4
Introduzione
Il presente lavoro di tesi si propone di indagare sul fenomeno dell’impiego delle
istituzioni di democrazia diretta su un campione di Paesi. Lo scopo dell’analisi è quello di
mettere in evidenza le caratteristiche di questi istituti e il loro utilizzo all’interno dei
sistemi politici nelle democrazie oggetto dell’analisi, per andare in ultima analisi a studiare
gli effetti degli strumenti di democrazia diretta a livello economico.
Nel primo capitolo si procede alla presentazione di una rassegna della letteratura sul
capitale sociale. Dall’analisi delle diverse elaborazioni di questo concetto emerge la
multidimensionalità del fenomeno che è visto, in generale, sia come una rete di relazioni
interpersonali, sia come dimensione collettiva che include la definizione di capitale sociale
inteso come fiducia, reciprocità e come norme che regolano la convivenza. Quest’ultima
idea del capitale sociale è il cardine dell’analisi di Robert Putnam (1993) che imputa alla
presenza di capitale sociale e quindi al senso civico una delle fonti di sviluppo di un
territorio. Uno degli aspetti del capitale sociale che si è voluti mettere in evidenza nel
presente lavoro è la partecipazione dei cittadini alla vita politica e ai referendum, che è la
massima espressione di senso civico; la partecipazione ai referendum, infatti, consente ai
cittadini di esprimere attraverso il voto popolare un’opinione su una questione rilevante di
interesse collettivo.
Nel secondo capitolo si analizza la letteratura che ha verificato l’impatto delle
istituzioni di democrazia diretta sulle variabili economiche. In particolare, l’attenzione si
concentra sui lavori di Matsusaka (1995, 2004) il quale verifica su un campione di dati
relativi agli Stati Uniti gli effetti del diritto di iniziativa sulla politica fiscale. Ancora
Matsusaka (2004) affronta la questione degli effetti degli strumenti di democrazia diretta
sulla distribuzione della spesa pubblica tra il livello amministrativo centrale e il livello
amministrativo decentrato. Un modello interessante sull’interpretazione degli effetti degli
istituti di democrazia diretta è quello di Feld e Matsusaka (2003), il quale si basa sul
presupposto che il livello di spesa preferito dal governo è maggiore rispetto al livello di
spesa preferito dall’elettore mediano e giunge al risultato che il referendum obbligatorio
comporta un livello di spesa minore rispetto al referendum facoltativo. Un ultimo modello
su cui ci si sofferma è il contributo di Persson e Tabellini (2006) in cui si fa riferimento
agli effetti delle istituzioni di democrazia diretta sullo sviluppo economico.
Nel terzo capitolo viene analizzato il processo di partecipazione alle consultazioni
referendarie in diverse democrazie di tutto il mondo e, in particolare, in Paesi come la
5
Francia, la Germania, l’Italia la Svizzera e l’Argentina. In primo luogo, si evidenziano le
caratteristiche principali del voto referendario e, in particolare, le diverse accezioni in
termini sia di materie oggetto del voto sia di modalità attraverso le quali gli strumenti di
democrazia diretta intervengono nel processo politico. In secondo luogo, si propone una
analisi empirica dell’impatto dell’utilizzo di questi strumenti su alcune variabili
economiche. In particolare, verrà esaminata la relazione tra la partecipazione ai
referendum, misurata attraverso il rapporto tra il numero di votanti e il numero di aventi
diritto al voto, e tre variabili economiche: la spesa pubblica totale in rapporto al Prodotto
Interno Lordo, la spesa pubblica del governo centrale in rapporto al Prodotto Interno Lordo
e il Prodotto Interno Lordo pro-capite.
Il risultato a cui si giunge al termine dell’analisi empirica conferma la tesi
consolidata nella letteratura secondo cui l’impiego del referendum o dell’iniziativa
influisce sull’andamento delle variabili economiche. La spesa pubblica totale dei Paesi in
cui è consentita la partecipazione referendaria è diminuita dal 1995 al 2007 in misura
maggiore rispetto alla spesa pubblica dei Paesi che non fanno uso dei referendum, mentre
il Prodotto Interno Lordo è maggiore nei Paesi in cui è consentito ai cittadini di partecipare
al voto referendario per decidere su questioni importanti di interesse pubblico.
