Introduzione È stato consolante, leggendo le prime pagine di un libro di Susan Sontag
– “Sulla fotografia” -, scoprire che i dubbi che mi hanno colto mentre
scrivevo non hanno riguardato solo me: “quanto più pensavo a che cosa
sono le fotografie, tanto più diventavano complesse e suggestive”.
Quello che inizialmente mi è apparso preciso e lineare è diventato, infatti,
incerto e confuso: mi sono subito resa conto di come parlare di fotografia
oggi, mentre siamo costantemente bombardati da immagini di ogni
genere, non sia assolutamente facile, né scontato.
Ed è forse proprio la facilità e la spontaneità attraverso cui entriamo a
contatto con le fotografie - e simili - a rendere tutto più critico e difficoltoso:
siamo talmente abituati a veder scorrere davanti a noi “schegge di vita
altrui” da non essere più in grado di fermarci a osservarle, sminuendone
così il forte e reale significato. “Schegge” non perché piccole e lapidarie,
ma perché, come queste, possono essere taglienti, fino al punto da
lasciare il segno.
Non vi è individuo a questo mondo che non abbia mai scattato una
fotografia, sia inconsapevolmente che con coscienza: ma quale è l’intimo
significato di tale gesto, spesso automatico e irragionato?
Fotografare è fissare un attimo, rendere imperituro un momento,
immortalare un istante che altrimenti svanirebbe; è un ricordo emotivo.
L’uomo ha da sempre tentato di fermare il tempo, combattere la
deperibilità dei ricordi e rendere eterne le immagini della propria
quotidianità: la fotografia è sicuramente un tentativo riuscito.
Chi si trova ad osservare una fotografia deve innanzitutto interpretare: non
conosce quanto accaduto prima e né quanto accadrà in seguito e nessuno
gli spiega ciò che accade di fronte ai suoi occhi.
Sono attimi rubati al tempo e all’oblio, dove la fantasia si scontra con la
realtà.
Perché ho voluto parlare di fotografia? Perché mi piace, mi affascina e
trovo che, sebbene grazie al digitale tutti siano diventati potenziali fotografi
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e reporter, molti continuino a discriminarla e a non comprenderla. Penso
che fotografare sia un modo particolare di rivolgersi al mondo, osservarlo
con occhi diversi, studiarlo con uno sguardo particolare, quasi come se
l’obiettivo della macchina fotografica fosse il nostro terzo occhio attraverso
cui svelare l’aurea del mondo e guardare la realtà al di là delle apparenze
che spesso ci ingannano.
Non è semplicemente un particolare modo di vedere, ma anche di vivere:
è una caccia continua, un osservare ciò che ci circonda con occhi diversi,
più profondi, che vanno oltre l’apparenza, oltre la frenesia, oltre
l’inarrestabile. Fotografare significa essere costantemente pronti a cogliere
l’inafferrabile. Ed è così che ci si ritrova a osservare e non semplicemente
a vedere un particolare, immaginandolo su carta, avendo già un’idea di
come sarà il risultato.
Bisogna, prima di tutto, imparare a vedere, perché saperlo fare permette
di ottenere fotografie migliori che, a loro volta, devono essere viste a tutto
tondo e non come strette feritoie sul mondo.
Sebbene spesso sottovalutato e violato, tutto questo non è un gioco, non
è un’azione casuale e involontaria. Tutto ruota intorno al soggetto: bisogna
saper cogliere l’attimo giusto, l’istante irripetibile da immortalare per
sempre; bisogna essere in grado di catturare l’emozione, lo sguardo, il
gesto. Ci si deve guardare intorno, cercando, domandando, alimentati
dalle più piccole curiosità. Scegliere di fotografare significa applicare un
particolare metodo di indagine sul mondo.
Fotografare è un po’ un bisogno come lo scrivere: costante desiderio di
immortalare, fermare, documentare.
Mi è sempre piaciuto sfogliare gli album di fotografie: fermarmi a guardarle
una per una, riflettere, immaginare, ricordare. Ogni immagine è un breve
spaccato di vita in cui tutto si concentra, si riassume o svanisce senza
lasciare più traccia. L’obiettivo è l’unico occhio in grado di catturare –
rubare – l’anima di un individuo: in un primo piano colto di sorpresa, senza
posa, è possibile cogliere l’emozione più reale e spontanea di una
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persona, quanto di più nascosto e riservato ci possa essere. Non vi è altra
macchina al mondo in grado di fissare l’attimo di smarrimento di uno
sguardo tra i pensieri: con la fotografia, la tecnologia batte l’Uomo,
imprigionando in un istante la sua stessa essenza.
Quello che segue è un lavoro che ho cercato di portare avanti con il cuore,
credendo vivamente in ogni mia singola parola. Sono pienamente convinta
della forza e della potenza delle immagini, della loro immane forza
espressiva: se per Ettore Mo “non ci sono belle o brutte fotografie, ma
quelle scattate da vicino e quelle scattate da lontano”, per me non vi è foto
che possa essere incestinata perché sfocata o poco chiara. Tutte, anche
quelle tecnicamente non perfette, sono custodi di qualcosa, anche solo di
un fulmineo istante della nostra esistenza che con un click diventa eterno.
