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INTRODUZIONE
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INTRODUZIONE
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1. Perché questo lavoro.
Giornalisticamente Karol Wojtyła è “il” personaggio totale.
Guida spirituale per i cattolici,
icona di umanità per il resto del mondo».
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la Repubblica, 3 aprile 2005
Qualcuno è giunto a parlare di “diluvio mediatico” per definire la mole di notizie
piovute, rimanendo nella metafora meteorologica, dal cielo gonfio dei media nei tre
mesi durante i quali agonia, morte (e successione) del Papa hanno riempito pagine,
schermi e frequenze dei mezzi di comunicazione.
Come un’onda anomala che si è abbattuta sui cinque continenti, anche in Italia
l’invasione mediatica ha sfiorato il monopolio dei mezzi d’informazione,
raggiungendo il suo apice nei giorni dei funerali del pontefice. Non si corre il
pericolo di esagerare se si definisce il coverage della morte di Giovanni Paolo II
come uno tra i maggiori eventi mediatici del XX secolo. La domanda che in quei
convulsi giorni di peggioramenti e miglioramenti e rincorrersi di flash d’agenzia fino
all’ultimo «Amen», era se non se ne stesse parlando o scrivendo un po’ troppo.
Quella stessa domanda ha ispirato anche la genesi di questo lavoro: quali sono stati
gli effetti, premeditati o meno, di una tale sovraesposizione mediatica e informativa?
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Repubblica 03/02/05, E il circo mediatico assedia Woytjła, P.G. Brera e R. Staglianò, p. 5.
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2. Ipotesi.
In questo lavoro ci occuperemo del trattamento che la stampa quotidiana italiana ha
riservato alla vicenda dell’agonia e della morte di Giovanni Paolo II, dal primo
ricovero al policlinico Gemelli, l’1 febbraio 2005 e, attraverso la parabola della
malattia, sino ai funerali dell’8 aprile successivo e all’elezione del nuovo capo della
Chiesa.
Sono due gli ordini di ipotesi che ci proponiamo di verificare. In primo luogo se
il pontefice sia stato rappresentato e trasformato in un “mito della modernità” e in
secondo luogo se, e in che termini, si possa parlare di “evento mediale” in
riferimento alla copertura giornalistica dell’avvenimento. La divisione del lavoro in
due parti riflette questa distinzione.
Il motivo della duplicità della ricerca risiede nella reciproca importanza delle ipotesi
formulate. Per prima cosa, ciò che si cercherà di verificare è se la rappresentazione
giornalistica, nei due mesi che ne hanno preceduto la scomparsa, abbia contribuito a
tratteggiare attorno al pontefice morente qualcosa in più di un semplice elogio
tributato a un dei protagonisti del Novecento. Nella nostra ipotesi di lavoro,
l’eventuale connotazione mitica di colui che verrà definito Wojtyła “il Grande”,
potrebbe aver funto da ideale sostegno ed eroica esemplificazione ai valori della
cristianità. Gli stessi che saranno poi riaffermati nella celebrazione mondiale dei
funerali. In questo modo l’affermarsi, o il riaffermarsi cristiani attraverso un rito
dalle proporzioni globali, potrebbe essere letto come un modo per affermarsi o
riaffermarsi “occidentali” dopo i tragici fatti dell’11 settembre.
L’evento mediale, è questa la seconda ipotesi, avrebbe favorito nella coscienza
collettiva dell’occidente, e segnatamente dell’Italia, il recupero della propria identità,
ferita dall’attentato alle Torri Gemelle e divisa sul conseguente intervento armato, sia
in Afghanistan sia in Iraq.
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3. Campo d’indagine e metodo.
Il corpus della ricerca è composto dagli articoli riguardanti papa Wojtyła, pubblicati
su Corriere della Sera, la Repubblica e Osservatore Romano nei mesi di febbraio,
marzo e aprile 2005. Corriere della Sera e la Repubblica sono stati presi in esame
essendo i principali quotidiani diffusi a livello nazionale, mentre l’Osservatore
Romano, foglio della Santa Sede, in quanto “parte in causa”.
Su questi verrà condotta una duplice analisi. In un primo momento, attraverso
l’analisi del linguaggio dei quotidiani, indagheremo se la figura al centro di questo
evento, e cioè Karol Wojtyła, sia stato trasformato dallo specchio e dalla lente della
stampa in un mito dell’era moderna. Per questa parte, relativa all’analisi del discorso
mitico, ci serviremo di contributi procedenti dalla psicologia, dalla storia delle
religioni, dalla sociologia e dalla semiotica. In particolare faremo riferimento ad
autori come Joseph Campbell, Mircea Eliade e Roland Barthes.
