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Capitolo 1
La storia del gioco del gioco d’azzardo
Il gioco d’azzardo poggia le sue profonde radici nella storia e
nella cultura di ogni popolo, catturando di volta in volta l’attenzione
di molti autori, i quali nel tempo si sono mostrati appassionati al
riguardo. L’interesse attuale nei confronti del gioco si evince
dall’aumento costante nel tempo di libri e di associazioni deputate
allo studio di tale fenomeno. Platone affermava l’esigenza di
“vivere giocando, per poter rendere propizi gli dei, respingere i
nemici e vincerli nella battaglia”.
Il primo saggio attendibile sul gioco risale al 1938, grazie
all’opera di Huizinga “Homo Ludens”, in cui l’autore sostiene che:
“L’uomo gioca. Gioca da sempre. O almeno da quando,
distinguendosi dagli altri primati, diventa uomo. E’ proprio
quest’attitudine a giocare che rende quest’essere uomo. Ludens non
meno che faber e sapiens..”. In definitiva, Huizinga, avalla l’idea
per cui, la specie uomo, nel momento stesso in cui è sapiens e faber,
è anche ludens. L’attitudine al gioco non è quindi un’attività a cui
l’uomo si dedica quando può sottrarsi ai compiti richiesti per
garantire la sopravvivenza, ma è parte intrinseca del suo modo di
essere nel mondo.
Se ci soffermiamo sulla cultura delle nostre origini, vediamo
come, lo stesso calendario greco veniva scandito dai giochi e che
nessun luogo era tanto sacro a Zeus quanto Olimpia, dove
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troneggiava il capolavoro di Fidia che lo rappresentava nel più
grande tempio a lui dedicato. Strettamente connesso alla storia
dell’uomo, il gioco rappresentava già una forma d’intrattenimento
sociale nelle prime civiltà dove l’astragalo, un particolare osso di
pecora, aveva la stessa funzione dei dadi moderni (il termine
azzardo deriva dal francese “azard”, a sua volta termine di origine
araba “az-zahr”, che significa appunto dadi ). Inoltre, pitture murali
risalenti alla civiltà egizia, presenti oggigiorno al British Museum di
Londra, danno testimonianza di giocatori di atep, gioco in cui il
caso aveva un ruolo predominante, dovendo, i giocatori, indovinare
il numero di dita tese degli avversari senza osservarli.
Si hanno testimonianze relative al gioco d’azzardo nella Roma
imperiale dove, personaggi come Nerone, Caligola, Claudio,
mostravano una vera e propria passione per il gioco, unita ad una
certa propensione a barare, confermata dal ritrovamento di dadi
appesantiti da un lato. Nelle città italiane del XIII e XIV secolo era
praticata un’ampia varietà di giochi d’azzardo con i dadi, ai quali si
aggiunsero in seguito quelli con le carte. Questi ultimi erano avulsi
dall’abilità personale e, come tali, erano vietati; altri giochi come gli
scacchi, che esigevano invece una certa competenza, erano concessi
purché si svolgessero in luoghi aperti, come le piazze e le strade. Le
piazze, le logge, i portici, i crocicchi rappresentavano il punto
nevralgico delle attività ludiche, mentre le case private, le botteghe
e gli spazi semichiusi, erano luoghi assolutamente vietati al gioco.
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Nelle grandi città il luogo più frequentato era la Taverna, la quale
poteva essere di vari tipi come, ad esempio, la Taverna Mobile,
chiamata così in quanto concepita per essere trasportata da una fiera
all’altra. In tali occasioni il vino, bevuto in notevoli quantità,
rappresentava un fattore aggregante ed era spesso causa di risse,
imprecazioni, bestemmie, tutte tendenze strettamente legate al
gioco, in particolare a quello dei dadi. A tale proposito sia lo Stato
che la Chiesa si opponevano duramente al gioco d’azzardo, proprio
a causa delle consuete liti, frodi ed empietà che connaturavano tale
attività nel Medioevo.
Curiosità al riguardo emergono in un manoscritto inedito
dell’Inquisizione di Bologna risalente alla fine del 1300 che ci offre
la possibilità di scorgere una relazione frequente tra l’essere
giocatori d’azzardo e l’essere propensi alle bestemmie: tale opera,
contenente atti processuali relativi agli anni 1387-1392, è oggi
conservata nella Biblioteca comunale dell’Archigginasio bolognese.
