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Cenni storici e politici sulla RSFJ
2
La “Jugoslavia” nasce al termine della I Guerra Mondiale come Regno dei Serbi, dei
Croati e degli Sloveni; già nel 1917 i rappresentanti in esilio dei governi di Serbia e
Croazia firmano un trattato che prefigurava, al termine del conflitto, la nascita di uno
Stato democratico e federale guidato dalla dinastia dei Karadordevic. Al termine del
Congresso di Parigi del 1918 si costituisce il nuovo Regno di Jugoslavia, che
comprende i due Regni di Serbia e Montenegro più vasti territori appartenuti all’ormai
dissolto Impero Austroungarico, tra cui la Slovenia, la Croazia, la Dalmazia e la Bosnia.
Il re Alessandro I, succeduto nel 1921 al padre, propone ben presto una politica
centralizzatrice che disattende le istanze democratiche e le ambizioni multietniche su
cui il nuovo Regno si era costituito: la debolezza del neonato sistema parlamentare
accentua le prerogative del monarca, che, pochi mesi dopo il suo insediamento, vara una
nuova Costituzione fortemente lesiva delle libertà personali e dei diritti sociali. La
progressiva centralizzazione della politica nazionale accresce il malumore popolare e
favorisce la crescita delle prime formazioni regionaliste e/o comuniste; l’assassinio del
Ministro degli Interni nel 1921 e l’attentato, nel 1928, ad un deputato croato ad opera di
un montenegrino testimoniano il clima di violenza e la difficoltà nella creazione di uno
stato multietnico. In risposta alla crescente tensione, nel 1929 Alessandro I abolisce la
Costituzione ed avvia una dittatura personale (c.d. “Dittatura del 6 gennaio”). Con la
nuova Costituzione del 1931, al re spetta la nomina dell’esecutivo e di metà dei membri
della Camera alta: per sottolineare quanto la divisione dei poteri sia solo fittizia, basti
pensare che è sufficiente il voto favorevole di una delle due Camere, e la successiva
approvazione del monarca, per esercitare il potere legislativo. La durissima repressione
non fa che accentuare le istanze autonomiste delle varie regioni del Regno: in Croazia il
Partito Contadino ed il movimento ustascia di Pavelic (avvicinatosi al regime fascista di
Mussolini) pubblicano nel 1933 il Manifesto di Zagabria, nel quale rivendicano la piena
autonomia della Croazia; negli anni successivi, anche in Slovenia e Macedonia le
pressioni indipendentiste si fanno sempre più forti. Alla morte di Alessandro, avvenuta
nel 1931 proprio per mano di ustascia ed indipendentisti fascisti macedoni, succede un
Consiglio di reggenza che accompagna il principe reggente Paolo alla guida del paese
2
Queste poche pagine non si propongono come ricostruzione esaustiva della storia della Jugoslavia
Socialista, ma solamente come cenni necessari ad una migliore comprensione degli eventi successivi. Gli
eventi che porteranno alla dissoluzione della RSFJ (1981-1990) saranno analizzati approfonditamente nei
capitoli relativi ai vari paesi.