6
CAPITOLO 1
Il concetto di capitale sociale
1.1 Genesi storica del concetto e rassegna della letteratura
Il concetto di capitale sociale è caratterizzato da una natura molto complessa e
soprattutto multidimensionale, perché è costituito dalle caratteristiche della struttura
sociale che hanno la capacità di influenzare e coordinare i comportamenti individuali,
favorendo l’azione collettiva e consentendo il perseguimento di fini altrimenti
irraggiungibili. In tali caratteristiche sono comprese le norme sociali e i valori condivisi, le
reti di relazioni interpersonali informali e le organizzazioni volontarie intese come fattore
per la produzione di benessere. L’aspetto della multidimensionalità risulta evidente nel
momento in cui si prendono in considerazione i numerosi tentativi di fornire una
definizione e le diverse concettualizzazioni del termine, rendendo impossibile una
definizione rigorosa e univoca del concetto.
Proprio a causa della sua multidisciplinarietà tale argomento ha suscitato l’interesse
delle varie scienze da cui la sociologia, l’economia, la scienza politica e l’antropologia. La
sociologia enfatizza caratteristiche dell’organizzazione sociale quali la fiducia, le norme di
reciprocità e le reti di impegno civico. La scienza politica si sofferma, invece, sul ruolo
delle istituzioni e delle norme politiche e sociali nel plasmare il comportamento umano.
Inoltre, gli studi antropologici hanno focalizzato la loro attenzione sul naturale istinto
associativo dell’uomo. Infine, la letteratura economica si propone di spiegare il
comportamento di individui che, con l’obiettivo di massimizzare l’utilità soggettiva,
decidono di interagire con gli altri e di utilizzare le risorse del capitale sociale nello
svolgimento di innumerevoli attività di gruppo. In genere gli economisti trovano più
appropriato sostituire al termine di capitale sociale quello di bene relazionale.
Una seconda questione da mettere in risalto riguarda la difficoltà di misurazione del
capitale sociale e, la conseguente impossibilità di pervenire a una definizione univoca, ha
originato posizioni opposte e diversificate in ordine alla possibilità di rilevazione empirica
del concetto.
Inoltre, è argomento molto complesso anche la nascita di tale concetto; in effetti, è
ancora sconosciuto il momento esatto in cui tale concetto è apparso in letteratura e non è
7
nemmeno possibile al momento attribuire con precisione a qualche studioso la sua prima
esplicita definizione.
Tuttavia, avanzando delle ipotesi, una delle prime apparizioni del concetto di
capitale sociale potrebbe esser fatta risalire a più di un secolo fa, ovvero al 1916, quando
Lydia Hanifan definì capitale sociale “quegli elementi tangibili che contano più di ogni
cosa nella vita delle persone: la buona volontà, l’amicizia, la partecipazione e i rapporti
sociali tra coloro che costituiscono un gruppo sociale. Se una persona entra a contatto con i
propri vicini e questi, a loro volta entrano a contatto con altri vicini, si determina
un’accumulazione di capitale sociale” (Hanifan, 1916, 130), che può essere utilizzato per
soddisfare le esigenze individuali e favorire un miglioramento sostanziale delle condizioni
di vita della comunità. Subito dopo l’idea scomparve dal dibattito e fu ripresa con successo
solo all’inizio degli anni ’90, quando le ricerche di James Coleman sull’educazione e sulle
interazioni sociali (1988, 1990) e quelle di Robert Putnam sulla tradizione civica e il
rendimento delle istituzioni hanno guadagnato rapidamente l’attenzione della comunità
scientifica e del mondo politico (1993, 2000). A questi studiosi oltre che a Bourdieu (1986)
si deve l’elaborazione rigorosa del concetto di capitale sociale.
Per una migliore comprensione dell’importanza del concetto di capitale sociale, ai
fini dell’analisi dei processi di sviluppo, è utile fornire una descrizione del dibattito in
corso su questo tema da più di un decennio in ambito economico, sociologico e nelle
scienze politiche.
Le diverse definizioni di capitale sociale presenti in letteratura, anche se possono
apparire tra loro differenti, presentano un elemento che le accomuna: il riferimento alla
dimensione relazionale del concetto. È quindi opinione condivisa che il capitale sociale si
presenti come una risorsa fondata sull’esistenza di un qualche tipo di relazioni sociali.
A partire da tale elemento comune possono essere individuati due approcci, rispetto
ai quali i diversi autori hanno attribuito tale concetto:
Approccio relazionale (o collettivistico): Il capitale sociale è interpretato
come fattore operante a livello di comunità. Secondo questo approccio,
l’analisi di tale variabile, in termini di origine ed effetti prodotti, deve essere
condotta rispetto alla collettività nel suo complesso. Tale prospettiva
definisce il capitale sociale come bene pubblico e assume il significato di
coesione sociale, condivisione di norme e valori, fiducia generalizzata. Il
capitale sociale assume le caratteristiche di bene collettivo ed è
principalmente identificato come una caratteristica complessiva del sistema,
8
la cui origine può essere collegata ai sistemi di relazioni individuali. Robert
Putnam è uno degli autori di spicco di tale orientamento.
