Su questa base di eticità non religiosa si innestò l’influsso della cultura scolastica. Apertosi molto
precocemente, intorno ai dodici anni, all’interesse politico, Capitini assorbì buona parte di
quell’ideologia, genericamente ‘anti-giolittiana’, che, in quegli anni, si stava diffondendo con
rapidità nei ceti piccolo-borghesi della provincia italiana e che era composta, contemporaneamente,
di nazionalismo, irredentismo, vocianesimo e futurismo
1
.
Questa infatuazione, raggiunto il suo culmine nel periodo della lotta interventista, venne, poi,
superata attraverso la maturazione causata dalla guerra mondiale. Infatti, da un lato la
consapevolezza delle sofferenze portate dall’ “inutile strage”, dall’altro, più direttamente, la
coscienza della propria ‘finitezza’, che Capitini toccò con mano quando venne scartato alla visita di
leva
2
, lo aiutarono a porre nella giusta luce le priorità dei valori umani.
Il ragazzo che “trascinava alla politica nazionalistica o al futurismo i coetanei di undici o di
quattordici anni”
3
e li spingeva a “salutare entusiasti e devoti i professori in partenza per il fronte”
nel 1915
4
era, in un paio di anni, diventato un adolescente sensibile al moralismo ed
all’umanitarismo, seguendo, in questo, l’evoluzione dei moralisti della “Voce”, Boine, Slataper,
Jahier
5
.
In tal modo, mentre l’esperienza culturale si fondeva con quella direttamente personale, mentre la
sofferenza era, oltre che compresa, provata nel fisico gracile, Capitini prendeva, da questa cultura
‘alternativa’ (perché estranea alla direzione di sviluppo della cultura italiana di quegli anni), lo
spunto per un avvicinamento ai classici delle letterature italiana (Leopardi soprattutto), latina e
greca.
Questo lavoro di formazione culturale individuale si veniva a svolgere negli anni caldi del
dopoguerra, quello che al Nord era il ‘biennio rosso’ e che anche a Perugia faceva sentire il suo
effetto, con scontri e disordini. Il giovanile interesse per la politica era, però, ben presto scemato in
Capitini, mutando oltre tutto di segno e passando ad una simpatia (“ma senza prendervi parte”
6
) per
i socialisti e il proletariato.
A documentare questa ‘conversione filosofica’ rimangono poche fonti dirette. Capitini stesso,
scrivendone nell’autobiografia, ricorda che “solo con questo impeto e solo staccandomi dalle
abitudini della vita precedente, dal caffè, dalle vie cittadine, dagli amici che non avrebbero capito,
potevo mutare l’animo, ricostruire la mente, affidarmi ad una tensione morale”
7
.
Il più recente dei suoi biografi, Enrico Niccolini, ipotizza anche, sulla base di una testimonianza
orale del 1939, che il distacco dagli ‘anni della dispersione’ sia stato ancor più radicale e
conseguente a perdite al gioco, che lo avrebbero staccato per sempre “dal caffè, dalle vie cittadine
1
“Mi fu una grande scossa l’incontro con la letteratura futurista, i suoi manifesti [...] che mi presero per un po' di tempo,
dal 1913 al 1916”, ALDO CAPITINI, Attraverso due terzi del secolo, “La Cultura”, VI, 1968, pp. 457-473; “potei
essere nazionalista tra i dieci e i quindici anni, ma non poi restarlo”, Id., Antifascismo tra i giovani, Célèbes, Trapani,
1966, p. 11; “ci rivedemmo [con Giuseppe Bastianini, suo compagno di scuola, poi fascista e governatore della
Dalmazia durante la seconda guerra mondiale] poco dopo lo scoppio della guerra di Libia, ci abbracciammo dall’
entusiasmo!” ivi, p. 15.
2
Una raccomandata della Questura di Perugia del 17 dicembre 1955 ricorda alla Divisione Affari Riservati del
Ministero dell’Interno che “la sua posizione militare è la seguente: in data 29.10.1917 dichiarato rivedibile per
gracilità (D.L. 12.8.1917); in data 18.7.1918 inviato in osservazione e riformato per debole costituzione fisica e
miopia (7 diottrie)” (riportata in Uno schedato politico: Aldo Capitini, a cura di Clara Cutini, Editoriale Umbra,
Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea, Perugia, 1988, p. 284. Il libro riproduce il contenuto del fascicolo
intestato ad Aldo Capitini nel fondo Questura di Perugia, serie Schedati, conservato nell’Archivio di Stato di
Perugia).