In un secondo momento, cercheremo di capire perché si possa parlare del
coverage dell’agonia e dei funerali di Karol Wojtyła nei termini di un “evento
mediale”. In questa fase ci appoggeremo alle ricerche condotte da Daniel Dayan e
Elihu Katz, nelle quali l’antropologia della cerimonia e gli studi sui processi di
comunicazione di massa, sono stati utilizzati per indagare le grandi “cerimonie" del
XX secolo celebrate sull’altare dei media. Per Dayan e Katz, eventi come le
Olimpiadi, lo sbarco sulla Luna e i funerali di Kennedy o Lady “D” non si
esauriscono nell’essere “semplicemente” avvenimenti che coinvolgono centinaia di
milioni di spettatori in tutto il mondo, ma sono ascrivibili e riconducibili a pattern
narrativi ben definiti che veicolano determinati sensi e assolvono a precise funzioni.
Nella nostra ipotesi questi pattern o modelli sono rintracciabili anche nel racconto
giornalistico dei funerali di Giovanni Paolo II, primo pontefice ad essere vissuto, e ad
essere scomparso, nell’era della comunicazione globale e globalizzante.
L’inserimento dell’ Osservatore Romano nel corpus della ricerca è dovuto non
solo al fatto che ci occuperemo del Papa, ma anche perché le sue pagine sono lette
con particolare attenzione dai governi del mondo intero. La Chiesa è una potenza
culturale e politica, oltre che religiosa, presente in tutti i continenti, e
l’avvicendamento alla sua guida rappresenta senza dubbio un tema di grande impatto
internazionale, anche per le ricadute geopolitiche che ne possono scaturire.
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PARTE I
Wojtyła: dall’uomo al mito
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PARTE I, Capitolo 1 - 1. Miti di comunicazione di massa.
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CAPITOLO 1
1. Miti di comunicazione di massa.
In epoca di globalizzazione parlare di “mito” e dei suoi riflessi sulla società e sui
mezzi di comunicazione di massa può sembrare tutt’al più un esercizio di banale
retorica. La parola mito ci rimanda inevitabilmente col pensiero alla Grecia degli eroi
cantata da Omero o a quelli dell’antica Roma giunti fino a noi nei racconti di Ovidio
e Virgilio, anche se ogni società del passato elaborò i propri sistemi mitologici
(quelli mesopotamico, egizio, etrusco, sassone e scandinavo sono solo alcuni), alla
narrazione delle esistenze straordinarie di dei e semidei e a quella delle loro gesta
eccezionali. Ma occuparsi e riflettere sul mito non è cosa tanto semplice.
Il mito, infatti, è qualcosa di estremamente complesso che non si presta ad
essere ridotto a pochi ed essenziali elementi. La società contemporanea ha cercato di
comprenderlo, sforzandosi di imbrigliarne la portata, l’importanza e lo spessore
teorico, col rischio però di finire nell’ovvio e nei luoghi comuni. Non estraneo a
questo atteggiamento è stato (ed è), il desiderio di evitare i messaggi inquietanti, per
il pensiero e la sensibilità attuali, di cui il mito è veicolo. In nome di queste
inquietudini, si è scelta la via di considerare il mito come una narrazione, a seconda
dei casi, più o meno articolata, prodotta in sostituzione di un’inesistente struttura di
pensiero. Tale struttura di pensiero altro non sarebbe che la scienza. Ne consegue che
il mito è stato progressivamente considerato niente più che una favola, dal punto di
vista letterario raffinata o rozza, collocata nella fase pre-scientifica dell’umanità. Al
pari di una narrazione per bambini, in questa fase il mito avrebbe avuto il compito di
spiegare ciò che, altrimenti, non sarebbe stato comprensibile per uomini non ancora
“illuminati” dalla luce della ragione: per dirla brutalmente, non ancora evoluti.
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Con
ciò il mito verrebbe a qualificarsi come pre-moderno consegnando, nella nostra
epoca, il suo studio al puro interesse storico, folklorico, antiquario, erudito, letterario.