Vorrei che fosse quasi un viaggio onirico attraverso una fotografia vissuta
come sublime espressione dell’animo umano, come testimonianza, come
degna compagna della parola: tracciare un continuum tra un’arte, vissuta
come armonia di forme, e un’informazione che, con una forma celata nel
suo stesso nome, è arte di un’armonia di parole.
Ma il mio è solo un modesto tentativo.
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Armonia di forme “Che l’uomo esteriore sia un’immagine dell’interiore, e il viso un’espressione e
una rivelazione dell’intero carattere è un presupposto in sé abbastanza
plausibile, e quindi un buon punto di partenza; confermato com’è dal fatto che la
gente è sempre ansiosa di vedere chiunque sia diventato famoso.
La fotografia permette la più completa soddisfazione della nostra curiosità.” Schopenhauer 1.1 Genesi e valore semantico dell’immagine Un percorso che si pone come meta il raggiungimento della
consapevolezza di quale sia l’effettivo ruolo della fotografia e, in particolar
modo, il suo rapporto con l’informazione e il giornalismo, non può che
iniziare con delle riflessioni sull’immagine stessa, su cosa essa sia e su
come abbia origine. Del resto, la fotografia non è che una delle più alte
forme di immagine, se non immagine per antonomasia.
Spostandosi dal concreto all’astratto, innumerevoli sono le definizioni
che si incontrano, sebbene si tratti di un concetto a lungo trascurato e
divenuto di importanza globale solo negli ultimi due secoli: “forma
esteriore di un corpo percepita con i sensi, specialmente con la vista”;
“riproduzione reale o apparente di un oggetto”; rappresentazione grafica o
plastica di un oggetto reale”; “riproduzione esatta o estremamente simile
di un essere o di una cosa”; “rappresentazione o espressione concreta di
un’idea astratta”; “prodotto della fantasia, dell’immaginazione” 1
e via di
seguito. Tra le tante definizioni riscontrabili nei dizionari, però, quelle che,
a parer mio, maggiormente, preannunciano sotto certi aspetti ciò che sarà
poi la fotografia, sono sicuramente quelle che individuano nell’immagine
una “rappresentazione simbolica”, una “rappresentazione mentale
rievocata dalla memoria”, e, soprattutto, una “figura evocante una
specifica realtà” 2
.
1
Zingarelli N., lo Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana , Bologna, Zanichelli Editore, 2001,
pag. 852
2
Ibidem 6
6
Se, come si legge in Aristotele, “l’anima non pensa mai senza immagini” 3
,
è lecito vivere le fotografie come se fossero rievocazioni di momenti
passati o prese di coscienza su un presente malamente osservato.
Il concetto di immagine diventa un importante campo di indagine,
soprattutto in ambito artistico-sociologico, a partire dagli inizi del
Novecento, quando tanti, non solo filosofi, iniziano a interrogarsi
sull’origine e sul valore stesso di questa misteriosa e affascinante entità.
A livello filosofico, è soprattutto la critica fenomenologia a farla da
padrona: messa in discussione la tesi crociana sulla separazione tra
visione ed estrinsecazione, riconosce l’esistenza dell’immagine nel
momento stesso del processo percettivo, nella nozione mnemonica o
nell’emozione.
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Concepita come totalità di una figura, non è che il frutto di
una percezione sensibile. Le nostre percezioni, però, non sempre si
trasformano in immagini, concetti, o sentimenti: è solo nell’opera d’arte
che gli schemi percettivi diventano immagine secondo quanto imposto dai
criteri stilistici condivisi. Pertanto, la sola in grado di generare immagini nel
senso tradizionale del termine, secondo la critica fenomenologia, è l’arte.
Ma questa “non è un fenomeno puro, uno stato di coscienza: è uno stato
intenzionale, un comportamento, un processo di significazione, un gesto;
è ideale e reale. […] La percezione figurativa, o estetica, in quanto tale si
trasforma in immagine, e l’immagine è tale in quanto contenuta nella
figura; e pertanto l’immagine si riconosce dalla sua possibilità di evasione
extra-estetica, dalla sua capacità di prolungarsi in sogno, di cristallizzarsi
in cultura, di vivere nella nostra vita morale”.
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Semanticamente, l’identificazione di segno e immagine è alla base
della concezione stessa dell’arte come messaggio e comunicazione, tant’è
che alcuni collocano l’estetica tra le discipline semiotiche.
Ma se questi ultimi definiscono il linguaggio artistico un insieme di segni
che hanno per se stessi alcune delle proprietà degli oggetti designati,
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Aristotele, “L’anima”, III Libro 4
Morpurgo Tagliabue G., L’estetica contemporanea , Milano, Marzorati, 1960
5
Ibidem, pp. 455-456
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