Approccio individualista: le definizioni di capitale sociale proposte da chi
segue questo secondo approccio hanno per oggetto i singoli individui,
incluse le competenze e le capacità relazionali da essi possedute. Il capitale
sociale è qui interpretato come variabile da esaminare a partire dall’analisi
dei comportamenti dei singoli agenti, i quali possono servirsi dei legami
sociali per il conseguimento di fini individuali altrimenti non raggiungibili,
o realizzabili solo sostenendo costi superiori. Questa prospettiva considera il
capitale sociale dal punto di vista dell’attore e della sua rete individuale, per
cui esso viene definito come un complesso di risorse di cui l’attore può
disporre in virtù della sua appartenenza ad uno specifico insieme di
relazioni sociali. James Coleman può essere considerato come il principale
esponente di tale corrente.
L’ampia ed eterogenea letteratura concettuale può essere, inoltre, ricondotta a due
dimensioni del capitale sociale, che sono tra loro non alternative, quanto piuttosto
complementari:
1. Il capitale sociale è fiducia interpersonale e norme sociali.
Tale tipo di visione si riscontra nei lavori di Putnam (1993), Fukuyama
(1994), Bowles e Gintis (1999). Secondo Bowles e Gintis il capitale sociale
si riferisce alla fiducia concernente gli associati, ovvero una propensione a
vivere secondo le norme di una comunità e, di conseguenza, a punire coloro
che se ne discostano.
2. Secondo un punto di vista più ampio il capitale sociale consta di
rapporti o network sociali.
La visione del capitale sociale basata su relazioni sociali è associata ai lavori
di Bourdieu (1986) e Coleman (1988).
Riprendendo la terminologia usata da Collier (1998) queste due dimensioni
definiscono il capitale sociale civile. Per questo autore, il capitale sociale è appunto
“sociale” perché coinvolge le persone nella loro socialità e perché attiene ad interazioni
non di mercato tra le persone che producono effetti economici, mentre è “capitale” in
quanto si riferisce ad uno stock multidimensionale di interazioni sociali, le quali per loro
natura sono durevoli e che sono in grado di dar luogo alla produzione di effetti durevoli.
9
La grande eterogeneità delle ricerche dedicate a questo argomento impone di
compiere una scelta tra i diversi possibili criteri di classificazione. Quello utilizzato qui di
seguito consiste nel ripartire gli studi considerati in base al particolare aspetto della
struttura sociale cui di volta in volta viene accordata maggiore enfasi nella definizione del
concetto di capitale sociale.
1.2 Il capitale sociale come partecipazione civica
Tra i tanti autori che si sono occupati di elaborare una nozione di capitale sociale,
Robert Putnam è tra i più noti. È proprio il suo studio “La tradizione civica delle Regioni
italiane”, del 1993, che fa tornare alla ribalta il tema del capitale sociale, essendo anche la
ricerca più citata nelle scienze sociali nel corso degli anni novanta. La ricerca di Putnam
vuole essere un contributo per la comprensione del rendimento istituzionale delle regioni
italiane, riprendendo l’approccio basato sulla cultura civica secondo l’ipotesi per cui il
rendimento reale delle istituzioni è modellato dal contesto sociale e soprattutto culturale
nel quale esse operano. Quindi l’autore intende andare oltre la generalizzazione secondo
cui “l’ambiente conta”, per scoprire quali sono gli elementi del contesto sociale che
incidono più profondamente sulla performance istituzionale, cioè sull’insieme delle
procedure che regolano il processo decisionale collettivo.
Il capitale sociale è definito da Putnam come “la fiducia, le norme che regolano la
convivenza e tutti gli elementi che contribuiscono a migliorare l’efficienza
dell’organizzazione sociale” (Putnam, 1993, pag. 196), consentendo alle persone di agire
collettivamente grazie ad un migliore coordinamento delle azioni individuali.
Nel suo studio del 1993, il politologo americano mette in relazione due variabili: il
rendimento istituzionale delle venti regioni italiane e la dotazione di capitale sociale, inteso
come civicness (cioè cultura civica o propensione all’impegno civico), da esse posseduto.