Ovviamente, ciò non equivale a dire che il mito è il frutto di una obsoleta cultura di
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Sono qui riassunte le riflessioni di Gian Vincenzo Gravina e Giambattista Vico, che nel
corso del ‘700 animarono il dibattito letterario sul mito. Le tratteremo in maniera più
approfondita nel paragrafo 3.2, al quale rimandiamo.
PARTE I, Capitolo 1 - 1. Miti di comunicazione di massa.
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uomini e di popoli, inidonei ad organizzare razionalmente la realtà, né che possa
essere considerato come il surrogato storico della scienza o un “prodotto”
sciamanico. Il mito è infatti stato oggetto di studio per numerose discipline
(dall’antropologia alla psicanalisi alla storia delle religioni) le quali, attraverso
meticolose ricerche e la comparazione dei differenti corpus mitologici, sono
lentamente giunte a definirne i contorni ed il concetto. Se inizialmente, come
abbiamo detto, esso era concepito come un prodotto dell’immaginazione di
un’umanità ancora ingenua circa fatti inesplicabili e misteriosi, è andata via via
affermandosi l’accezione più popolare del mito, inteso come falsità o inganno.
Ma la semplicistica assimilazione del mito alla bugia e alla menzogna, conduce
inesorabilmente alla sua svalutazione. Esso, al contrario, può rappresentare
un’importante risorsa e fonte di conoscimento sociale e culturale. Un punto di vista
magari inusuale, ma in un certo qual modo privilegiato, dal quale osservare la
società. Lo si può infatti leggere come una Weltanschauung (una visione del mondo)
in grado di offrire la percezione immediata e simpatetica della realtà, in un quadro
coerente e logico nel quale non vi è (come vedremo) reale opposizione tra intuizione
e ragione, tra mythos e logos, ma, al contrario, si assiste alla loro piena e completa
fusione. In questa prospettiva, si può considerare dunque il mito come un “racconto
fondante” che, mentre consente di percepire e comprendere la realtà come un tutto
coeso, animato e vivente, vi inserisce a pieno titolo l’uomo, senza che questo ne
risulti schiacciato.
Il pensiero mitico, non è dunque rimasto relegato, come si potrebbe pensare,
negli abissi della storia dell’umanità, poiché il suo portato e la sua eredità continuano
a permeare il nostro presente, i nostri comportamenti, le nostre credenze. E nel nostro
presente, diversamente dal “presente” di venti, trenta, o cinquant’anni fa, la
comunicazione e i mezzi di comunicazione di massa occupano un posto oramai non
più trascurabile. Un presente nel quale le vicende eroiche trovano sempre meno
ospitalità, come invece accadeva in passato, nei racconti che popolano la cultura
orale, per altro ormai al tramonto (assieme alle “lucciole” pasoliniane), mentre con
sempre più facilità attecchiscono nel fertile humus dei mass media.
Basti pensare ai numerosi modelli mitici proposti attraverso i personaggi di
celluloide o dei comics. Come Superman, il celeberrimo eroe dei fumetti – a cui
Christopher Reeve ha prestato il volto nel grande schermo –, che altro non è se non la
PARTE I, Capitolo 1 - 1. Miti di comunicazione di massa.
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rivisitazione in chiave moderna dell’antico eroe mitologico: un personaggio dai
poteri prodigiosi che vive sulla terra sotto le modeste spoglie di un giornalista timido
e impacciato. Superman rappresenta un mito che soddisfa le nostalgie segrete
dell’uomo moderno, ovvero il sogno di un riscatto eccezionale, eroico, da una vita
piatta e monotona.
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Ed è proprio questo stato d’insoddisfazione, tanto diffuso nella
frenesia della società contemporanea, che attraverso i mass media trova succedanei,
sublimazioni e compensazioni nelle figure mitico-eroiche di star, personaggi del
cinema, del teatro, dello sport e della politica, le quali sembrano riprodurre,
attualizzandole, passioni, scontri, amori e separazioni degne di antichi pantheon.
Nelle società cosiddette “avanzate”, i mezzi di comunicazione si sono convertiti
nei nuovi mentori e mitologi della cultura moderna e l’importanza che hanno nella
formazione e nel mantenimento di credenze e valori sul mondo che ci circonda, è
paragonabile a quella che nel passato avevano la religione o l’arte. «Nessuno al
giorno d’oggi mette in dubbio il ruolo dei mezzi di comunicazione come nuovi
mitologi. Dalla pubblicità alle fiction, dal cinema alla stampa, il mito trova spazio
nella nostra cultura e vi si adagia, formando parte della nostra vita e, in molte
occasioni, occultandone il senso reale».
