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INTRODUZIONE
Il presente lavoro si pone l‟obiettivo di ripercorrere l‟evoluzione tecnologica dei sistemi
di visualizzazione di immagini e filmati, approfondendone altresì le applicazioni
commerciali ed i risvolti sociali.
Il filo conduttore che lega l‟evoluzione di questi sistemi di visualizzazione è il diverso
grado di coinvolgimento dell‟utente, che passerà dall‟essere uno spettatore passivo
come succede normalmente al cinema o alla televisione, all‟essere in grado di interagire
attivamente con la rappresentazione, fino a farne parte integrante guidandone
concretamente lo sviluppo. L‟esasperazione nella ricerca del massimo coinvolgimento
dell‟utente culmina col cercare di rendere più reale possibile ciò che, in realtà, reale non
è: la rappresentazione di immagini o filmati appunto. Ed è proprio sul concetto di
“realtà” che ruotano le soluzioni proposte sin dal 1962, dapprima con i sistemi di
visualizzazione basati su tecnologie di “realtà virtuale” e successivamente con i moderni
sistemi basati sull‟applicazione della “realtà aumentata”.
Il progresso tecnologico dei sistemi informatici ha influito positivamente
sull‟evoluzione delle prestazioni e delle funzionalità dei software, ma tale evoluzione ha
trovato minor riscontro nel miglioramento delle interfacce con l‟utente: la classica
configurazione desktop (tastiera, mouse e monitor) è infatti tuttora la più diffusa. I limiti
di tale struttura riguardano la mancanza di un contatto tridimensionale con la scena: il
fruitore è costretto a visualizzare nello spazio bidimensionale del monitor ciò che in
realtà sarebbe tridimensionale (come un oggetto, una persona, un paesaggio).
La realtà virtuale e la realtà aumentata sembrerebbero avere le giuste caratteristiche per
superare questa limitata interattività che tipicamente investe gran parte dei sistemi
dedicati alla visualizzazione di immagini e filmati.
In particolare nel primo capitolo viene presentata una rapida carrellata delle
metodologie utilizzate sin dal 208 a. C. per rendere le immagini più vivide agli occhi del
fruitore, si tratti di un disegno su carta, di un filmato su pellicola o di una moderna
immagine digitale. Questi metodi, grazie agli studi sulla visione binoculare umana,
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riescono a dare la percezione dell‟effetto profondità (la tridimensionalità appunto) anche
se l‟immagine è rappresentata in due dimensioni spaziali (larghezza e lunghezza).
Il primo capitolo si conclude con un‟esposizione dei principali settori commerciali in
cui la tridimensionalità è maggiormente coinvolta.
Il secondo capitolo si occupa di descrivere la realtà virtuale e le principali interfacce
utilizzate per ottenerla. Nella sua accezione più estesa la realtà virtuale è la possibilità di
accedere tramite sofisticati sistemi informatici e particolari interfacce a mondi sintetici
creati da un computer e di poter interagire con essi. Al termine del capitolo viene
presentata un‟interpretazione artistica della realtà virtuale, che viene tuttavia definita dal
suo ideatore Myron Krueger, “Artificial Reality”, proprio per la sua volontà di
distinguere le sue ricerche attinenti a questo ambito da quelle relative alla realtà virtuale.
Il terzo capitolo affronta la tematica principale di questa indagine cioè l‟ultima
evoluzione della realtà virtuale: l‟“Augmented Reality” (o realtà aumentata). Questa
recente tecnologia si sostanzia nella combinazione della realtà virtuale generata dai
computer con la visione del mondo reale. Partendo da un confronto storico fra realtà
virtuale e realtà aumentata si passa poi ad analizzare più approfonditamente
quest‟ultima, definendone caratteristiche generali, schema di funzionamento nonché
innumerevoli applicazioni pratiche che spaziano dal settore medicale a quello
dell‟intrattenimento.