20
fino alla decisione di entrare in guerra al fianco di Germania, Giappone ed Italia. In
seguito alle violente proteste popolari, il nipote del principe e parte dell’èlite politica
attuano il 27 marzo 1941 un colpo di stato: il Regno di Jugoslavia esce
improvvisamente dall’alleanza, e le vicine potenze dell’Asse lo invadono in poche
settimane. La Jugoslavia conosce quindi un nuovo sfaldamento: gran parte del Regno
viene spartito tra Germania, Italia, Bulgaria ed Ungheria. “La Croazia dell’ustascia
Pavelic divenne un regno indipendente e la sua corona venne destinata a un esponente
della casa regnante d’Italia. Avvenne lo smembramento del regno, a soddisfazione delle
mire secolari dei vicini: la Slovenia venne annessa dall’Italia; la Serbia fu occupata e
vi venne instaurato un governo collaborazionista fantoccio; la Bosnia precipitò nel
caos della guerra tra fazioni (nella quale iniziarono ad operare i comunisti di Tito); il
Kosovo venne annesso all’Albania, allora provincia italiana; la Macedonia assorbita
dalla Bulgaria; l’Ungheria si prese la Vojvodina”
3
. Fin dal 1941, iniziano ad
organizzarsi in tutte le regioni quelle prime forze di resistenza che andranno a formare il
Fronte Popolare (in seguito denominato AVNOJ, Consiglio Antifascista per la
Liberazione della Jugoslavia); similmente a quanto accade in Italia, le forze di
resistenza riuniscono una grande varietà di movimenti politici contrari al nazifascismo,
tra i quali ben presto emerge, per dimensione e organizzazione, il partito comunista. La
resistenza jugoslava è l’unica forza in Europa
4
capace di liberarsi senza l’intervento
delle potenze alleate; l’emergere della figura di Tito come leader indiscusso della
resistenza fa sì che la liberazione si trasformi in una “vittoria della nazione jugoslava e
del proletariato”. Già nel novembre del 1944, quando la lotta di liberazione è ancora in
pieno svolgimento, i comunisti di Tito dichiarano la nascita della Repubblica Socialista
di Jugoslavia
5
; alla fine del conflitto, la strutturazione capillare del partito comunista su
tutto il territorio jugoslavo e la “lungimiranza” della dichiarazione del 1944 consegnano
di fatto il paese a Tito. Le potenze europee, che avevano inizialmente osteggiato
l’avvento di un governo comunista, decidono di non schierarsi, anche per la convinzione
che i comunisti siano l’unica forza capace di sedare le continue spinte indipendentiste
provenienti dalle varie regioni del nuovo Stato: in effetti, per quasi cinquant’anni, il
mito della resistenza, facilmente cavalcato dai comunisti di Tito, sarà il più grande
collante tra i popoli della Federazione. Con il varo della nuova Costituzione del 1946, il
3
G. Tassinari [2003], Nascita e dissoluzione della Jugoslavia, Milano: Alpha Test.
4
Escludendo, ovviamente, l’Unione Sovietica.
5
Dal 1946 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (RSFJ), costituita dalle Repubbliche di Serbia,
Croazia, Slovenia, Montenegro, Bosnia e Macedonia.
21
Partito Comunista si erge a guida del paese dichiarandosi unica forza politica legalizzata
ed esercitando un controllo sempre più radicato sull’apparato statale; in breve i
comunisti trasformano ogni organizzazione culturale, politica e lavorativa in una propria
cinghia di trasmissione e controllo sociale. La situazione internazionale sembra favorire
(o almeno, non ostacolare) l’ascesa al potere del Partito Comunista; la Jugoslavia,
guardata più con curiosità che con scetticismo dalle potenze europee, è fin dal 1944
scelta da Mosca come sede del Cominform, vista la sua storia di orgogliosa liberazione
dal nazifascismo e la posizione geopolitica che ne faceva un “ponte” verso l’Europa in
ricostruzione. Il progetto politico di Tito, che fonde abilmente propaganda comunista e
retorica nazionalista, è però destinato a scontrarsi con Stalin già nel 1947: l’idea di
creare una grande “Confederazione balcanica”, unita all’ambiguità dei rapporti con la
Gran Bretagna, irritano il dittatore sovietico portando all’espulsione dal Cominform di
ogni forza nazional-comunista, in primis il partito unico jugoslavo. L’allontanamento
dall’Unione Sovietica favorisce, paradossalmente, il rafforzamento dell’immagine di
Tito come eroe nazionale, determinato nel rivendicare la propria indipendenza
dall’URSS come lo era stato nella lotta antifascista: la retorica nazionalista giustifica
così il carattere sempre più peculiare che va ad assumere il socialismo jugoslavo.