3
ALDO CAPITINI, Antifascismo tra i giovani cit., p. 15.
4
Ivi, p. 9.
5
Per la rivista “La Voce” si veda l’antologia a cura di Giansiro Ferrata, San Giovanni Valdarno, 1961. Walter Binni,
intimo amico di Capitini, mi ricordava, in una conversazione privata, che Capitini aveva conservato, fino alla morte, i
fascicoli della “Voce”.
6
ALDO CAPITINI, Antifascismo tra i giovani cit., p. 13.
7
Ivi.
[...] dagli amici”, spingendolo invece verso l’applicazione assidua ed al limite dell’esaurimento
nervoso sui testi classici
1
.
Questa attività estenuante si prolungò anche nel successivo ‘biennio nero’, che pure portò a Perugia
spedizioni punitive ed incidenti abbastanza gravi, ma che vide ugualmente Capitini spettatore inerte,
anche se idealmente schierato, come il padre, dalla parte dell’amministrazione, passata nelle mani
del Partito socialista.
L’attività paterna, che, con il suono delle campane, compito assolto a turno da tutta la famiglia,
convocava tra l’altro il consiglio comunale
2
, fu alla base dell’unico coinvolgimento, direttamente
testimoniato, dell’autodidatta solitario nell’opera eversiva dei fascisti locali.
Capitini stesso, dopo la Liberazione, ricordò l’aggressione di “squadre di fascisti armati, di Perugia
e di Firenze, che penetrarono nel palazzo comunale, dopo aver ucciso nel Corso l’orologiaio
Stivalini, frugando e cercando gli assessori dell’ amministrazione socialista”
3
.
In un altro brano autobiografico sottolineò il ruolo svolto dalla famiglia in quella vicenda:
Mi ricordo che una sera nella nostra abitazione sotto la Torre comunale mio padre,
simpatizzante socialista, condusse un assessore della giunta comunale socialista, che era
cercato dalle squadre fasciste di Perugia e di Firenze congiunte da alcuni giorni in
imprese nella nostra città: una persona semplice e fine, con cui parlai molto: gli cedetti
volentieri la mia camera, e dormii nello studio accanto; e la notte i fascisti invasero la
mia casa, mentre tutti eravamo a letto, per recarsi a togliere la bandiera rossa dalla torre
campanaria, e passarono accanto allo studio e alla camera senza sospettare che
l’assessore socialista dormisse nella mia camera
4
.
Come abbiamo ricordato, poco dopo questi avvenimenti Capitini dovette trasferirsi in una villa
vicino Perugia come precettore, per ritemprare il fisico provato, ed aumento così anche
materialmente la distanza dallo scontro politico attivo. Mentre da Perugia partiva, il 28 ottobre
1922, la marcia su Roma, il figlio del campanaro pose, tuttavia, nei tre anni trascorsi come
precettore (dal 1921 al 1924) le basi, se non fattive, almeno culturali del suo antifascismo religioso.
Il punto di partenza di questa chiarificazione ideologica è quel moralismo vociano, a cui ci siamo
già riferiti come ad una cultura ‘alternativa’ e che ormai, in quegli anni, risultava anche, sul piano
pratico, una cultura sconfitta. Il modernista Boine, il protestante Jahier, il triestino (non solo
geograficamente, ma anche, in qualche modo, religiosamente) Slataper vennero definitivamente
ridotti al silenzio, due dalla guerra ed uno dal fascismo; ma avevano seminato alcuni elementi di
opposizione, che sarebbero fioriti anche al buio della dittatura.
Su questa base di religiosità extra-cattolica si innestò gradatamente la conoscenza e l’
apprezzamento di altre forme di opposizione etico-religiosa: per prima la rivista protestante
“Conscientia”, settimanale edito dal ‘22 al ‘25 e poi soppresso dal regime, diretto da Giuseppe
Gangale (l’autore di Rivoluzione protestante) e Pietro Chiminelli e con collaboratori quali Gobetti,
Tilgher ed Ansaldo.