La realtà aumentata nonostante sfrutti tecnologie proprie della realtà virtuale, se ne
distingue a livello concettuale in quanto, diversamente da quest‟ultima che si riferisce
all‟esperienza immersiva in un ambiente totalmente sintetico, l‟Augmented Reality
permette un‟esperienza mista, in cui informazioni e oggetti virtuali sono visualizzati in
sovrapposizione a fotogrammi del mondo reale. A tal riguardo viene riportato e
commentato lo schema cosiddetto “Reality-Virtuality Continuum” di Paul Milgram che
chiarisce gli stadi di passaggio dalla pura realtà alla pura virtualità indicandoli con il
concetto di “Mixed reality” (esperienza mista appunto).
Il lavoro si conclude con il quarto capitolo in cui si vuole suscitare delle riflessioni sui
risvolti sociali correlati a tutte queste moderne tecnologie che nel corso degli ultimi
decenni hanno condizionato la quotidianità della maggior parte delle persone. Si
analizza in particolare il contributo di Nicolas Negroponte nel suo libro “Essere
Digitali”, nel quale l‟autore esplica la sua visione favorevole alle nuove tecnologie, ma
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anche la critica a lui rivolta da Umberto Galimberti. Lo scopo ultimo di questo capitolo
è quello di evidenziare come lo sviluppo delle moderne tecnologie di comunicazione
abbia influenzato non poco il complesso sistema dei rapporti interpersonali soprattutto
con l‟avvento e la diffusione del personal computer e dei nuovi media ad esso collegati.
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1. 3D: LA TERZA DIMENSIONE
1.1. 3D, tridimensionalità e stereoscopia: terminologia ed evoluzione
Letteralmente 3D sta per “three dimensions” e si riferisce alle tre grandezze indicate
genericamente nel piano cartesiano con le coordinate x, y e z.
L‟acronimo 3D viene usato di solito per indicare l‟appartenenza di un immagine o di un
filmato al campo della tridimensionalità, cioè delle tre dimensioni spaziali (larghezza,
lunghezza, profondità) che descrivono il mondo reale.
3D è inoltre spesso usato come sinonimo di stereoscopia, tuttavia la stereoscopia è una
tecnica adottata per realizzare e vedere disegni, immagini, fotografie e filmati in modo
da dare l‟illusione della tridimensionalità, esattamente come accade nella visione
binoculare dell‟occhio umano.
Ciascuno dei nostri occhi percepisce un‟immagine leggermente differente dall‟altro ed è
la combinazione delle due immagini a fornirci la percezione della terza dimensione,
infatti gli occhi umani (essendo a circa 6 cm di distanza l‟uno dall‟altro) vedono la
stessa scena da due posizioni leggermente differenti e trasmettono quindi al cervello due
immagini che si presentano come una traslazione laterale della medesima scena. Il
cervello, sovrapponendo le due immagini (quella recepita dall‟occhio destro e quella
recepita dall‟occhio sinistro), riesce a valutare e percepire la distanza degli oggetti dal
proprio piano di visione: se un oggetto è nella stessa posizione in entrambe le immagini,
il cervello interpreta l‟oggetto come posizionato sul piano schermo (monitor o tv o
schermo del cinema), invece più un oggetto è scostato nelle due immagini più esso
viene percepito come vicino o lontano
1
.
1
Nella proiezione stereoscopica la percezione di profondità deriva
dalle differenti visioni che abbiamo tra l‟occhio sinistro e l‟occhio
destro: quando le due immagini coincidono sullo schermo avremo la
sensazione che l‟oggetto è posizionato sullo schermo; quando le due
immagini sono spostate l‟una rispetto all‟altra, gli occhi tendono a
convergere per fonderle in un‟unica visione (fusione stereoscopica).
Il nostro cervello avrà quindi l‟illusione che l‟immagine sia
posizionata nel punto di convergenza degli assi di visione.
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Quindi questa naturale capacità percettiva (chiamata stereopsi) sfrutta la disparità fra le
due immagini per trarre informazioni sulla profondità e sul posizionamento dell‟oggetto
nello spazio, generando appunto la visione tridimensionale.
La visione binoculare e la percezione tridimensionale della realtà che circonda l‟uomo
sono da tempo oggetto d‟interesse di diversi studiosi e artisti.
Fu Euclide nel 208 a.c. a comprendere per primo i principi della visione
tridimensionale: secondo la leggenda egli si accorse della differenza di percezione tra i
due occhi osservando il proprio dito indice e alternando l‟occlusione degli occhi (come
si fa spesso per gioco da bambini). Solo molti secoli dopo, nel 1584, Leonardo da Vinci
studiò in maniera scientifica la percezione della profondità attraverso la visione
binoculare.