Si tratta di una particolare normativa atta a disciplinare e punire
l’atto della bestemmia e il gioco d’azzardo. Tale regolamentazione
riflette la struttura della Chiesa in quel periodo. Infatti quest’ultima
non si dedicava solo alla sfera della preghiera, ma si occupava
apertamente delle condotte e delle azioni degli uomini,
giudicandole, approvandole e vietandole laddove riteneva
necessario. La sfera civile e quella religiosa erano in questo modo
strettamente correlate.
Lo Stato era solito trattenere la maggior parte dei proventi
derivanti dal gioco, il quale, anche se pubblico, era rigorosamente
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regolamentato: basti pensare che i barattieri, ovvero i conduttori
delle bische, erano veri e propri dipendenti statali, e che l’attività
ludica poteva essere svolta solo nelle apposite “case di baratteria”
comunali e soltanto in determinati giorni.
La baratteria, dapprima bisca clandestina, venne poi
gradualmente tollerata e infine resa lecita dai Comuni che
richiedevano una tassa, la “gabella”, per poter aprire queste “sale da
gioco”. Tale struttura fu regolamentata negli Statuti Comunali per
limitare la presenza di barattieri nelle piazze, i quali erano soliti
starsene sdraiati sulle stuoie a lanciar dadi e bestemmiare per le
perdite di denaro. I conduttori delle bische erano perciò tutelati
nell’esercitare il loro mestiere e spesso erano organizzati in
corporazioni. Nonostante ciò, dato l’elevato numero di giocatori, le
violazioni erano numerosissime.
Nel manoscritto di cui prima, troviamo traccia del parere di
Tommaso d’Aquino riguardo al gioco d’azzardo: lo studioso, pur
ritenendo il gioco “buono nella sua essenza”, suggeriva fermamente
di evitarlo, proprio perché era causa di un linguaggio blasfemo.
Inoltre, lo stesso documento ci informa circa le disposizioni degli
statuti dell’epoca, nei quali, a partire dal XIII secolo, venivano
costantemente rinnovati gli articoli che prevedevano severe
condanne nei confronti dei giocatori empi: si procedeva dalla multa
pecuniaria fino alla pubblica fustigazione, associata quest’ultima al
lancio di uova marce. Tuttavia la realtà dell’epoca evidenziava una
totale mancanza di rispetto nei confronti delle norme vigenti:
l’analisi degli atti podestarili dal 1385 al 1400, conservati
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nell’archivio di Stato di Bologna, dimostra la totale assenza di
procedimenti a carico di giocatori blasfemi, pur essendo presente
una procedura che assicurava l’assegnazione di metà della multa
conferita a favore dell’accusatore.
Il manoscritto ritrovato è particolarmente interessante perché
nell’enunciazione dei capi d’accusa riporta testualmente le
espressioni usate dagli inquisiti. Ci informa inoltre circa la relazione
tra il turpiloquio e lo svolgersi delle diverse fasi di gioco. La fase
relativa all’inizio dell’attività ludica, ossia quella del lancio dei
dadi, era caratterizzata da un linguaggio relativamente castigato,
mentre quella successiva appariva permeata da un linguaggio
estremamente colorito, dove la fantasia blasfema non conosceva
limiti: quando la sfida a Dio non otteneva risultati favorevoli,
iniziavano a comparire imprecazioni nei confronti della Madonna.
Siamo in presenza di una forma di maschilismo che si manifestava
con uno schematismo preciso: la supplica a Dio nel momento in cui
si lanciavano i dadi, seguita da bestemmie oltraggiose contro la
Vergine quando la sorte diveniva contraria.
In quest’epoca storica, maschilista e misogina, la donna era
considerata inferiore all'uomo, imprigionata in due unici ruoli, quelli
di Maria o Eva, santa o peccatrice, pura o tentatrice. Basti pensare
che San Gerolamo definì la creatura femminile “porta del demonio”,
mentre Sant’Agostino la ritenne importante ai soli fini della
riproduzione. La definizione che meglio descrive la mentalità del
tempo riguardo la condizione femminile, è quella elaborata negli
ambienti ecclesiastici medioevali, secondo cui, il ruolo della donna
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era di subordinazione al marito e di totale dedizione alla casa. La
sola alternativa al matrimonio era rappresentata dall’ingresso in
convento, dove, alla donna, veniva imposto di saper leggere per
poter recitare le preghiere. Infatti, l’unico modo per accedere
all’istruzione, tranne per coloro che provenivano da famiglie
aristocratiche, era intraprendere la vita monacale.