Inoltre, la posizione internazionale della RSFJ diventa ancora più favorevole: non solo
può giovarsi degli aiuti internazionali (il Piano Marshall prima e, soprattutto, i contributi
britannici per oltre trenta anni) del mondo occidentale, ma può rivendicare una
posizione autonoma da Mosca. Nel novembre 1952, il Partito Comunista di Jugoslavia
(KPJ) nel suo VI Congresso cambia il nome in “Lega dei Comunisti di Jugoslavia”
(LCJ) annunciando la prosecuzione del programma di riforme avviato fin dalla fine
degli anni ’40. Il processo di collettivizzazione delle fabbriche e delle proprietà, punto
cardine del disegno politico comunista, si conclude nel 1953 con il varo di una nuova
legge costituzionale che definisce il sistema dell’ “autogestione sociale”: questo prevede
l’affidamento ai lavoratori delle proprietà e dei mezzi di produzione tramite la loro
organizzazione in Consigli di fabbrica e Parlamenti comunali. La riforma prevede
quindi una modifica all’intero assetto istituzionale del paese, creando un sistema
assembleare a più livelli che rappresenti e tuteli i vari gruppi sociali presenti; per quanto
riguarda il mondo del lavoro, tutte le categorie lavorative vengono dotate di un proprio
ordine associativo; a livello locale, le varie corporazioni si riuniscono in una sorta di
Parlamento comunale (obcina) per stanziare i fondi federali, nominare i direttori delle
imprese e decidere la linea produttiva da adottare; in pratica, le obcina sono l’unità di
22
base del socialismo autogestito jugoslavo. I vari delegati restano comunque strettamente
collegati alla struttura di riferimento, che esercita un preciso controllo sulla
“rappresentanza”: in sostanza, la gestione politica economica del paese viene quindi
assegnata ai Consigli di fabbrica e alle organizzazioni sindacali, incaricate di negoziare
con la Lega dei Comunisti la produzione delle varie fabbriche e la gestione di ogni
risorsa resa collettiva.
La posizione sovietica per l’ “eresia nazionalista” di Tito conosce una brusca inversione
con la morte di Stalin (1953) e l’avvento di Kruscev; il nuovo leader avvia il processo di
destalinizzazione proprio recandosi in visita a Belgrado nel 1955; i comunisti di Tito
ricevono quindi la legittimazione internazionale anche di un’ Unione Sovietica in
apparenza disposta ad aprire a quelle “vie nazionali al socialismo” che invece
condannerà drammaticamente solo un anno dopo in Ungheria. La RSFJ diventa così un
esperimento guardato con favore dall’URSS e dal mondo occidentale, fungendo da
cuscinetto e alleggerendo la tensione tra i blocchi per la sua particolare posizione
geopolitica e la peculiare caratterizzazione politica. Gli aiuti internazionali e la
favorevole convergenza economica riescono a mascherare, durante gli anni ’50, i limiti
del sistema produttivo jugoslavo, che emergono in tutta la loro forza negli anni ’60,
costringendo la leadership comunista a rivedere la politica economica del paese: al varo
di una nuova Costituzione nel 1963 segue due anni dopo una ben più rilevante riforma
economica. Il pacchetto di leggi avanzato nel dicembre 1964 al VIII Congresso della
LCJ prevede di fatto l’abbandono di un modello socialista “classico” (sempre che, con
tutte le sue peculiarità, il sistema jugoslavo degli anni ’50 potesse definirsi tale),
dichiarando la necessità di aprirsi al mercato internazionale e liberalizzare i prezzi:
l’èlite politica giustifica le riforme con il riconoscimento dell’autonomia delle singole
unità produttive, prova inconfutabile del trionfo del sistema dell’autogestione. Tuttavia,
le innovazioni del 1965 non sarebbero bastate a risolvere il progressivo peggioramento
della situazione economica, se non fossero state accompagnate da una crescita degli
aiuti internazionali dopo la repressione della Primavera di Praga da parte dell’Armata
Rossa; la particolare situazione internazionale contribuisce quindi a ritardare ancora una
volta un tracollo economico sempre più prevedibile.