In seguito Giovanni Battista della Porta produsse il primo disegno artificiale
tridimensionale e Jacopo Chimenti da Empoli realizzò disegni affiancati che
chiaramente dimostrano la comprensione della visione binoculare.
Figura 1 - Coppia di disegni di Jacopo Chimenti da Empoli.
Il termine stereoscopia è però relativamente recente: bisogna aspettare il XVII secolo
per trovare nei testi letterari questo termine e precisamente nel 1613, quando il gesuita
François d‟Aguillion coniò in un suo trattato il neologismo “stéréoscopique”.
Nel 1833 il fisico inglese Sir Charles Wheatstone sviluppò approfonditi studi
sull‟argomento e dimostrò che ponendo due disegni leggermente diversi l‟uno accanto
all‟altro e osservandoli attraverso un sistema di specchi e prismi è possibile produrre
artificialmente l‟effetto della visione tridimensionale. Wheatstone propose di chiamare
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questo sistema ottico “stereoscope” (dal greco “stereos”, solido, e “scopos”, che
guarda)
2
.
Figura 2 - L‟apparato stereoscopico di Charles Wheatstone in versione originale.
Nel 1844, Sir David Brewster (che nel 1816 aveva brevettato il caleidoscopio, dal greco
“kalos”, bello, “eidos”, forma, e “scopos”, che guarda) apportò miglioramenti allo
stereoscopio.
Fu l‟interesse della Regina Vittoria a rendere molto popolare la stereoscopia: nel 1856,
secondo Brewster, erano stati venduti già mezzo milione dei suoi stereoscopi, malgrado
il costo fosse molto elevato.
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Si veda descrizione dettagliata al par. 1.2.2. “Stereoscopio”.
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Figura 3 - Illustrazione del 1877 dello stereoscopio di David Brewster.
L‟americano Oliver Wendell Holmes, tuttavia, riuscì a realizzare una versione meno
cara dell‟apparato, in alluminio, dando così il via alla diffusione di grandi quantità di
immagini stereo, montate su cartoncino
3
.
Un certo numero di società si specializzò quindi nella produzione di immagini stereo e
di visualizzatori, la più nota di queste fu l‟americana Sawyer‟s (fondata alla fine degli
anni „30) col suo visualizzatore View-Master. Questo tipo di visualizzatore adotta 7 paia
di fotografie montate sulla circonferenza di un disco da 90 mm di diametro: i dischetti
vengono inseriti manualmente in un alloggiamento nella parte superiore del visore ed
una leva di avanzamento consente di passare alla successiva coppia di diapositive. É un
sistema molto semplice che sfrutta la luce naturale per l‟illuminazione delle foto.
3
La moda di raccogliere immagini stereo continuò fino alla prima guerra mondiale, che fu infatti
documentata da diversi gruppi di fotografi dotati di apparati fotografici stereo.
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Figura 4 - Visualizzatore immagini 3D View-Master Model E della Sawyer‟s con relativo dischetto.
Ancor‟oggi le immagini stereoscopiche suscitano nella collettività un particolare
fascino, lo dimostrano non solo i vari “cinema 3D” presenti un po‟ in tutto il mondo, ma
anche i siti web in 3D, i videogiochi 3D e le applicazioni informatiche sviluppate per
l‟elaborazione di immagini, foto e video tridimensionali.
1.2. Sistemi stereoscopici analogici
Dalla scoperta della stereoscopia ad oggi si sono sviluppati e susseguiti diversi sistemi
che applicano questa tecnica per generare l‟illusione della tridimensionalità, alcuni
molto semplici e rudimentali, altri molto complessi e costosi.
Di seguito si analizzano brevemente i diversi sistemi stereoscopici suddividendoli in
analogici (ottici ed elettronici) e digitali (affrontati nel paragrafo successivo).