Capitini conservò sempre quei fascicoli, che in seguito utilizzò per la propaganda antifascista fra i
giovani seguaci.
La rivista che concluse questo processo di maturazione antifascista (affidato, dopo l’ingresso alla
Normale, ai libri più che ai periodici, contro cui più si accaniva la censura) fu la “Rivoluzione
1
ENRICO NICCOLINI, Ritratti critici di contemporanei: Aldo Capitini, “Belfagor”, a. XLIII, n. 6, pp. 657-674.
2
Il precoce interesse di Capitini per la politica, considerata come attività comune di uomini impegnati per gli stessi
obiettivi, si riverberava anche sull’attività amministrativa: “fin da piccolo avevo avuto interesse per il consiglio
comunale, convocato dal campanone perugino; e mi godevo quelle lunghe discussioni [...] quel piccolo parlamento”
(ALDO CAPITINI, Per chi votare nelle elezioni amministrative, ora in Id., Aggiunta religiosa all’opposizione,
Parenti, Firenze, 1958, p. 69).
3
Id., Note di antifascismo nazionale e perugino, ora in AA.VV., L’Umbria nella Resistenza, a cura di Sergio
Bovini, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 112.
4
Id., Antifascismo tra i giovani cit., pp. 13-14.
liberale” diretta da Piero Gobetti. Anche questa rivista cessò presto le pubblicazioni e, un paio di
anni dopo, il suo editore fu ucciso dai fascisti: ma l’influsso di Gobetti, letto in chiave di estrema
‘tensione’ di volontarismo etico, restò sempre presente in Capitini.
Norberto Bobbio, che di Capitini fu amico e discepolo, scrive a questo proposito: “Capitini dice in
più luoghi di appartenere alla generazione di Gobetti e Rosselli. Mentre lesse Socialismo liberale
del secondo solo dopo la Liberazione, ebbe ispirazioni gobettiane anche prima. Di Gobetti lo colpì
la frase ‘il mio posto è dalla parte che ha più religiosità e spirito di sacrificio’, pronunciata a
proposito di Matteotti”
1
. In questo modo il cerchio si chiude: il figlio dell’usciere socialisteggiante,
superato il traviamento marinettiano e dannunziano, arricchito dalla conoscenza di una cultura ‘di
confine’ che gli ridà il senso dei valori, ritorna, tramite un Gobetti visto più vicino ai protestanti che
ai comunisti, sulle posizioni paterne, “dalla parte che ha più religiosità”, dalla parte pronta a
sacrificarsi in una lunga lotta sotterranea per il ritorno della libertà.
Mi è capitato di battere a lungo, finora, sulla ‘perifericità’ della formazione culturale capitiniana.
Giova, però, sottolinearla ancora una volta: mentre l’anatema idealistico theologicum est, non
legetur lasciava i fermenti di innovazione modernista indifesi in balia della repressione vaticana
2
Capitini si interessava di ogni forma di ‘eresia’ religiosa; quando, nel dopoguerra, il dibattito
culturale - politico si apriva, con Gramsci, Gobetti, Sturzo e Salvemini (per citare solo i maggiori)
ai problemi sociali, Capitini si dedicava completamente all’edificazione culturale e morale
individuale, per tornare poi ad un interesse politico quando la reazione fascista riduceva la polemica
culturale alla scelta fra storicismo crociano ed attualismo gentiliano, due facce della stessa medaglia
idealistica.
Il 1924 fu un anno fondamentale non solo per la biografia individuale di Capitini, che per la prima
volta si allontanava dall’amatissima Umbria e si avvicinava alla ‘grande’ cultura italiana, ma per
l’intera storia contemporanea del nostro Paese. Con la crisi seguita all’omicidio di Matteotti si ebbe,
infatti, l’abbandono definitivo di ogni paravento legalitario da parte del regime fascista e
l’instaurazione di un’aperta dittatura; e parallelamente si attuò il distacco dalla maggioranza di quei
settori liberali conservatori che avevano, fino ad allora, appoggiato quello che consideravano un
‘ritorno all’ordine’.