L’autore focalizza la sua attenzione sul caso italiano, perché esso è unico nel suo genere in
quanto costituito da modelli di democrazia uguali tra loro dal punto di vista organizzativo,
ma molto diversi dal punto di vista dell’efficienza amministrativa.
Il capitale sociale di ciascuna regione italiana viene misurato attraverso quattro
indicatori del livello di partecipazione civica:
1. Il numero delle associazioni di volontariato (comprendenti, ad esempio, le
società calcistiche per dilettanti, i circoli letterari e i club che organizzano gite).
2. Il numero dei lettori di giornali.
10
3. Un indice di affluenza alle urne per i referendum.
4. Un indice del voto di preferenza espresso nelle elezioni politiche.
In primo luogo, il livello di partecipazione civica è misurato attraverso la
partecipazione alle associazioni di volontariato. Il numero di queste ultime è impiegato
come strumento di misura in quanto il volontariato è l’esempio classico di espressione del
senso civico da parte di un individuo; esso, in effetti, consiste nel prestare gratuitamente
aiuto e nel dedicarsi agli altri senza pretendere in cambio alcuna contropartita.
Il secondo indicatore utilizzato da Putnam nella sua analisi è rappresentato dalla
lettura dei giornali a livello territoriale, poiché in Italia i giornali erano ritenuti il mezzo più
valido per diffondere le informazioni e i problemi del posto. Il presupposto da cui Putnam
parte è che i lettori siano più informati dei non lettori e, perciò, meglio preparati a
partecipare alla scelta di certe decisioni riguardanti la comunità (Putnam, 1993, pag. 109).
L’indice di affluenza alle urne per i referendum configura il comportamento
dell’individuo che si reca alle urne in occasione dei referendum per andare ad esprimere la
propria opinione su importanti questioni politiche. Questo atteggiamento è indice di alto
impegno civico, poiché la motivazione primaria degli elettori referendari è l’attenzione alle
questioni di interesse pubblico che è resa più forte da un senso del dovere civico superiore
alla media per cui la quota di partecipazione ai referendum è una misura di impegno civile
relativamente affidabile (Putnam 1993, pag.110).
L’ultimo indicatore impiegato per misurare il grado di senso civico di una comunità
è l’utilizzazione del voto di preferenza all’interno delle liste. Il voto di preferenza consiste
nella facoltà dell’elettorato di indicare la preferenza per un particolare candidato
appartenente alla lista del partito scelto. La scelta di questo indicatore da parte di Putnam
riflette la convinzione che l’espressione del voto di preferenza sia una possibile forma di
clientelismo. Egli ritiene che a livello nazionale sia solo una piccola minoranza ad
esercitare il voto di preferenza, ma nelle zone dove il simbolo del partito non è altro che
una copertura di forme di clientelismo, queste indicazioni sono avidamente richieste dai
candidati. In tali zone i voti di preferenza sono diventati la struttura portante del “voto di
scambio” (Putnam, 1993, pag. 111). Proprio in virtù di tale considerazione, il voto di
scambio può essere interpretato come simbolo di arretratezza della comunità civica.
Putnam individua una correlazione positiva tra la partecipazione sociale e il
rendimento delle venti regioni italiane, inteso in termini di efficienza delle istituzioni
amministrative regionali, e sostiene quindi l’idea che il governo democratico sia rafforzato
11
dal confronto con una rigorosa comunità civica intessuta di relazioni fiduciarie estese, di
norme di reciprocità organizzata e di reti di impegno civico.
Guardando nello specifico al concetto di rendimento istituzionale cui Putnam fa
riferimento, si può dire che esso prende le mosse da un modello molto semplice: richieste
sociali interazione politica governo scelte politiche realizzazione. Le istituzioni
governative ricevono inputs e producono outputs in risposta alle domande della società.
Ciò succede, ad esempio, quando i genitori che lavorano richiedono asili ad un costo
accessibile. Così i partiti politici ed altri gruppi se ne fanno portavoce e le autorità
decidono cosa fare ed eventualmente se farlo. Alla fine vengono prese delle decisioni, a
volte anche solo simboliche. Queste decisioni in seguito devono essere attuate, pertanto
vengono creati nuovi asili. Ai fini del conseguimento di una performance di alto livello e
quindi un alto rendimento, un’istituzione democratica deve essere non solo responsabile,
ma anche efficiente: responsabile nel prendere in considerazione le richieste degli elettori e
efficiente nell’impiegare le risorse limitate con lo scopo di venire incontro alle richieste.