1.2.1. Libera visione
La libera visione stereoscopica può apparentemente sembrare il più semplice dei sistemi
3D in quanto non necessita di alcun tipo di strumento, in realtà non è così perché non
tutti riescono in questo particolare “esercizio oculare”. È un sistema stereoscopico che
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consiste nel guardare ad occhio nudo una coppia di immagini stereoscopiche
convergendo o divergendo gli occhi in modo da anticipare o posticipare il piano di
messa a fuoco rispetto a quello naturale, sino a far collimare le due immagini in una
unica che risulterà tridimensionale.
Questo sistema non è molto diffuso in quanto richiede una certa applicazione oltre ad
una notevole elasticità nel movimento degli occhi, ma una volta assimilata questa
tecnica può risultare molto affascinante e divertente (ad esempio nel gioco delle
differenze della settimana enigmistica!).
Figura 5 - Immagine da osservare con la tecnica della libera visione stereoscopica incrociata.
Figura 6 - Immagine da osservare con la tecnica della libera visione stereoscopica parallela.
Si possono utilizzare sia immagini stampate (come quelle create per lo stereoscopio) che
immagini digitali: per le prime l‟effetto della profondità è maggiormente percettibile
con immagini semplici, magari raffiguranti forme geometriche, mentre per le seconde la
tecnica risulta più facilmente applicabile ad immagini di piccole dimensioni (per
esempio 320x240 pixel), aumentando con l‟allenamento le dimensioni alla ricerca del
proprio limite.
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1.2.2. Stereoscopio
Nato nel XIX secolo per mano del fisico inglese Sir Charles Wheatstone, lo
stereoscopio è sostanzialmente un apparecchio del tutto simile ad un primordiale
binocolo avente al suo interno un sistema di specchi e prismi che permette ad ognuno
dei due occhi di vedere soltanto l‟immagine ad esso destinata.
Figura 7 - Lo “stereoscope” conservato allo Science Museum di Londra.
Figura 8 - Rappresentazione schematica del funzionamento dello “stereoscope” di Charles Wheatstone.
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Le immagini utilizzate per la visione tridimensionale attraverso lo stereoscopio hanno
subìto negli anni un‟evoluzione parallela al processo innovativo che ha modificato lo
stereoscopio stesso: si parte dalle prime stampe fotografiche illuminate per luce riflessa
per passare in seguito ad immagini stampate su carta più sottile o addirittura su dei
vetrini che venivano poi retroilluminate; queste prime tecniche sono state superate e
sostituite nel corso del novecento dai sistemi a retroilluminazione con diapositive, che
favoriscono una migliore percezione della tridimensionalità.
1.2.3. Anaglifia
L‟anaglifo (dal greco “anáglyphos”, parola composta da “aná”, sopra, e “glýphein”,
incidere) è un‟immagine con una particolare caratteristica: essa infatti scaturisce dalla
sovrapposizione (leggermente traslata lateralmente) di due fotogrammi di una medesima
immagine, in cui ogni fotogramma assume una colorazione dominante differente e
complementare all‟altro.
Le coppie di colori utilizzate devono soddisfare il vincolo di complementarietà, secondo
il quale uno stesso colore non deve essere presente in entrambi i fotogrammi, per questo
si usano solitamente le coppie rosso-ciano, verde-magenta e blu-giallo
4
.
Attraverso questa tecnica di creazione dell‟immagine e con l‟ausilio di appositi occhiali
dotati di lenti colorate (dei medesimi colori usati per la creazione delle immagini) è
possibile riprodurre l‟effetto della tridimensionalità. Supponiamo ad esempio di
osservare con gli appositi occhiali un anaglifo per il quale sia stata utilizzata la coppia di
colori rosso-ciano: il fotogramma con colorazione dominante rossa sarà visto attraverso
la lente di colore ciano (convenzionalmente quella destra) mentre sarà oscurato dalla
filtratura della lente di colore rosso (convenzionalmente quella sinistra) e viceversa per
il fotogramma con colorazione dominante ciano; in questo modo ognuno dei due occhi
vedrà solo l‟immagine ad esso destinata (simulando la visione binoculare), creando
attraverso l‟elaborazione celebrale l‟illusione della terza dimensione.