Sul piano culturale, questo distacco si tradusse, attraverso la pubblicazione dei due Manifesti degli
intellettuali fascisti ed antifascisti nel 1925, nell’annuncio urbi et orbi del distacco fra Croce e
Gentile, divenuti via via i simboli rispettivamente dell’antifascismo liberale e dell’autoritarismo
fascista: dei simboli molto più di quanto non fossero delle realtà, perché questo giudizio stereotipato
ha molto semplificato le reali posizioni dei due.
Senza addentrarsi troppo nell’analisi di quanto il gentilianesimo fosse effettivamente l’ideologia
fascista e di quanto vi fosse di strumentale nel rapporto tra fascismo ed attualismo, rapporto ancora
discusso dagli studi odierni, bisogna ricordare comunque che prima dell’apertura al pubblico del
dissidio filosofico - politico tra i due pensatori, l’egemonia che l’idealismo si era conquistato, per
circostanze interne ed esterne, nella cultura italiana, era equamente divisa tra i due teorici di
Pescasseroli e di Castelvetrano e che molti gentiliani sarebbero poi passati all’antifascismo (e
viceversa).
E’ anzi da dire che, per quanto riguarda specificamente Capitini, il primo contatto con l’idealismo
(filosofia, peraltro, sempre periferica nel suo pensiero) avvenne attraverso l’attualismo gentiliano e
solo in seguito, e marginalmente, egli si rivolse allo storicismo di Croce.
1
NORBERTO BOBBIO, Introduzione ad ALDO CAPITINI, Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze, 1969, pp. 9-
43. La frase cit. è tratta dalla nota 81, a p. 42.
2
“La brusca repressione del modernismo [...] fu anche favorita dall’atteggiamento di sostanziale indifferenza assunto
dagli ambienti culturali laici. [...] Così facendo, i rappresentanti della cultura laica, gli idealisti in primo luogo,
divennero gli indiretti ma preziosi alleati di Pio X”. (GIORGIO CANDELORO, Il movimento cattolico in Italia,
Editori Riuniti, Roma, 1° ed. 1953, 4° ed. 1982, pp. 308-309).
Capitini, nei suoi accenni autobiografici, ricorda di aver “preso in mano libri del Croce [...]
all’Università, dal 1924 (in ritardo)”
1
: quindi la conoscenza dell’opera di Croce arrivò quando le
basi teoriche del suo pensiero erano già poste e svolse una funzione terminologica, più che di reale
approfondimento critico, come cercherò di dimostrare dettagliatamente più avanti.
Diverso è il discorso se si vuole parlare dell’influsso gentiliano. Bobbio sottolinea che Capitini
“lesse ed assimilò anche Gentile, che pure è raramente citato”
2
come filosofo.
Il motivo della “rarità di citazioni” che Capitini dedica al filosofo siciliano è abbastanza evidente a
chi tenga a mente la divaricazione delle posizioni politiche tra i due, nonché la conseguente brusca
interruzione dei loro rapporti personali (Gentile, nel 1933, licenziò Capitini per antifascismo, come
si dirà meglio più avanti): ma ciò non toglie che, se il non idealista Capitini andasse analizzato con
le categorie della cultura idealistica allora dominante, sarebbe molto più agevole ricondurlo a
Gentile che non a Croce
3
.
Ad un ‘libero religioso’, come Capitini iniziava a definirsi in quegli anni, era certo più consono
l’afflato mistico, che valorizzava la presenza spirituale anche dei defunti, del gentilianesimo, che
non lo storicismo crociano, irridente le “alcinesche seduzioni” dei valori spirituali.
Croce in seguito, sotto l’impulso dell’azione antifascista, diede un rilievo molto maggiore ai ‘valori’
ed alla loro possibilità di tradursi in azione concreta, ma è indubbio che negli anni Venti
considerare, come faceva Capitini, i ‘valori’ contrapposti ai ‘fatti’ significava opporsi
coscientemente al giustificazionismo crociano.
L’elemento di maggior peso che Capitini riprende da Gentile è proprio quello che dà il nome,
nonché il fattore caratterizzante, alla sua filosofia: l’“atto”, compiendo il quale il soggetto si
differenzia e si pone come Spirito. Come giustamente rileva Bobbio, Capitini “prende le mosse
dall’atto anziché dall’evento o dai fatti, dall’atto inteso gentilianamente come principio ed iniziativa
assoluti”
4
.