Intanto, le riforme economiche del 1963 iniziano ad avere conseguenze anche sul piano
politico, contribuendo ad alimentare sentimenti nazionalisti mai del tutto sopiti in molte
regioni della Jugoslavia: l’apertura alla concorrenza ha portato ad un’inevitabile
differenziazione non solo tra le varie Repubbliche, ma anche a livello comunale;
23
conseguentemente, cresce la tensione politica tra uno Stato federale sempre più esigente
e meno informato sulle esigenze locali e livelli territoriali progressivamente più
autonomi nelle decisioni di politica economica. Inoltre, “(…) all’interno delle imprese
l’autogestione operaia e i suoi organi di gestione vennero progressivamente svuotati a
favore di una tecnocrazia che occupò spazi sociali e politici”
6
, riducendo nettamente la
portata reale del sistema dell’autogestione. Al crescere degli squilibri regionali
riprendono voce le istanze autonomiste (quando non dichiaratamente indipendentiste)
delle regioni economicamente più sviluppate: la Slovenia, grazie ad una leadership
comunista particolarmente riformista (incarnata da Kardelj, maggior ideologo jugoslavo
e braccio destro di Tito fin dagli anni ’40) riesce a negoziare spazi di maggiore
autonomia economica grazie al determinante supporto alla produttività nazionale. Al
contrario in Croazia l’èlite politica più riformista assume rapidamente posizioni
nazionaliste, sostenuta da un mondo intellettuale da sempre scettico verso la politica
accentratrice di Belgrado in materia economica e politica: lo scoppio di moti di protesta
(la c.d. “Primavera di Zagabria”) termina nel 1971 con l’arresto di tutti i promotori del
movimento e l’inizio del “Silenzio Croato”, il periodo di maggiore repressione delle
voci di opposizione da parte della Lega dei Comunisti nazionale. Il decentramento
economico ed i moti di fine anni ’60 fanno emergere in tutta la loro evidenza i limiti
dell’assetto istituzionale jugoslavo, costringendo la leadership comunista a varare una
nuova Costituzione (la quinta dal 1946) nel 1974: nel nuovo disegno costituzionale
aumenta in maniera determinante il ruolo delle singole Repubbliche e Province
Autonome
7
, riducendo di fatto gli organi federali a luoghi di negoziazione tra decisioni
prese a livello regionale. Solo la presenza di Tito e il suo continuo ricorso al mito della
“resistenza jugoslava” riusciranno a calmierare le spinte autonomiste
8
e i contrasti tra
Leghe nazionali sempre più affrancate da un sistema che, all’atto pratico, presenta già
molti tratti confederali. Le varie Leghe, radicate nella società grazie alle varie strutture –
emanazioni del partito comunista, proseguono negli anni la loro differenziazione,
mostrandosi più attente alle richieste della società civile nel Nord (Slovenia e Croazia) e
più condizionate dalle istituzioni federali nei paesi economicamente più arretrati.
Per quanto riguarda l’assetto istituzionale, la nuova Costituzione sancisce l’introduzione
di un sistema tricamerale, all’interno di ognuna delle Repubbliche, sancito dalla
6
G. Tassinari [2003], op. cit.
7
Kosovo e Vojvodina.
8
O, secondo altre interpretazioni, a ritardarle per poi farle deflagrare con maggiore potenza.