Inoltre, considerando altri elementi più complessi l’efficienza di un governo
dipende anche dalla capacità di saper anticipare istanze che non sono state ancora
formulate, in modo da evitare che polemiche e paralisi arrestino il processo di attuazione. Il
rendimento delle istituzioni è essenziale poiché, alla fine la qualità delle politiche
pubbliche incide sulla vita dei cittadini (si pensi alle borse di studio che vengono
assegnate, alle strade pavimentate, ai bambini vaccinati); oppure si verifica il contrario se
la struttura governativa non funziona.
Allo scopo di pervenire alla misurazione dell’efficienza delle amministrazioni
regionali, Putnam utilizza una dozzina di indicatori funzionali alla valutazione 1) della
gestione politica e amministrativa, 2) della legislazione, 3) delle realizzazioni e 4) del
grado di attuazione delle politiche istituzionali. I primi tre indicatori fanno riferimento ad
aspetti inerenti al funzionamento della macchina amministrativa interna: la stabilità della
giunta, la presentazione del bilancio e i servizi di informazione e statistica. Le successive
sei unità di misura considerano le realizzazioni di ciascuna regione, cioè la capacità di
mettere in pratica ciò che è previsto da un determinato progetto politico in tutti i principali
settori dell’attività governativa regionale, comprese la sanità e l’assistenza sociale; tra
queste si ricordano: la presenza di asili nido e di consultori familiari, gli strumenti di
politica industriale, le realizzazioni nel settore sanitario e la spesa sanitaria, la raccolta
differenziata dei rifiuti urbani, le capacità di spesa del settore agricolo, le prestazioni
sociali, la capacità di spesa nell’edilizia e nello sviluppo urbanistico, la disponibilità
12
dell’apparato burocratico. La diversità di rendimento istituzionale riferibile alle regioni
italiane dipende quindi dal diverso grado di senso civico (civicness) di una comunità.
Nelle successive verifiche empiriche Putnam dimostra, infatti, che l’influenza
positiva delle dotazioni di capitale sociale si estende dal buon funzionamento delle
pubbliche amministrazioni al rendimento dell’economia e, in una prospettiva di lungo
periodo, influisce sull’intero processo di crescita del reddito (Helliwell e Putnam, 1995).
La causa della diversità dei livelli di partecipazione, cioè nelle dotazioni di capitale
sociale, è individuata nella storia, nel senso che tale diversità è il prodotto di un percorso
storico diverso tra le venti regioni italiane, che ebbe inizio in modo approssimativo in età
medievale intorno al 1100, quando l’Italia si divideva in due zone caratterizzate da diversi
regimi istituzionali: il Sud gerarchico e autocratico della monarchia normanna e il Nord
repubblicano ed egualitario dei liberi comuni.
Dall’analisi degli indicatori del rendimento emerge una fotografia dell’Italia
suddivisa in tre parti: il nord caratterizzato da un alto livello di rendimento, il sud che si
contraddistingue per un basso livello di rendimento e il Centro Italia che si arresta in una
posizione intermedia tra le due ripartizioni territoriali, con un livello di rendimento medio.
Dall’analisi degli indicatori di senso civico, emerge la stessa identica situazione di un’Italia
divisa in tre zone: le regioni che risultano essere più “civiche” sono tutte regioni
settentrionali, le regioni meridionali si caratterizzano per avere un basso livello di cultura
civica, mentre le regioni centrali possiedono un livello medio di civismo. Nel complesso il
quadro che emerge da tale analisi è quello di un’Italia in cui il Nord è molto efficiente ed
ha un elevato grado di senso civico, mentre il Sud si caratterizza per avere uno scarso
rendimento e uno scarso senso civico, per cui si può dire che l’operare delle istituzioni e
delle amministrazioni, ribadendo la tesi di Putnam, è fortemente condizionato dal contesto
sociale e dalla storia. Poiché il processo di produzione del capitale sociale si realizza nel
corso dei secoli, è evidente che l’intervento della politica finalizzato al sostegno dello
sviluppo economico e sociale trova poco spazio di manovra.
Nonostante la presenza di alcuni limiti, il contributo di Putnam ha il grande merito
di attrarre l’attenzione degli scienziati sociali, e in particolare degli economisti,
sull’importanza degli aspetti qualitativi dello sviluppo.
Negli anni successivi alla pubblicazione del suo studio, Putnam è tornato più volte
ad esprimere considerazioni al fine di interpretare i suoi risultati, giungendo alla seguente
conclusione: “La miriade di modi in cui lo Stato può incoraggiare e scoraggiare la
formazione di capitale sociale sono finora rimasti sottovalutati. Questo problema