Nel pensiero capitiniano l’individuo, agendo nel mondo attraverso “l’intervento attuale [...]
infinitamente libero”
5
pone la propria “aggiunta” tendente al meglio: la conseguente valorizzazione
del singolo, che diviene compartecipe dei progetti della divinità, è nel solco dell’insegnamento del
soggettivismo gentiliano, anche se mutato di segno, da momento di orgogliosa ‘divinizzazione’ a
principio di apertura infinita agli altri, compartecipi, allo stesso titolo, alla realizzazione dei
‘valori’
6
.
Sui rapporti personali e teorici di Capitini con i due maestri della cultura dell’epoca sarà necessario
ritornare in seguito, avendo però fin d’ora ben chiara la sostanziale diversità di obiettivi e di
formazione del giovane perugino.
Resta da aggiungere, passando dall’ambito strettamente filosofico a quello politico - culturale, che il
seguito goduto dai due filosofi comincia a differenziarsi, qualitativamente e quantitativamente,
dopo la pubblicazione dei Manifesti sopra citati: l’influsso che l’attualismo aveva esercitato, negli
anni precedenti, anche su intellettuali antifascisti, diminuisce rapidamente con la trasformazione di
Gentile nel “filosofo del PNF” ed il ruolo principale del siciliano diventa, da quello di produttore,
quello di organizzatore di cultura.
Capitini, ricordando questo processo, scrisse in seguito: “I Gentiliani quasi tutti si staccarono dal
maestro rimasto in un hegelismo interpretato in chiuso modo, in un patriottismo scolastico ed in una
1
ALDO CAPITINI, Apertura e dialogo, ora in Id., Educazione aperta, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze, 1966-67, 1°
vol., pp. 6-38. La frase cit. è a p. 7.
2
NORBERTO BOBBIO, op. cit., p. 11.
3
Per quanto riguarda i rapporti ed i debiti che Capitini contrasse nei confronti del pensiero idealistico italiano, è
fondamentale la relazione di CLAUDIO CESA, Il pensiero di Aldo Capitini e la cultura idealistica, letta al
convegno Elementi di un’esperienza religiosa oggi, tenutosi a Perugia nei giorni 14 e 15 ottobre 1988.
La relazione, dato il suo oggetto, tende a focalizzare i rapporti con Croce e Gentile, trascurando forse gli elementi
centrali della formazione teorica di Capitini: nel suo ambito, ciò nonostante, risulta estremamente illuminante.
4
NORBERTO BOBBIO, op. cit., p. 10.
5
ALDO CAPITINI, Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza, Bari, 1937, p. 35.
6
Id., Apertura e dialogo cit., pp. 10-11.
fedeltà all’equivoco demiurgo, e passarono all’antifascismo”
1
. In effetti, intellettuali quali Ernesto
Codignola, Adolfo Omodeo, Luigi Russo, Giuseppe Lombardo-Radice e Guido Calogero “si
staccarono dal maestro” e si avvicinarono a Croce, che teneva alta la bandiera dell’opposizione.
Oltre a perdere i seguaci, Gentile perse anche credito intellettuale: “Il peso decisivo mantenuto da
Gentile ancora per tutti gli anni Trenta fu garantito dalla sua intensa attività istituzionale e privata,
laddove sul piano più direttamente teorico [...] appaiono sempre più frequenti i casi di defezione e
progressivo allontanamento di numerosi intellettuali dalla filosofia dell’atto”
2
.
Tornando al 1924, con l’ingresso alla Normale cominciò per Capitini il periodo di formazione
culturale più ‘ortodossa’ rispetto ai canoni dell’epoca. Abbandonate le riviste etico - politiche, egli
seguì per quattro anni le lezioni dei migliori docenti di allora, tra cui quelle di Letteratura Italiana
tenute da Attilio Momigliano, di Letteratura Latina di Manara Valgimigli e di Filosofia di Armando
Carlini.
Furono anni di intensa applicazione didattica, ma anche di contatti quotidiani con giovani studiosi
dal brillante avvenire culturale e politico.