24
Costituzione del 1974. La Camera Socio-Politica si compone dei delegati delle 5
strutture politiche riconosciute (la Lega dei Comunisti e le sue principali derivazioni:
l’Alleanza Socialista dei Lavoratori, i Giovani Socialisti, le Trade Unions e
l’Associazione dei veterani di guerra). La Camera dei Comuni riflette la suddivisione
amministrativa e politica di ogni Stato cercando di rappresentare i vari interessi locali;
la Camera del Lavoro Associato, infine, rappresenta, in chiave corporativa, i lavoratori
dei principali settori economici del paese. L’elezione dei vari membri delle Camere non
avviene direttamente ma tramite l’elezione di un organo assembleare locale, il quale ha
il compito di scegliere il rappresentante considerato più idoneo a tutelare gli interessi
del gruppo sociale di riferimento; ovviamente all’interno del sistema politico,
egemonizzato dalla Lega dei Comunisti e dalle sue strutture, non si assiste ad alcuna
competizione politica, come pure nelle Camere i rappresentanti si limitano ad una
generica tutela dei vari frammenti della società che è sostanzialmente subalterna
all’interesse collettivo almeno quanto il loro mandato lo è alla decisione del partito. A
livello federale, la RSFJ si dota di un sistema bicamerale; la Camera delle Repubbliche
e delle Province conta 88 rappresentanti (12 per ogni Repubblica, 8 per ogni Provincia)
scelti dalle varie assemblee nazionali; la Camera Federale conta invece 220 delegati (30
per ogni Repubblica e 20 per ogni Provincia), scelti dalle varie assemblee obcina. In
sostanza, l’elezione dei membri della Camera Federale, così come quella delle Camere
del Lavoro, avviene passando per le obcina, fondendo quindi un sistema a base
corporativo con uno a base localistico. La Presidenza della Repubblica Federale è un
organo collegiale di 8 membri (uno per ogni Repubblica e Provincia più il Presidente
della Lega dei Comunisti della Jugoslavia); il ruolo di Presidente della Presidenza ha
mandato annuale, ed è ricoperto a rotazione tra i rappresentanti dei vari Stati; dal 1974 il
potere della Presidenza si accenta fino a definire i rapporti diplomatici con l’estero, la
risoluzione dei disaccordi tra gli Stati-membro e la nomina del primo ministro, a capo
dell’Assemblea Federale. Il potere decisionale è di competenza delle Camere convocate
di volta in volta a prendere posizione; dal 1974 i delegati delle varie assemblee
nazionali saranno addirittura convocati separatamente a seconda delle questioni da
analizzare secondo la loro natura; i casi di contrasto tra le camere sono ovviamente
rarissimi vista la comune sottomissione alla Lega dei Comunisti, mentre sono più
frequenti i dissidi tra le decisioni prese a livello federale e nazionale. Gli organi
esecutivi nazionali, infine, per prevenire la concentrazione del potere statale nelle mani
25
del governo (che comunque difficilmente prenderebbe posizioni divergenti), si vedono
privati di gran parte delle proprie funzioni in favore degli organi assembleari.
Figura 1 Assetto istituzionale sancito dalla Costituzione del 1974, rielaborazione.
Come detto, solo il carisma di Tito ed il continuo ricorso alla retorica della resistenza,
unico amalgama dei popoli jugoslavi, erano riusciti per quasi quaranta anni a contenere le
spinte autonomiste che si erano sviluppate in varie regioni di una (con)federazione
caratterizzata da infinite diversità culturali, religiose ed etniche. La morte dell’anziano
leader nel maggio 1980 avvia un decennio di costante crescita dei sentimenti nazionalisti:
la politica del maresciallo Tito era stata mirata a garantire a ciascuna nazionalità “(…) la
propria unità territoriale ed il proprio apparato governativo”, rendendo le varie
Repubbliche “nazionali nella forma e socialiste nel contenuto”
9
: in pratica il Partito
Comunista aveva il compito di mantenere una politica accentrata grazie al ricorso al mito
della liberazione e alle strutture che cementavano l’unità dei popoli jugoslavi, in primis
l’esercito federale. Il maresciallo aveva quindi cercato di tenere a freno le varie spinte
autonomiste dosando abilmente un centralismo democratico prettamente leninista con
occasionali concessioni alle singole Repubbliche. Se per alcuni studiosi Tito era stato in
grado di contenere le spinte indipendentiste e garantire una convivenza (relativamente)
pacifica delle popolazioni jugoslave, per altri la sua politica finisce per alimentare un
antagonismo tra Repubbliche che scoppierà, in tutta la sua forza, solo dopo la sua morte.
Se sloveni e croati continuavano a chiedere maggiore autonomia, in primis economica ma
