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INTRODUZIONE
La seconda metà del V secolo è un periodo abbastanza burrascoso
per la storia di Atene, che si trova impegnata nella guerra fratricida con
Sparta.
Ed è proprio in quel periodo, tra il 424 a.C. e il 412 a.C. , che il
drammaturgo Euripide pone la sua attenzione su questa guerra, sulle sue
cause, sul declino che sta procurando alle istituzioni politiche, sociali ed
economiche, sulla conseguente crisi della polis, fulcro della vita politica
greca.
Euripide osserva attentamente la situazione della sua città, corruccia
la fronte dinanzi alla disinvolta politica ateniese mirante all’egemonia e
all’imperialismo armato, nota che l’immagine e le abitudini politiche di
Atene stanno irreversibilmente cambiando, e, per esprimere il suo dissenso,
si serve della tragedia, utilizzandola come strumento di propaganda contro
la guerra contemporanea.
Il tragediografo incastona le sue allusioni alla guerra peloponnesiaca
dentro il mito: le quattro tragedie del ciclo troiano, Troiane, Ecuba,
Andromaca ed Elena, descrivono le sofferenze, il dolore, gli abusi di
potere, i lutti e tutto ciò che la guerra decennale, combattuta da Greci e
Troiani, ha portato.
Le Troiane vengono rappresentate nel 415 a. C. durante le Grandi
Dionisie, nello stesso mese in cui l’assemblea degli ateniesi decide di
votare a favore della spedizione in Sicilia. Dunque un chiaro significato
politico, una denuncia della guerra di conquista, un messaggio così tanto
palese da essere recepito anche dagli stessi ateniesi che quell’anno
attribuirono ad Euripide solo il secondo premio.
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Anche un altro avvenimento è legato alla stesura della tragedia: la
spedizione ateniese contro la piccola cittadina neutrale di Melo del 416
a.C., che fu la prima impresa bellica di Atene dopo la pace di Nicia,
stipulata per porre fine alla stagione delle guerre del Peloponneso. La città
fu espugnata crudelmente e furono messi a morte i maschi adulti, mentre
per donne e bambini fu preferita la schiavitù. Ma Melo non fu la sola a
subire questo massacro: alcuni anni prima era toccato a Scione e a Torone
conoscere la ferocia della rappresaglia ateniese.
Un quadro più che simile lo ritroviamo alla fine delle Troiane con
l’incendio di Troia e la successiva decisione di rendere le donne serve dei
vincitori, e ciò fa pensare che Euripide abbia scelto di proposito tale tema,
piegando ai suoi scopi, per inviare un messaggio nitido alla democrazia
bellicista ateniese, la vicenda della guerra di Troia.
L’apice dell’antibellicismo euripideo si riscontra però nell’Elena,
tragedia del 412 a. C., rappresentata in un clima di totale sfiducia, dopo la
disastrosa spedizione ateniese in Sicilia.
La guerra di Troia, la più famosa, violenta e luttuosa dell’antichità,
fu combattuta per un fantasma e ciò dimostra che ogni guerra è un errore,
compiuto solo in nome di illusioni che portano lutto, privazione e morte.
Questo è l’appello pacifista che Euripide manda ai regimi democratici
ateniesi, reduci da una terribile disfatta, dopo la spedizione militare in
Sicilia, nonostante avessero preparato perfettamente l’impresa, e avessero
scelto Nicia, lo stratega e il condottiero più competente che Atene potesse
annoverare tra i suoi capi, come guida della spedizione.
Il drammaturgo non riesce a tacere dinanzi agli eventi
contemporanei e il suo merito sta nel coraggio di aver rappresentato, senza
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esitazioni, drammi che criticavano e biasimavano, in maniera palese e
dura, l’imperialismo spietato dei suoi tempi.
“È pazzo chi cerca la gloria a suon di lancia nelle battaglie, è un
modo rozzo di porre fine ai problemi dell'umanità. Se le decisioni vengono
affidate alla lotta di sangue, la violenza non abbandonerà mai le città degli
uomini”. Così il tragediografo ateniese, ai vv. 1151-1157 dell’ Elena,
definisce chi muove guerra sperando di risolvere le controversie, cogliendo
l’assurdo che c’è in fondo al militarismo e le conseguenze nefaste che le
guerre portano a chi le decide ma anche a chi le subisce.
Euripide mostra chiaramente, nelle quattro tragedie del ciclo troiano,
gli orrori della guerra e l’inumano destino dei vinti, inevitabilmente
accompagnati dalla crudeltà e dalla prepotenza dei vincitori. Descrive le
brutalità della guerra iliaca identificandole con quelle della guerra del
Peloponneso, in cui i sentimenti quali la pietà, il rispetto per i vinti, la
moderazione erano scomparsi del tutto e sostituiti da una politica di terrore
fatta di città rase al suolo e di massacri indiscriminati.
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CAPITOLO 1
L’ASSURDITA’ DELLA GUERRA
Nell’analisi delle tragedie del ciclo troiano di Euripide salta subito
all’occhio del lettore il pensiero dell’autore nascosto tra i versi delle opere.