Tra i convittori della Normale destinati alla notorietà, si possono ricordare Delio Cantimori, Vittorio
Enzo Alfieri, Umberto Segre (alunno esterno), Manlio Pirrone: alla formazione teorica si univa
spontaneamente il dibattito politico (sempre a livello teorico) tra fascisti e crociani, tra cui
l’elemento unificante era l’anticlericalismo.
Durante il periodo in cui direttore della Normale era l’anziano matematico Michele Bianchi, mentre
l’effettiva direzione veniva effettuata dal vicedirettore Francesco Arnaldi, il dissenso politico non
scuoteva la sonnacchiosa atmosfera di provincia che inglobava i quindici studenti. Neanche
l’arresto dei collaboratori di “Pietre” smosse le acque della convivenza pacifica nel Palazzo dei
Cavalieri.
L’arresto di molti tra gli abbonati alla rivista genovese, che coincidevano con gli iscritti
all’associazione clandestina “Giovane Italia”, prese le mosse da un’inchiesta della Questura di
Milano, dopo l’attentato a Mussolini del 12 aprile 1928 in piazza Giulio Cesare.
L’attentato, probabilmente provocatorio, causò una ventina di morti, fornendo alla polizia il pretesto
per “perquisire centinaia di abitazioni di abbonati della rivista [...] e arrestare Basso, Segre,
Bartellini, Paggi, La Malfa, Vinciguerra, Luzzatto, [...] Max Ascoli, Alfieri, Pilo Albertelli, Tonini,
Leone Cattani e molti altri collaboratori e abbonati di ‘Pietre’”
3
.
Gli arresti vennero effettuati in varie città italiane: Genova e Milano, le due sedi dei redattori della
rivista, Roma, Napoli e Pisa, dove appunto risiedevano i due normalisti, che nel frattempo si erano
guadagnati l’amicizia di Capitini.
Segre ed Alfieri, ferventi crociani, appartenevano al gruppo fondatore della rivista. “Pietre” visse
due fasi: nel primo periodo, che vide la pubblicazione di 14 numeri mensili a diffusione locale, “la
tiratura non superò mai le seicento - settecento copie”
4
; sul piano dei principi, “in assenza di un vero
e maturo orientamento ideologico, la linea politica della redazione doveva restare incerta e
frammentaria”
5
, ma, al fondo, restava la volontà dei fondatori, seguaci di Croce e amici di Gobetti
(a cui dedicarono ampio spazio nel primo anniversario della morte), di attuare un’opposizione al
fascismo di tipo culturale e di stampo liberale, sulle orme del “Baretti”.
liberale, sulle orme del “Baretti”.
L’impostazione cambiò con la seconda serie, ripresa quindicinalmente sul finire del 1927 dopo sei
mesi di interruzione: in questa fase “la preminenza di Basso [...] divenne un fatto palesemente
importante, anche per l’apporto da lui dato all’organizzazione distributiva che contribuiva a creare
1
Id., Riforma religiosa e resistenza al fascismo, ora in Aggiunta religiosa all’opposizione cit., p. 145.
2
GIANFRANCO PEDULLÀ, Il mercato delle idee. Giovanni Gentile e la casa editrice Sansoni, Il Mulino,
Bologna, 1986.
3
La rivista “Pietre” è stata ristampata nel 1977 a cura di Ercole Camurani, con un Saggio introduttivo di Giuseppe
Marcenaro. La frase cit. si trova in questo saggio, a p. 7.
4
Ivi, p. 10.
5
Ibidem, p. 16.
una vera catena antifascista, come era nelle sue intenzioni”
1
.
L’apporto principale fornito da Lelio Basso, che in quel periodo collaborava anche al “Quarto
Stato”, fu organizzativo e non letterario; pur pubblicando soltanto tre articoli, firmati con lo
pseudonimo di Prometeo Filodemo, egli divenne il principale finanziatore, trasformando la rivistina
genovese in un punto di incontro per antifascisti di tutt’Italia e di diverse tendenze. Scrissero su
“Pietre”, oltre a Segre, Alfieri, Vinciguerra e Paggi, già citati, Enrico Alpino e Virgilio Ðagnino, ma
anche Gangale, che aveva collaborato con Basso ai tempi di “Conscientia”, ed Eugenio Colorni, con
il suo primo scritto pubblicato.
Questa seconda fase della rivista fu interrotta, dopo soli quattro numeri, dall’intervento della
polizia, che sequestrò anche le bozze del quinto.