anche amministrativa e culturale
10
, d’altra parte i serbi vedevano ogni concessione come
9
N. M. Naimark [2002], La politica dell’odio, Roma: Laterza
10
V. in seguito il dibattito sull’uso della lingua serba e/o croata.
26
un affronto alla loro storia, che li aveva visti protagonisti di secolari battaglie a difesa del
territorio dell’attuale RSFJ: “Al pari dei russi nell’Unione Sovietica, i serbi si
consideravano i difensori e custodi dell’unità e integrità jugoslava, e sempre al pari dei
russi ritenevano che i propri interessi fossero stati sacrificati al bene comune della
federazione”
11
. Al crescere delle istanze autonomiste in Slovenia e Croazia durante gli anni
‘80
12
, anche il mondo intellettuale serbo e parte della Lega dei Comunisti nazionale
spostano il focus della loro promozione ideologica dalla difesa dello jugoslavismo (che
comunque aveva caratteri serbo centrici) alla promozione del sentimento nazionalista
serbo. L’inversione di rotta è simboleggiato dal Memorandum dell’Accademia delle
Scienze Serba del 1986, con il quale l’intellighenzia serba denuncia l’omologazione
culturale subita dai serbi residenti nelle altre Repubbliche; la questione dell’uguaglianza
dei popoli slavi all’interno della Federazione è risolta dagli autori con la decisa
affermazione della superiorità dell’etnia serba. Secondo il documento non solo le altre
Repubbliche minacciavano continuamente l’unità territoriale della Federazione,
conquistata principalmente grazie all’apporto serbo, ma impedivano lo sviluppo delle
tradizioni culturali e delle organizzazioni politiche della minoranza serba: “Le numerose
rappresentanze serbe che vivono in altre Repubbliche non hanno, a differenza delle
minoranze nazionali, il diritto di parlare e scrivere nella propria lingua, di creare proprie
organizzazioni politiche o culturali, o di promuovere le comuni tradizioni culturali della
loro nazione insieme ai loro connazionali”
13
. Particolarmente drammatica appariva, agli
occhi degli autori, la situazione dei serbi nel Kosovo; il memorandum invocava la fine
dell’odio contro i serbi e l’annessione delle Province Autonome di Kosovo e Vojvodina a
Belgrado, per tutelare gli interessi della minoranza serba, oppressa dalle spinte nazionaliste
albanesi. La parallela ascesa, all’interno della Lega dei Comunisti di Serbia, di Slobodan
Milosevic è proprio dovuta all’abilità del futuro leader di cavalcare il sentimento
nazionalista serbo: divenuto presidente del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti di
Serbia nel 1986, l’anno seguente si reca in Kosovo, incitando gli ultranazionalisti serbi ad
armarsi contro le autorità kosovare e dichiarando loro tutto l’appoggio di Belgrado. Nei
mesi successivi Milosevic, che ormai gode di un’eccezionale popolarità in tutta la Serbia,
dichiara la revoca delle Province Autonome; nel marzo 1989 l’esercito federale occupa il
Kosovo. All’interno della RSFJ sono già in corso le battaglie politiche tra Belgrado e le
11
N. M. Naimark, op. cit.
12
Cfr. i relativi capitoli.
13
K. Mihailovic e Krestic V. [1995], Memorandum of the Serbian Academy of Sciences and Arts: Answer to
Criticism, Belgrado.
27
Repubbliche del Nord che rivendicano maggior autonomia e/o iniziano ad ipotizzare
l’indipendenza da Belgrado, a fronte del crescente serbo centrismo caldeggiato da
Milosevic. Il 28 giugno 1989, seicentesimo anniversario della battaglia che aveva visto la
vittoria dei serbi sugli ottomani, Milosevic convoca un raduno di massa a Kosovo Polje,
cui partecipa oltre un milione di serbi: “Milosevic ripeté il ritornello che la Serbia aveva
sofferto troppo per permettere alle parti costitutive della Jugoslavia di staccarsi attraverso
l’autonomia o la secessione. Ovunque vi fossero ossa serbe sepolte sotto terra, insistette,
Milosevic, quello era territorio serbo”
14
. Con il discorso pronunciato in Kosovo, Milosevic
prosegue la sua folgorante carriera politica, sorretto dall’incondizionato sostegno di milioni
di serbi, tanto che solo due mesi dopo è eletto Presidente della Repubblica: la sua retorica
nazionalista e il suo serbo centrismo saranno destinati, come vedremo, a segnare tutta
l’evoluzione storica e politica dell’intera Jugoslavia. Nei prossimi capitoli analizzeremo il
comportamento delle varie èlite comuniste nazionali, a partire dalla decisione di aprire alla
liberalizzazione politica le elezioni del 1990: come vedremo, Milosevic si dimostrerà
lungimirante nel ridefinire, fin dal 1989, il nuovo assetto istituzionale del paese ed una
legge elettorale che, nonostante la competizione politica, garantirà la permanenza al potere
dell’èlite comunista serba e montenegrina e la sopravvivenza della Repubblica Federale
nonostante la vittoria anticomunista e le istanze indipendentiste provenienti da Slovenia e
Croazia.