4
La coppia verde-magenta funziona abbastanza bene con le immagini stampate, anche se l‟immagine
percepita attraverso gli occhiali tende ad apparire gialla. La coppia giallo-blu fu utilizzata nei primi
esperimenti cinematografici, ma oltre ad una variazione del colore essa genera anche il cosiddetto effetto
ghost (fantasma). La coppia rosso-ciano sembra la più efficace, permettendo di ottenere una discreta
rappresentazione del colore e una visione neutra delle immagini bianco-nero.
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Figura 9 - Semplici occhiali per la visione di anaglifi.
Questo sistema è facilmente riproducibile grazie agli appositi programmi informatici
che consentono di creare agevolmente degli anaglifi, e grazie ai relativi occhiali che,
oltre ad essere molto economici, sono facilmente reperibili.
Un punto debole dell‟anaglifia è però la scarsa luminosità dell‟immagine che genera un
effetto stereoscopico non dei migliori, senza considerare l‟impossibilità di avere
immagini con colori soddisfacenti in quanto la resa di molti colori risulta quasi
impercettibile.
Ciò nonostante l‟anaglifia è stata molto usata nel cinema 3D degli anni sessanta
5
, in
quanto permetteva l‟utilizzo di un‟unica pellicola e quindi la proiezione necessitava di
un solo semplice apparecchio; per lo stesso motivo questo sistema è ancora oggi molto
utilizzato per le immagini digitali tridimensionali e nell‟ambito dell‟“home video”,
proprio perché permette la visione 3D con un comune monitor per PC o televisore.
Emblematico è stato il famoso caso del crollo delle Twin Towers negli Stati Uniti
d‟America: si scatenò un “tam tam” di immagini anaglifate che permettevano di “vedere
dal vivo” l‟evento (ovviamente grazie all‟illusione tridimensionale!).
5
Per un maggiore approfondimento in merito al cinema tridimensionale ed alla sua evoluzione si veda
par. 1.6.1. “Cinema 3D”.
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Figura 10 - Il famoso crollo delle Twin Towers sotto forma di anaglifo.
1.2.4. Luce polarizzata
Questo sistema, utilizzato nel cinema e nella proiezione di diapositive, necessita di un
apposito proiettore, di uno speciale schermo e di occhiali specifici, pertanto risulta più
costoso di un sistema anaglifo. Il risultato tuttavia è di gran lunga superiore,
permettendo una resa ottimale dei colori (cosa pressoché impossibile con gli anaglifi)
oltre ad una maggiore luminosità e sensazione di profondità.
Il sistema a luce polarizzata utilizza un doppio proiettore: il primo proietterà sullo
schermo il filmato destinato all‟occhio sinistro mentre il secondo proietterà il filmato
destinato all‟occhio destro. Per fare in modo che ciascuno dei due filmati raggiunga solo
l‟occhio a cui è destinato si sfrutta la polarizzazione lineare della luce
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che prevede
l‟applicazione di filtri polarizzati su entrambi i proiettori: il filtro polarizzatore ha lo
scopo di “convogliare” le vibrazioni elettromagnetiche del fascio luminoso in un‟unica
direzione, quindi montando su un proiettore un filtro che polarizza la luce nel senso
verticale e sull‟altro proiettore un filtro che polarizza la luce in senso orizzontale si
possono proiettare sullo schermo due immagini diversamente polarizzate, destinate
ciascuna ad uno dei due occhi.
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La polarizzazione è un fenomeno comune in natura, avviene quando la luce incontra una superficie
riflettente che ne devia l‟asse di propagazione (ad esempio, da verticale a orizzontale).
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Figura 11 - Polarizzazione della luce in senso verticale ed orizzontale.
Figura 12 - Funzionamento della polarizzazione applicato al cinema
Gli spettatori devono indossare degli occhiali anch‟essi polarizzati, costruiti in modo
che la lente relativa all‟occhio sinistro lasci filtrare solo la luce polarizzata nel senso
orizzontale e la lente relativa all‟occhio destro invece lasci passare solo la luce
polarizzata nel senso verticale
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; in questo modo ogni occhio percepisce esclusivamente
il filmato ad esso destinato e la fusione delle immagini attraverso il cervello genera il
senso della terza dimensione (la profondità appunto).
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Questa tecnica viene utilizzata ad esempio negli occhiali da sole le cui lenti filtrano tutte le emissioni
luminose ad eccezione di quelle sull‟asse verticale (polarizzazione verticale).