III
Introduzione
La possibilità di un organizzazione federativa dello stato italiano inizia ad
essere presa in considerazione già con le guerre d’indipendenza in vista
dell’unificazione nazionale durante il Risorgimento. E’rilevante notare come
dall’unità d’Italia fino alla transizione dalla prima alla seconda Repubblica, e
ancora oggi, il dibattito sul federalismo sia sempre stato al centro del
dibattito politico: nei nostri giorni le ipotesi di trasformazione dello Stato in
senso federale non sono più nel programma della sola Lega Nord - partito
che ha fondato le sue radici espressamente sulla questione territoriale - ma
sono state fatte proprie anche da altre forze politiche, pur di opposti
orientamenti ideologici.
La causa determinante del riproporsi del federalismo va cercata nelle
difficoltà che hanno investito di volta in volta non solo le istituzioni ma
l’intera società italiana. Nella nostra storia vi è uno stretto rapporto tra
situazione di crisi economico-politica e ripresa del federalismo come
proposta politicamente attuabile nei momenti in cui il disagio che ha colpito
la società è stato attribuito anche alle difficoltà e ai guasti prodotti dal
ricorso all’accentramento e, di conseguenza se n’è cercata la soluzione
attraverso la trasformazione profonda delle strutture statali.
Per comprendere le vere ragioni, è necessario pertanto risalire agli anni
1859-1860, quando, nel giro di soli due anni, la formazione del nuovo stato
unitario comportò l’unione in un'unica entità centrale dei sette stati
preesistenti. La risposta alla conseguente questione organizzativa del
nascente Stato italiano si concretizzò in un ordinamento fondato sulla legge
sabauda 23 ottobre, n.3702 (legge Rattazzi), la quale prevedeva
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l’articolazione statale in provincie a loro volta ripartite in circondari
comprendenti un certo numero di mandamenti e di comuni.
Il nuovo ordinamento, ispirato ad un esasperato centralismo di tipo
napoleonico, operò un forte accentramento, trascurando le ipotesi
federalistiche e comprimendo le preesistenti autonomie locali.
Il governo presieduto da Cavour affrontò con i disegni di legge Farini-
Minghetti (1860-1861) la questione regionale, ma la legge 20 marzo 1865,
n.2248 (legge Ricasoli)
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per l’amministrativa del regno d’Italia non fece
altro che confermare l’adozione del sistema accentratore di imitazione
francese, caratterizzato da una potente amministrazione centrale, che si
avvaleva su base provinciale dell’istituto prefettizio per vigilare e
provvedere affinché l’amministrazione locale si svolgesse sempre secondo le
proprie direttive e indirizzi, chiudendo definitivamente il discorso iniziato
dai federalisti.
Nel dibattito parlamentare che ne seguì, occorre sottolineare il ruolo della
sinistra storica giunta al potere con il ribaltone del 1876 e che vide Depretis
e Crispi battersi per l’attuazione di un decentramento di alcune funzioni agli
organi locali, che per una serie di motivi di instabilità governativa non
videro mai la loro incoronazione rimanendo costantemente nell’ideale
anziché nel reale.
In tale scenario storico non fu di poca importanza il contributo di grandi
pensatori dell’Ottocento, tutti fieri nemici del nazionalismo: autori come
Gioberti e Rosmini, Cattaneo e Ferrari, per limitarsi ai maggiori, proposero
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La legge mantiene la divisione del regno in province, circondari, mandamenti e comuni. Il sindaco,
nella duplice veste di capo dell’amministrazione comunale e di ufficiale del governo, viene nominato
dal Re, che lo sceglie però tra i consiglieri comunali elettivi. Si istituisce, inoltre, per la prima volta la
giunta comunale elettiva, eletta dal consiglio tra i suoi componenti.
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soluzioni che tenevano in considerazione non soltanto la complessità della
realtà italiana, ma anche la diversificazione delle tradizioni e della mentalità.
Carlo Cattaneo, il più importante (e isolato) dei grandi protagonisti del
dibattito ideologico ottocentesco, riconobbe immediatamente le
problematiche storiche e politiche del tempo, tanto da considerare la sua
sconfitta come l'involuzione delle speranze di libertà che l'Italia aveva visto
emergere durante la prima età del secolo. Per tutti i federalisti dell'Ottocento
(italiani e stranieri, cattolici e laici) soltanto una struttura federale avrebbe
potuto permettere all'Italia - la cui storia fu sempre segnata da divisioni, e
che ancora presentava notevoli diversità nell'economia e nella cultura - di
garantire ad ogni comunità una vera libertà ed un'autentica democrazia.
Questa esigenza era particolarmente avvertita da Cattaneo, secondo il
quale, sia Cavour che Mazzini erano esponenti di un centralismo da cui lui
era lontanissimo. Illuminista ed allievo di Romagnosi, fervente ammiratore
della civiltà anglosassone, egli era del tutto persuaso che la costruzione di
un'Italia monarchia (o anche repubblicana) accentrata avrebbe ostacolato
ogni sviluppo civile e avrebbe umiliato le legittime aspirazioni liberali delle
diverse popolazioni.
Lo Stato federale, in questo senso, sarebbe dovuto essere l'esatto contrario
dello Stato centralista, erede dell'assolutismo e del giacobinismo
rivoluzionario, teso a utilizzare i propri poteri per uniformare il territorio e la
popolazione, ma anche predisposto ad allargare sempre di più il proprio
controllo sull'economia, sulla cultura e sull'istruzione: con l'inevitabile
conseguenza di soffocare ogni spirito di iniziativa e opprimere ogni identità
e tradizione. Solo una federazione, insomma, avrebbe garantito ad ogni
popolo italiano il diritto di autogovernarsi e di essere padrone a casa
propria.