14
N. M. Naimark, op. cit.
28
29
CAPITOLO 1
SERBIA E MONTENEGRO
30
Siglario Partiti politici e data di apparizione nella competizione elettorale, Serbia.
Sigla Nome Traduzione Elezioni
DA Demokratska Alernativa Alternativa Democratica 1997
DEPOS Demokratski Pokret Srbije Movimento Democratico Serbo (coal.) 1993
DKP Demokratska Koalicija Presevo Coalizione Dem. Presevo – Bujanovac 1997
DOS Demokratska Opozicija Srbije Opposizione Democratica Serba 2000
DPA Demokratska Partija Albanaca Partito Democratico Albanese 1993
DRSM Demokratska Reformska Muslimana Partito Dem. Riformista Musulmano 1990
DS Demokratska Stranka Partito Democratico 1990
DSH Demokratski Savez Hrvata Unione Democratica dei Croati 1990
DSS Demokratska Stranka Srbije Partito Democratico Serbo 1993
DZVM Demokratska Zajednica Vojv. Madjara Alleanza Dem. Ungheresi di Vojvodina 1990
LSV Liga Socijaldemokrata Vojvodine Lega Socialdemocratica di Vojvodina 2007
G. 17 G 17 Plus Gruppo di economisti 2000
GS Gradjanska Stranka Partito Civico 1992
GSS Gradjanski Savez Srbije Alleanza Civica di Serbia 1996
JUL Jugoslovenska Levica Sinistra Unita Jugoslava 1996
ND Nova Demokratija Nuova Democrazia 1993
NS Nova Srbija Nuova Serbia 2000
PDD Partija za Demokratsko Delovanje Partito Attività Democratica 1990
PDS Pokret Demokrtsku Srbiju Movimento per la Serbia Democratica 2000
PPS Penzionerska Partija Srbije Partito Pensionati Serbi 2008
PSS Pokret Snaga Srbije Partito Forza Serbia 2008
RDSV Reformska Demokratska Stranka Vojv. Partito Democratico Riformatore Vojv. 1992
SCP Serpski Cetnicki Pokret Movimento Cetnico Serbo 1990
SDA Stranka Demokratske Akcije Partito di Azione Democratica 1990
SDS Srpska Demokratska Stranka Partito Democratico Serbo 1990
SDU Socialdemokratska Unija Unione Socialdemocratica 2007
SLS Srpska Liberalna Stranka Partito Liberale Serbo 1993
SJ Stranka Jugoslovena Partito Jugoslavo 1990
SNO Srpski Pokret Obnove Rinnovamento Nazionale Serbo 1990
SPS Socijalisticka Partija Srbije Partito Socialista Serbo 1990
SRS Srpska Radikalna Stranka Partito Radicale Serbo 1993
SRSJV Savez Reformskih Snaga Jug, Vojv. Unione Riformisti Jug. Di Vojvodina 1990
SSJ Stranke Srpskog Jedinstva Partito di Unità Serba 1993
SSS Seljacka Stranka Srbije Partito Rurale Serbo 1990
SZP Savez za Promene Alleanza per il Cambiamento 2000
UJDI Udruzenje Jug. Demokratsku Inicijativu Unione per l’Iniziativa Dem. Jugos. 1990
Zajedno Zajedno “Insieme” (SPO, DS, GSS e DSS) 1996
31
Siglario Partiti politici e data di apparizione nella competizione elettorale, Montenegro.