Nonostante i villaggi medioevali fossero forniti di strutture
scolastiche, alla maggioranza delle ragazze era vietato prendervi
parte a causa della misoginia maschile che pretendeva di limitare
l’istruzione agli uomini. L’idea corrente nella seconda metà del XIII
secolo era che l’apprendimento alla lettura e alla scrittura avrebbe
condotto le ragazze alla perdizione.
Quest’ultime uscivano di casa solo nei giorni feriali, sempre con
accompagnatrici anziane ed unicamente per recarsi in chiesa. Alle
stesse era permesso mostrarsi in pubblico soltanto nei giorni di festa
o durante le cerimonie religiose. Inoltre, nel periodo mestruale,
venivano completamente isolate e si impediva loro di svolgere i
lavori abituali. In alcuni contesti, addirittura, le donne non dovevano
toccare con le mani un certo cibo, dato l’elevato rischio che questo
potesse essere contaminato. In quei giorni erano obbligate a vivere
in totale reclusione perché l'uomo, vedendole, avrebbe “perso la sua
virilità” o “le sue ossa si sarebbero infiacchite”. Simili tabù, relativi
al vedere e al toccare, colpivano anche le donne incinte.
L’esasperazione delle tendenze misogine dell’epoca ebbe come
tragica conseguenza il fenomeno della “caccia alle streghe”, pratica
istituita da Papa Alessandro IV nel 1258.
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Le triste, le ndivine, erano, appunto, le streghe. Donne
considerate poco intelligenti, invidiose, volubili, dagli insaziabili
appetiti sessuali, accusate di crimini nefandi.
Nel XX canto dell’inferno, precisamente nella quarta bolgia
dell’ottavo cerchio, Dante collocò anche le maghe, le femmine
sciagurate, che, invece di dedicarsi al “fuso” e al “pennacchio”,
preparavano incantesimi con infusi e fantocci di cera, nei quali
conficcare spilli per recare danno alle persone.
Possiamo quindi osservare come il maschilismo insito nella
pratica del turpiloquio fosse tutt’altro che casuale. Esso altro non
era che l’espressione diretta della mentalità profondamente anti
femminista dell’epoca.
Nell’ambito delle pene connesse alle bestemmie, a seconda della
gravità delle colpe e delle particolarità del soggetto, nel manoscritto
vengono citati: il digiuno una volta alla settimana; la recita di
quindici o venticinque pater o ave; l’obbligo di assistere alla messa
in una determinata chiesa. Nei casi più gravi, la penitenza diveniva
pubblica, mentre sappiamo che all’albergatore Borso fu intimato il
digiuno settimanale per un anno e l’offerta di un cero a
S.Domenico, così come al miniatore Antonio venne imposto di
offrire il cero a S.Maria del Monte, dove doveva recarsi una volta al
mese per un intero anno.
La pratica del digiuno è presente ancora oggi, soprattutto durante
il periodo della Quaresima. Quest’ultima, intesa come tempo di
penitenza prima della Santa Pasqua, ha segnato nei secoli passati
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l’immaginario collettivo e continua a rappresentare tuttora uno dei
momenti più sentiti della tradizione cristiana.
La Penitenza indica un cammino personale ed ecclesiale di
conversione, di pentimento e di riparazione da parte del cristiano
peccatore. Il richiamo di Gesù a questo proposito riguarda la
conversione interiore che esige una rottura con il peccato e la
risoluzione di cambiare vita sperando nella misericordia di Dio.
Questo cammino spirituale comporta il riconoscimento dei propri
peccati, del pentimento, della conversione e dell’accoglienza del
perdono di Dio. La Quaresima è dunque “Tempo di Penitenza” per i
peccati commessi. Il digiuno del Venerdì Santo viene ad essere la
manifestazione più emblematica di questa tradizione, chiaramente
accanto alla preghiera. Tradizioni come quelle medioevali, che
sembrano appartenere ad epoche differenti dalla nostra per mentalità
e consuetudini, sono in realtà attuali e ancora profondamente
riconosciute dalla collettività cristiana.