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I media si convertono così in eco e specchio
di temi tradizionali e immortali, e allo stesso tempo contribuiscono a creare e
rivitalizzare vecchi e nuovi miti. Oggi «i nuovi eroi, dei e semidei del mercato,
regnano nell’audience come un tempo regnavano nell’Olimpo».
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Ciò è espressione, se vogliamo, del riemergere di quella sfera immaginaria, sensibile,
emotiva, intuitiva ed arcaica che l’affermarsi dei “lumi” e della razionalità aveva
contribuito a rimuovere. In questa linea, è interessante notare come proprio tramite
i mezzi di comunicazione si diffondano opinioni, convinzioni ed idee a prima vista
bizzarre, ma in realtà altamente (e miticamente) significative. Esse presentano un
vasto ed articolato campo d’azione che va dalla politica allo sport, dall’economia alla
quotidianità e il loro contenuto mitico è evidente. Ne è un esempio la convinzione
che si sta diffondendo nel mondo arabo che la tomba di Arafat sia vuota e che il
defunto rais palestinese si faccia vivo per ridare una guida al suo popolo,
3
ELIADE 1965, p. 208.
4
MARCET, MURILLO, EZPELETA,VIZUETE 2004, p. 17
5
CUETO 1982, P. 5.
PARTE I, Capitolo 1 - 1. Miti di comunicazione di massa.
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riproducendo in questo la mitica figura del sovrano-salvatore che condurrà alla
vittoria il popolo stanco e deluso.
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Ma nella stessa direzione si situa, ad esempio, anche il vero e proprio delirio mitico
che accompagna gli eventi sportivi e, particolarmente, il calcio, in cui in un
crescendo allucinatorio un pubblico disaggregato ed individualistico ritrova una
sua (momentanea) e tribale unità nella comunità che si crea sugli spalti degli stadi.
Comunità in cui si riproduce una partecipazione quasi mistica, che rinsalda quel
senso di identità che la nostra società ha perduto, o frettolosamente risolto, nel
consumo.
Non diversamente va poi considerata l’affannosa ricerca nella pubblicità, nei film,
nell’iconografia, negli avvenimenti mondani (ad esempio, lo sfortunato caso di Lady
Diana) di immagini eroiche che mostrino, velatamente, la centralità dell’archetipo
dell’eroe nella dinamica della vita quotidiana.
Certo il mezzo audiovisuale, ed in particolare il grande schermo, è l’alcova del mito
per antonomasia. James Dean, Marylin Monroe, Audrey Hepburn, Humphrey
Bogart, Clark Gable, sono solo alcuni dei nomi che dopo essere scesi nel “nero
amniotico” della sala cinematografica, ne sono riemersi rigenerati, trasformati e
offerti al pubblico come dei miti. Lo racconta Edgar Morin ne Le star: erano gli anni
Cinquanta quando il glamour, il distacco e la dimensione onirica e fiabesca facevano
di attori e attrici personaggi irraggiungibili, veri e propri “eroi di celluloide”. Le
stelle hanno la doppia naturalezza degli eroi mitologici: mortali aspiranti
all’immortalità» scriveva Morin. «Durante il film lottano, soffrono, agiscono e
salvano. Fuori dal set conducono una vita di piaceri e distrazioni riservate agli eroi
dopo la morte».
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6
La notizia è comparsa in un articolo de il Corriere della Sera (giovedì, 18 novembre 2004,
p. 8) di F.Battistini e G. Olimpio titolato La morte di Arafat: il segreto diventa giallo.
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MORIN 1957, p. 82. Nel libro Le star, Edgar Morin ha realizzato un percorso storico sulla
creazione e la successiva evoluzione dei miti cinematografici. Investigando il significato
sociale e culturale dello star system ne ha tracciato l’evoluzione dagli esordi del cinema,
quando stelle come Chaplin, Greta Garbo o Valentino vivevano a distanza dei loro
ammiratori, al di sopra dei comuni mortali, fino al dopo guerra quando i divi, come
Humphrey Bogart e Marilyn Monroe divennero più familiari e meno inarrivabili,
concludendo con un’analisi della furiosa adorazione religiosa che si è sviluppata attorno
alla vita e alla morte di James Dean. Morin conclude sostenendo che le stelle del cinema
siano più che delle semplici creazioni degli studios americani e che fungano invece da
intermediari tra il reale e l’immaginario.