I tre mesi di vita erano però bastati a Basso per estendere la catena a Roma, prendendo contatti con
Ugo La Malfa e Giorgio Amendola, e, a Torino, con il gruppo dei giovani intellettuali, che, in
seguito, avrebbero firmato la nota lettera di solidarietà a Croce per il. discorso contro la
Conciliazione. Basso riuscì ad interessare questo gruppo eterogeneo ad un ulteriore ampliamento
dell’attività.
“Al progetto e alle sue possibili realizzazioni avevano lavorato fin dall’inizio del ‘28 Basso, Segre e
Pilo Albertelli”
2
L’arresto del gruppo e le condanne dei principali esponenti (Basso fu condannato a cinque anni di
confino, poi ridotti a tre, Vinciguerra e Paggi a due) interruppero il progetto. I due amici di Capitini
furono entrambi diffidati, evitando pene più gravi perché “appartenenti a distinta famiglia”, e
allontanati dalla Normale.
Capitini aveva intanto avuto modo, tramite la conoscenza di Segre, “il quale [teneva] a mettere in
evidenza la sua religione ebraica”
3
, di arricchire il suo Pantheon di un’altra religiosità “marginale”,
e da quel momento si definì “ebreo onorario”.
Dopo l’allontanamento dei due antifascisti, che continuarono la loro opposizione, senza eccessivi
clamori, fino al 25 luglio, la vita alla Normale riprese il suo ritmo lento.
Nel novembre 1928, a conclusione dei quattro anni di corso, Capitini si laureò in Storia comparata
delle letterature neolatine con una tesi intitolata Realismo e serenità in alcuni poeti italiani, che
ottenne il massimo dei voti e la lode. Relatore era Leandro Piadene, un docente all’epoca
sufficientemente stimato, ma oggi caduto nell’oblio.
“Realismo” e “serenità” vennero usati da Capitini, nella tesi come in altri scritti successivi, quali
sinonimi, rispettivamente, di atteggiamento pessimisticamente materialistico e di sguardo di
accettazione religiosa della complessità e, talvolta, dell’inadeguatezza, dell’esistente; i due
atteggiamenti (esemplificabili rispettivamente nelle Operette morali e nell’Infinito) sono considerati
come poli dialettici, al cui interno si snoda il percorso umano e poetico degli autori esaminati:
Dante, Tasso, Leopardi e Manzoni.
Per costruire la propria dialettica dello Spirito, il giovane Capitini si ispira ad Hegel, mutuandone la
concezione del rapporto tra arte e religione, ma mutandola di segno.
Come per Hegel, l’arte rappresenta lo “spirito soggettivo” e la religione lo “spirito oggettivo”; ma
questo secondo punto, lungi dall’essere l’antitesi di un processo triadico culminante nello “spirito
assoluto” della conoscenza filosofica, è valutato positivamente, in modo tale da svalutare
implicitamente quello che per Hegel (e per Croce) era il momento più alto della speculazione, la
filosofia come conoscenza assoluta.
Alla filosofia Capitini contrappone la religione, come spinta ad adeguare l’esistente all’Ente, e
1
Ibidem, p. 10.
2
Ibidem, p. 25.
3
La frase nel testo è tratta dal Cenno biografico di Segre Umberto, “repubblicano antifascista”, compilato dalla
Prefettura di Torino il 12 giugno 1929 e conservato nel suo fascicolo personale al Casellario Politico Centrale, presso
l’Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi C.P.C. e A.C.S.). Segre, condannato al confino per la partecipazione alla
“Giovane Italia” e per la lettera a Croce, fu in entrambi i casi immediatamente rilasciato per condono del Presidente del
Consiglio. Nei primi mesi della guerra venne internato precauzionalmente ad Urbisaglia ed a Camerino, “senza dar
luogo a rilievi”. In seguito partecipò alla Resistenza.
l’arte, come creazione di ‘valori’.
Queste stesse posizioni sono calate nell’analisi concreta di un solo autore, l’amatissimo Leopardi,
nella tesi di perfezionamento dal titolo La formazione dei ‘Canti’ del Leopardi, discussa l’anno
successivo sotto la guida di Attilio Momigliano,che restò sempre, per lui, un punto di riferimento
1
.
