dei casi, la delibera diretta a concretizzare tale interesse può
essere pregiudizievole per l’intero gruppo sociale o per i soli
soci di minoranza.
Esempio di scuola relativo alla prima ipotesi può essere
considerato lo scioglimento anticipato della società
deliberato al fine di avvantaggiare altra società concorrente
nella quale la maggioranza è unico socio o parimenti
interessato. In tal caso, infatti, gli effetti pregiudizievoli
della delibera sono destinati a riflettersi su tutti gli azionisti
come tali ; l’ipotesi è realistica, in quanto i soci di
maggioranza neutralizzano il danno come componenti il
gruppo con lo speciale vantaggio conseguito all’esterno della
società.
13
ASCARELLI, I problemi delle società per azioni, in Riv.soc., 1956,I,28-29.
14
Così JAEGER, L’interesse sociale, Milano,1964, 207 e MENGONI, Appunti per
una revisione della teoria del conflitto d’interessi nelle deliberazioni di assemblea
di una società per azioni, in Riv.soc.,1956,453.
14
Quanto alle delibere lesive soltanto degli interessi della
minoranza, si pensi ad un aumento di capitale deliberato al
fine di ridurre la partecipazione azionaria alla società degli
azionisti di minoranza, approfittando della temporanea
impossibilità di questi di sottoscrivere le nuove azioni ; o ad
operazioni di fusione alle quali può seguire, per il
meccanismo del rapporto di cambio, l’esclusione o la mera
diluzione della partecipazione di alcuni soci ; o al reiterato
accantonamento di utili a riserva preordinato a deprimere il
valore di mercato delle azioni e ad indurre così il socio di
minoranza a vendere i propri titoli, permettendo alla
maggioranza di acquistarli a prezzo di favore.
In tali fattispecie, la società come impresa potrebbe risultare
più avvantaggiata che pregiudicata o in ogni caso “neutrale”
rispetto a tali delibere. Manca, infatti, un danno potenziale al
patrimonio sociale : la delibera di destinazione degli utili a
riserva, la delibera di aumento di capitale, quella di fusione
normalmente vanno ad accrescere il valore del patrimonio
sociale, o comunque questo resta intatto
15
.
Si verifica, invece, un pregiudizio per i soli soci di
minoranza : il socio che non è in grado di sottoscrivere le
nuove azioni, o il socio penalizzato dalla fissazione di un
rapporto di cambio incongruo, vede infatti ridotta o annullata
15
La giurisprudenza, infatti, nega l’applicabilità dell’art.2373 c.c. a delibere aventi
ad oggetto fusioni ed aumenti di capitale.
15
la propria partecipazione alla società. Pregiudizio che, di
regola, non deriva direttamente dal contenuto precettivo,
dispositivo della deliberazione, ma si verifica in via di fatto,
attraverso gli effetti pratici indiretti della deliberazione, sia
pure a volte essenziali (come nel caso di determinazione
inesatta del rapporto di cambio, che è un elemento tipico
della delibera di fusione) : nei cd. aumenti di capitale in
danno della minoranza, ad esempio, la riduzione della
partecipazione societaria del socio di minoranza non si
realizza direttamente con la deliberazione, ma in
conseguenza del mancato esercizio del diritto d’opzione, a
sua volta dipendente da fatti puramente personali al socio.
In ogni caso, si tratta di deliberazioni in astratto
riconducibili alla causa del contratto di società ex art.2247
c.c.
Né è in discussione l’esistenza stessa del potere deliberativo
della maggioranza : le situazioni giuridiche dei soci di
minoranza incise da tali deliberazioni sono liberamente
disponibili, in linea di principio, dalla società. Ove, infatti,
fosse ravvisabile un vero e proprio diritto soggettivo del
socio di minoranza, la deliberazione maggioritaria incidente
su di esso sarebbe invalida o inefficace per ciò solo, senza
bisogno di ricorrere ad uno specifico divieto di abuso.
Ebbene : quid iuris in tali casi? Sono lecite queste manovre?
Offre la legge un mezzo per colpirle?
16
In relazione a tali fattispecie, la giurisprudenza ha ammesso
l’impugnabilità della deliberazione per “eccesso” e/o “abuso
di potere”, trasferendo, così, nel diritto societario una
fattispecie propria del diritto amministrativo.