Il digiuno o la recita di determinate preghiere rappresentavano il
danno minore per il giocatore. Infatti, la pena comune a tutti, al di
là delle differenze sessuali, economiche e sociali, era l’assoluto
divieto di giocare d’azzardo.
Il Rinascimento non è stato risparmiato dal vizio del gioco. In
questo periodo particolarmente vitale da un punto di vista
economico, il gioco d’azzardo si diffuse velocemente in tutti gli
ambienti, soprattutto in quelli più mondani. Ogni avvenimento era
motivo di scommessa: una semplice partita a palla o un torneo tra
cavalieri; l’arrivo o meno in città di un certo principe e, addirittura,
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quale fra le tante navi sarebbe stata la più veloce a rientrare in porto.
Il tutto nonostante le proibizioni.
Ogni Stato, e più d’ogni altro quello Pontificio, vietava il gioco
d’azzardo, considerandolo penalmente perseguibile oltre che
immorale e riempiva i propri Statuti di decreti, leggi, divieti che non
riuscivano però nemmeno ad arginare il fenomeno. Poco poterono
anche i predicatori del Quattrocento, i cui discorsi, se riuscivano a
convertire un’anima votata all’azzardo, ne lasciavano praticamente
indifferenti altre decine. S’impose così la necessità di una
giurisprudenza meno severa che certo non favorisse il gioco, ma
neppure lo bandisse come il peggiore dei peccati. Arrivarono allora
alcune concessioni, come quelle genovesi, che consentirono di
giocare in luoghi pubblici ma con limiti di puntate precise ed in
giorni determinati; o quelle del governo di Firenze che permise il
gioco solo ai maggiori di ventiquattro anni. Alla fine del XV secolo,
poi, a rendere ancor più arduo il tentativo di frenare il gioco
d’azzardo, giunse una vera e propria “febbre da carte”. “Naibi”,
“Minchiate”, “Tarocchi”, in carta o in tela, dipinte o miniate, le
carte divennero una passione collettiva a cui soprattutto i
nobiluomini non rinunciavano, abdicando, così, alla propria
signorilità.
Beatrice d’Este, infatti, vinse sui propri ospiti portando via loro
tutto quanto avevano in tasca e ricevendo gli entusiastici
complimenti del marito, a cui fece grandissimo piacere, così come
testimoniano queste parole: “Havere inteso che avendo voi giocato
con coloro li habiati pelato, eccetto poi ricordare alla consorte di
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tenere bono cuncto del tuto, acciocché, quando siati ritornata de
qua, ne possi avere quanto tocherà a mi”. L’invenzione della
stampa diede il colpo finale, consentendo una diffusione ancora più
ampia ed a minor prezzo delle carte. A quel punto divenne
indispensabile per gli Stati trovare una formula che in qualche modo
legittimasse il gioco, e che, allo stesso tempo, permettesse loro di
guadagnarci.
Probabilmente il primo embrione di gioco ufficiale legato alla
sorte è nato a Milano per iniziativa di un banchiere, un certo
Cristoforo Taverna che, il 9 gennaio del 1449, bandì l’estrazione
pubblica di sette “borse della ventura”, contenenti ognuna
rispettivamente 300, 100, 75, 50, 30, 25 e 20 ducati. E’ incerto a
quale titolo, ma il ricavato andava al Comune e la cosa piacque
talmente tanto che proseguì a lungo negli anni, con il nome di
cabala o fontina. Anche a Modena e a Ferrara si diffuse il gioco
della ventura, mentre a Venezia divenne una sorta di appuntamento
fisso una lotteria a premi nella quale si vincevano gioielli, quadri,
tappeti.
La comparsa del lotto vero e proprio, inteso in senso molto simile
a quello in cui noi oggi lo conosciamo, avvenne a Genova nei primi
anni del Cinquecento. Due volte l’anno venivano eletti cinque nuovi
membri del Maggior Consiglio, scelti tra centoventi cittadini
meritevoli per “prudenza e virtù”. I nomi degli aspiranti erano
inseriti in un’urna detta seminario, che diede il nome al gioco,
chiamato, appunto, “Gioco del Seminario”; dal contenitore
venivano poi estratti i nominativi dei cinque futuri “Magistrati”.