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Fin dalla sua nascita, però, l’Italia si costituì in ogni suo periodo, quale
stato fortemente accentrato che esprimeva una totale sfiducia verso le
diverse comunità di cui esso si componeva e che ha costantemente temuto e
avversato le aspirazioni all’autogoverno che di volta in volta sono emerse:
un tempo nel Mezzogiorno e oggi nel Nord.
Il sogno di un’Italia federale non scomparve, comunque, con la morte di
questi autori. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento infatti si
poté assistere alla rinascita di un ideale federalista, per merito soprattutto del
socialista Gaetano Salvemini e del cattolico Luigi Sturzo
Meridionale e convinto assertore della possibilità di un “Risorgimento”
del Sud attraverso la costituzione di proprie istituzioni (capaci di
responsabilizzarlo e accrescerne la maturità democratica), Salvemini
riprende in forma originale la lezione di Cattaneo. A suo giudizio il
federalismo permette una migliore e più efficiente democrazia: "il governo
federale affida agli uffici centrali le sole funzioni politiche d'interesse
nazionale, riducendo al minimo la burocrazia della capitale e permette su di
essa un reale controllo; conserva alle amministrazioni locali, più vicine agli
interessati, tutta la direzione della vita locale, e permette così che tutti gli
affari locali siano definiti direttamente dagli organi locali elettivi". La sua
convinzione è che soltanto la sconfitta di una concezione centralista del
potere può permettere di sconfiggere le nuove burocrazie parassitarie,
dispotiche e inefficienti.
Non distante è la posizione di Sturzo, che fin dall'inizio del secolo
rivendica una maggiore libertà d'azione per le assemblee e gli amministratori
del Mezzogiorno, sottolineando il nesso che collega l'accentramento del
potere a Roma e il degrado della vita civile meridionale con la sua
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componente di corruzione, sopraffazione dei politicastri e di manutengoli
della mafia e della camorra.
Come in Salvemini, vi è anche in Sturzo la convinzione che non si debba
più ridurre la società meridionale "ad essere serva, terra di conquista,
regione da sfruttare e da piemontizzare, come dicevasi un tempo". E questo
non soltanto perché esistono differenze storico-culturali che vanno rispettate,
ma soprattutto in ragione del fatto che a suo giudizio solo una vero
federalismo può porre le basi per il riscatto civile ed economico del Sud.
Del tutto assente fu l’istanza federalista durante il ventennio fascista;
periodo nel quale fu soppressa qualsiasi forma di autonomia locale mediante
l’instaurazione di un sistema fortemente accentrato dove le province e i
comuni costituivano nient’altro che satelliti di supporto allo stato centrale,
nominati dallo stato centrale e in funzione di esso.
Se la vita delle autonomie locali è sempre stata incerta in Italia, con
l’avvento del regime fascista e la riforma dello Stato secondo la sua dottrina,
il problema venne completamente accantonato: con il t.u. 3 marzo 1934
n.383 vennero abolite le elezioni dei consigli comunali e provinciali,
sostituiti da organi di nomina governativa per il comune (podestà e consulta)
e per la provincia (preside e rettorato); venne esteso a tutti gli atti degli enti
locali il controllo di merito; si attuò, infine, la riforma in senso
antidemocratico della giunta provinciale amministrativa.
Fu soltanto con la Costituzione repubblicana del 1948 che, per reazione al
centralismo del precedente regime dittatoriale, si realizzò la riforma dello
Stato in senso regionalistico ed autonomistico. Venne delineato un sistema
ispirato al principio pluralistico, sotto ogni aspetto e livello: pluralismo
politico, ideologico, sociale ed istituzionale. Coerentemente con tale
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principio, si sostituì ad un unico apparato di potere centralizzato, contornato
soltanto da enti ausiliari e da organi dipendenti privi di attribuzioni
definitive, una pluralità di strutture rappresentative e di centri decisionali
dotati di autonomia.
Con la Costituzione repubblicana si è voluto procedere al potenziamento
di un sistema basato sul decentramento e sulle autonomie, considerando il
primo un mezzo per portare l’amministrazione “alla porta degli
amministrati” e le seconde un aspetto essenziale della democrazia che
consente il rafforzamento dei diritti e delle libertà dei singoli e degli enti
minori, nonché una più incisiva partecipazione dei cittadini all’esercizio del
potere.
L’art. 5 della Costituzione, inserito nei solenni principi fondamentali dello
Stato, proclama il riconoscimento e la promozione di tutte le autonomie
locali (con riferimento alle comunità locali), sancisce il principio del
decentramento amministrativo nell’ambito dell’apparato statuale ed invita il
legislatore ordinario ad adeguare “i principi e i metodi della sua legislazione
alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Ma nonostante la presenza nella carta costituzionale di tutti i presupposti
per giungere ad un più compiuto sistema regionale, le prime elezioni dei
Consigli regionali arrivarono solo nel 1970, con gran ritardo rispetto all’
opera dei costituenti. Bisognerà attendere gli anni ’90 per giungere alla
conclusione del lungo processo preesistente da centocinquanta anni di storia
italiana, dove sia la nascita della Lega Nord di Umberto Bossi, sia la
transizione alla seconda repubblica riuscirono a dare una vera e propria
modifica del titolo quinto del testo costituzionale che prenderà
definitivamente forma con legge costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3.