Sigla Nome Traduzione Elezioni
SK CG Savez Komunista Crne Gore Lega dei Comunisti (poi DPS) 1990
SRSJ CG Forze Riformiste Unite Jugoslave 1990
NS Narodna Stranka Partito Popolare 1990
DPS Demokratska Partija Socijalista Partito Democratico dei Socialisti 1992
SDA Stranka Demokratske Akcije Partito di Azione Democratica 1990
LS CG Liberalni Savez Crne Gore Alleanza Liberale di Montenegro 1990
SRS Srpska radikalna stranka Partito Radicale Serbo 1992
SDP Socijaldemokratska Partija Partito Socialdemocratico 1996
Coalizione Narodna Sloga Coalizione di Unità Popolare, NS e LS 1996
DS Demokratski Savez Alleanza Democratica (Albanese) 1996
DUA Demokratska Unija Albanaca Unione Democratica Albanese 1996
YUL Jugoslovenska Levica Sinistra Unita 1996
Coalizione Da Zivimo Bolije Per Vivere Meglio 1998
SNP CG Socijalistička narodna partija Crne Gore Partito Socialista Popolare 1998
SNS Srpska narodna stranka Partito Popolare Serbo 1998
Coalizione Koalicija za Evropsku Montenegro Europeo (“Per Vivere Meglio”) 2002
NS Nova Srbija Nuova Serbia 2009
32
33
Le Elezioni del 1990 in Serbia e Montenegro
Il partito socialista serbo, erede diretto della Lega dei Comunisti della Serbia, acquista fin
dalla sua nascita nel luglio 1990 una posizione predominante nel nascente panorama multi
partitico; in Serbia, scrivono Marko e Kriegar “fin dal 1987, l’elite comunista al governo
guidata da Slobodan Milosevic ha combinato un autoritarismo (comunista) populista con
un nazionalismo basato sull’esclusione etnica e aggressivo nei confronti dei paesi
confinanti come nuova ideologia di legittimazione, in modo da poter mantenere il potere
dopo le prime elezioni multipartitiche”
15
; in Montenegro i socialisti si affrettano nel
gennaio 1989 ad emulare Milosevic attuando un proprio “programma nazionale” del tutto
simile a quello dei comunisti serbi. La svolta nazionalista, tipica di ogni regime autoritario
che teme una perdita di consensi, diventa con il multipartitismo lo strumento ideale per
reinventare il partito, sostituendo il nazionalismo all’ideologia comunista. Così Milosevic
si dichiara “difensore del popolo serbo”, denunciando la politica di Tito (croato) di
repressione di ogni sentimento nazionalista; l’idea di fondo è iniziare un processo di
centralizzazione politico-amministrativa e costruire, sulle spoglie della RFSJ, una nuova
“Grande Serbia”. Ma Milosevic si dimostra lungimirante anche nell’anticipare la crisi
del regime, affrettandosi nel 1989 a varare una nuova carta costituzionale. Il potere
legislativo viene assegnato ad una sola Camera di 250 membri, eletta con sistema
maggioritario in collegi uninominali (160 nella regione della Serbia, 56 in Vojvodina e 34
in Kosovo); qualora nessun candidato raggiunga la maggioranza assoluta al I turno, i primi
due passano ad un II turno di ballottaggio. Se il I turno dà comunque la possibilità ai vari
schieramenti di testare il proprio rendimento e verificare le capacità dei propri candidati,
un sistema maggioritario di questo tipo prevede un grande sforzo di coordinamento
strategico tra i partiti al II turno, probabilmente inattuabile in maniera chiara nel 1990. In
assenza di un sistema partitico consolidato, un sistema di questo tipo assegna un chiaro
vantaggio al Partito Socialista, unico a potersi dire già strutturato sul territorio ed
organizzato a livello nazionale; le altre, neonate, formazioni partitiche provano quindi a
proporre un sistema proporzionale, ma le loro richieste non vengono ascoltate e le modalità
elettorali sono decise in maniera unilaterale dal partito di Milosevic. Il sistema
maggioritario adottato favorisce inoltre il rapporto, come vedremo già esistente, di
personalizzazione della competizione politica; in questo scenario le personalità legate alla
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Cfr. M. Cermel [2002] (a cura di), La Transizione alla democrazia di Serbia e Montenegro, la Costituzione
della RFJ 1990-1992, Venezia: edizioni Marsilio.