Che il tragediografo greco fosse un pacifista e non un guerrafondaio è
un’ipotesi dichiarata da molti studiosi (da Goossens a Delebecque, da
Labellarte a Di Benedetto) e chiaramente visibile, credo, in alcune parti
delle tragedie che mi appresto ad analizzare.
Questo dunque lo sfondo su cui situare le articolazioni del tema
specifico che è oggetto del mio lavoro.
1. Considerazioni dei vinti
A differenza di ciò che Omero fa nell’Iliade, dove viene data
attenzione tanto ai Greci quanto ai Troiani, Euripide nelle sue tragedie del
ciclo troiano (Troiane, Ecuba, Andromaca ed Elena) dà molto spazio alla
parte dei vinti: le donne Frigie soprattutto avranno una parte dominante
nelle tragedie perché sono le uniche che sopravvivono al massacro di Ilio e
sono proprio loro che porteranno i segni più palesi della guerra, un evento
che sono costrette a subire, che esce dai parametri del giusto e dell’ingiusto
e diviene un motivo luttuoso e causa di privazione totale.
Una guerra che Euripide condanna e ne danno prova le parole che le
sue eroine pronunciano in diversi versi.
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Di certo, come dice Di Benedetto
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, l’esperienza della guerra del
Peloponneso ha provocato un mutamento nella poetica di Euripide. Infatti
le tragedie ed in particolare le Troiane risuonano come un avvertimento di
ciò che la guerra può causare sia ai vinti che ai vincitori, che una simile
esperienza non porta nulla di buono all’umanità ma stende solo un velo di
lutti e privazioni continue. E’come se la voce del poeta si sollevasse a
significazione universale dei mali che può portare la guerra e questo, di
certo, deve essere analizzato anche in base ai fatti che accadevano
nell’Atene del suo tempo, dall’inizio della guerra fratricida tra Sparta e
Atene, nel 431 a.C. , fino alla spedizione contro Melo del 416 a.C., che fu
la prima impresa bellica di Atene a cinque anni dalla pace di Nicia,
stipulata nel 421 a .C. che in teoria avrebbe dovuto riportare lo stato delle
cose così com’era prima dello scoppio della guerra.
Scarcella
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si è soffermato su un concetto interessante: Euripide è un
autore che ha colto l’assurdo che si nasconde in fondo alla forza. Pertanto è
il caso di porci una domanda di fondo: a che cosa è servita la violenza della
guerra e perché?
Seguendo la linea concettuale dello Scarcella, possiamo affermare
che Euripide in un periodo particolare della storia della sua Atene, in cui
appunto abbiamo una ripresa bellica, motivata da una spinta nazionalistica,
coglie la serietà del problema e cerca di affrontarlo tramite la poesia. I suoi
versi vogliono fare riflettere, utilizzando appunto le parole dei personaggi,
sull’insensatezza della guerra. In ragione di ciò occorre riportare un celebre
verso delle Troiane in cui Cassandra grida a gran voce:
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Cfr. V. Di Benedetto, Euripide: teatro e società, Torino 1971 p.223.
2
Cfr. A.M. Scarcella, Euripide e le troadi, Palermo 1952 p. XIV.
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vv. 400-402: “deve dunque evitare la guerra chi è assennato. Ma se uno giungesse a
tanto, corona non turpe per la città è il morire degnamente e indegnamente morire
invece è infamante”.
Qui il personaggio di Cassandra, oltre a gridare il suo sdegno per
una guerra che considera addirittura folle, in realtà ripudia anche un modo
errato di intendere i rapporti di vita: biasima i desideri umani che delegano
alle armi la soluzione dei problemi che non si sono riusciti a risolvere
diversamente o non si è avuto il coraggio di affrontarli in un’ottica diversa,
fino appunto al rifiuto totale della guerra
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. Inoltre inserisce un altro
concetto importante che riguarda il motivo del morire per la patria, per la
difesa della propria città attaccata dai nemici, che risulta a lei essere cosa
più degna rispetto al morire per il dominio e per la conquista di un
territorio.
Secondo Labellarte
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Cassandra afferma sì che gli uomini dotati di
senno devono assolutamente evitare la guerra ma aggiunge, inoltre, che la
guerra e il possesso non abbandoneranno mai del tutto gli uomini e questi
ne faranno ancora uso: per questo è preferibile morire dignitosamente in
difesa delle proprie cose, mentre infamia sarebbe non accettare la morte
con dignità. Cassandra, secondo Labellarte, ha una visione pessimistica
della guerra e mostra anche un’acuta conoscenza degli uomini che,
nonostante ogni accorato invito, tentano e tenteranno ancora la via delle
armi: ed è in questa visione delle cose che la sacerdotessa di Apollo
preferisce subire l’ingiuria piuttosto che portarla, preferirebbe morire
3
Cfr. R. Labellarte, Passato e presente nelle troiane di Euripide: contributo al progetto di costruzione
della pace, Bari 1982 p.53.
4
Cfr. Labellarte, op. cit. p.56.