Verso la fine del 1928 era morto, intanto, il vecchio direttore della Normale, Bianchi, ed al suo
posto era stato nominato l’ex-normalista Giovanni Gentile, che avrebbe portato il suo dirompente
attivismo culturale a scuotere la “morta gora” di Palazzo dei Cavalieri, ampliando, grazie alla
collaborazione del vice-direttore Arnaldi e, come si vedrà, del segretario - economo Capitini
2
, le
due classi di Lettere e di Fisica da 15 a 110 studenti per corso.
Quella che abbiamo tratteggiato finora è stata la formazione personale
3
e culturale di un intellettuale
che del suo antifascismo non faceva certo professione, preferendo trovare un modus vivendi che
garantisse la sua autonomia.
Abbiamo già ricordato la frase di Capitini secondo cui “io sono della generazione dei Rosselli
e di Gobetti [...]: come mai la mia attività di antifascismo cominciò solo dopo la Conciliazione del
1929?”
4
. Questa frase, lungi dall’essere una domanda retorica, come era nelle intenzioni dell’autore,
segnala il primo problema per i suoi biografi, visto che la moderazione “per quieto vivere”, che
spiegherebbe questo attivismo, non rientrava certo tra le caratteristiche di Capitini, come
dimostrarono le scelte successive.
La risposta data da Niccolini: “A lui, chiuso in una città di provincia, mancava l’esperienza
cosmopolita di Carlo Rosselli, o quella diretta delle lotte sociali in una Torino operaia di Piero
Gobetti. La sua maturazione politica doveva avvenire per altre vie”
5
, mi sembra valida ed in grado
di spiegare il sostanziale distacco dalle problematiche sociali, che contrassegnò Capitini in tutta la
sua carriera. Il tono è, però, esageratamente negativo nei confronti delle città di provincia. Andrebbe
ricordato, in contrasto, che proprio la formazione culturale “marginale”, da “provinciale aperto”,
come egli stesso si definì
6
, lo fece accostare a quei temi etico-religiosi che lo avrebbero in seguito
portato alla maturazione antifascista.
È comunque indubbio che un antifascismo ‘cerebrale’, come era quello di Capitini, aveva bisogno
di un elemento esterno che fungesse da scintilla, da detonatore: questo evento fu la Conciliazione,
con i suoi connotati di asservimento della religione alla violenza costituita, che dovevano ripugnare
oltre misura al “libero religioso”.
Da questo momento, proprio mentre l’avversario aumentava la sua forza, Capitini ruppe gli ormeggi
ed iniziò la sua predicazione antifascista.
1
Sviluppando le osservazioni della tesi di perfezionamento, Capitini dedicò a Leopardi il saggio Svolgimenti interni
della poesia leopardiana, apparso nel 1945 e ora in Educazione aperta cit., II vol., pp. 224-236. Questo saggio è
considerato da Binni alla base dei propri interessi leopardiani, insieme ai colloqui diretti, a Pisa ed a Perugia, con
l’amico.
Per i rapporti di Capitini con Momigliano, di cui fu assistente volontario fino all’esonero del 1933, si può vedere il
saggio di PASQUALE TURANO, Lettere inedite di Attilio Momigliano ad Aldo Capitini, in “Esperienze letterarie”,
1981, n. 1, pp. 71-86.
2
Per la storia di quegli anni alla Normale, si legga FRANCESCO ARNALDI, Cronaca della Normale 1928-1933, in
“Rendiconti dell’Accademia di Architettura, Lettere e Belle Arti”, vol. XLIV, Napoli, 1969, pp. 61-70.
3
“Sono certo che anche senza cultura sarei giunto ai punti essenziali della mia persuasione religiosa […] sapere della
guerra, conoscere direttamente il dolore ed insistentemente, soffrire l’esaurimento, l’insonnia, la fragilità fisica, non
accettare la violenza […] mi hanno condotto ad una vita religiosa”. ALDO CAPITINI, Religione aperta, Modena,
Guanda, 1955, p. 4.
4
Id., Antifascismo tra i giovani cit., p. 8.
5
ENRICO NICCOLINI, art. cit., p. 657.
6
ALDO CAPITINI, Antifascismo tra i giovani cit., p. 47.