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questo silenzio divino, nel versante neheriano, si pone come risposta alla celebre
“Morte di Dio” nietzschiana. Parallelo al silenzio di Dio è anche L’eclissi di Dio,
che anima questa ricerca su Neher come punto di riferimento costante e continuo.
Questo confronto col divino, lungi dall’eclissarsi perché Dio è morto, rimane
continuamente nel pensiero moderno. Ciò appare ancora più vero se il nostro
tempo viene definito come l’epoca in cui Dio è assente e mancano insieme Dio e
la parola.
Ed appunto il silenzio e la parola sono la componente essenziale della riflessione
neheriana. Riflessione dovuta, necessaria, per un pensiero, quello ebraico, che più
di tutti gli altri ha dovuto fare i conti col novecento. Auschwitz, in tale ambito, è
significativo perché è un elemento di “cesura epocale”, in quanto segna la fine,
non certo dell’ebraismo, ma di un intero paradigma: l’assimilazione. Non certo
una “olocaustologia
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” che aspiri a sostituire la teologia, ma sicuramente la Shoa
diviene, nella riflessione di Neher, lo shibbolet tra pensiero ed esistenza, perché
elemento paradigmatico di quell’eclissarsi divino, di quel tzimtzoum intriso di
silenzio, che richiama alla corresponsabilità umana. Non solo l’eclissi della luce
di Dio non è il suo estinguersi, perché già domani ciò che si è frapposto potrebbe
ritirarsi, ma è anche il luogo privilegiato dell’uomo nel senso profetico, e
messianico: se Dio è, o sembra, assente dalla Storia, compito dell’uomo è mettersi
al posto di Dio: al suo silenzio deve corrispondere la parola umana.
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La riluttanza all’uso del termine “olocausto” è superata dal fatto che l’introduzione di tale
termine è stata ad opera di Wiesel nella “Notte”.
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Nell’orizzonte di Neher il silenzio e la parola non sono unilaterali, ma acquistano
tutto il loro senso pregnante nella misura in cui essi sono dialogici. Di più, la
Storia è il luogo dove Dio e uomo apprendono che o si cresce insieme, imparando
a capire anche i reciproci silenzi, o è destino non incontrarsi mai, mancarsi
reciprocamente. Essa è il luogo della suprema passione in cui il destino di “questi
due esseri” sembra inestricabilmente intrecciato. In nuce alla Ketouba stabilita
nella Creazione, radicale appare l’idea per cui se Dio e uomo non si incontrano,
ciò è un fallimento per entrambi.
Le categorie supreme di silenzio e parola appaiono allora come l’orizzonte ultimo
dove si gioca la Storia, intesa non come mera successione di fatti, ma come luogo
dove Dio e mondo, fisico e metafisico, contingente ed assoluto, sono intrecciati
l’uno nell’altro con la forza simultanea e costrittiva delle loro irriducibili
contrarietà.
Tale dialettica, quindi, serve a Neher non solo per mostrare una storia fatta di
equivoci tra i due “partner”, costantemente in anticipo l’uno sull’altro, ma
soprattutto per sottolineare all’uomo la sua “libertà creativa”, non nel senso di una
libertà anticamente, ed indebitamente, trasferita alla divinità, quanto una “libertà
dialetticamente legata al silenzio”. In realtà ciò che sta a cuore a Neher non è tanto
il silenzio di Dio, quanto la libertà dell’uomo che da quel silenzio consegue.
Da questa visione sembra rinforzata una idea particolare di messianismo, che nelle
parole di Neher assume sempre più i contorni di un umanismo dai risvolti
universali. Non figure mitologiche religiose salvifiche, ma l’opera dell’uomo deve
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essere la risposta all’insicurezza data dalla creazione, e al presunto, o vero,
silenzio di Dio nella Storia.
Preliminare al discorso prettamente biblico, ho voluto affrontare nel primo
capitolo la questione dell’identità ebraica. Non in senso risolutivo, dato che, in
Neher, le sue riflessioni sull’argomento sembrano non concludersi. In continuo
confronto con il mondo cristiano, di cui ne denuncia l’elaborazione di “false
chiavi” rispetto all’ebraismo, egli sembra rimanere impigliato in una duplice
posizione: da una parte si muove sulle orme di Rosenzweig, per il quale vi era
l’esigenza di essere riconosciuto, in quanto ebreo, dal cristiano, lasciando così
trasparire l’idea che le due religioni, per quanto siano differenti, siano
complementari; dall’altra assume la netta presa di posizione per cui il cristiano è
perfettamente indifferente all’ebreo, perché la relazione con quello rappresenta
semplicemente una variante delle relazioni interumane.
Complementari alle riflessioni sull’identità ebraica sono le particolari concezioni
che in essa si hanno del tempo, quale elemento essenziale inerente all’ebraismo,
tanto da portare Neher a lunghe disquisizioni circa le sue dimensioni sincroniche e
diacroniche.
Il secondo capitolo è incentrato sulle categorie generalissime di Neher: il silenzio
e la parola, momento fondamentale della relazione tra Dio e uomo. L’avventura
biblica si presenta non solo nella tradizionale veste di “fenomenologia della
parola”, ma anche, e soprattutto, come “fenomenologia del silenzio”, inteso come
metodo comunicativo più importante, o perlomeno più efficace. In quanto il
silenzio divino richiama alla responsabilità, intesa come compartecipazione
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all’opera della creazione, ecco la lettura biblica “a partire da Auschwitz”: dove
Dio sembra assente dalla Storia, dove sembra essere “maledettamente in ritardo”,
tocca all’uomo farsi trovare in anticipo. Egli deve avere cioè la capacità di essere
profeta, nel senso di portatore (ivri) della parola, anche quando questa viene
“dimenticata” dall’altro partner.
L’idea che Neher vuole qui mettere in luce è che questo rapporto tra divino e
umano, costituito dalla Storia, debba essere a pari merito sia una teologia umana
che un’antropologia divina. È nell’equilibrio di queste due componenti che si
rivela il necessario rapporto dialogico, dove le categorie di silenzio e parola
vengono inserite in uno schema quadripartitico.
In quest’ottica anche a “partire da Auschwitz”, anche dal suo fallimento può
scaturire la speranza. Anche durante l’eclissi divina l’uomo è richiamato alla sua
eticità, intesa come azione con-creatrice.
Il terzo capitolo è dedicato alle figure bibliche più significative in questo discorso,
e che pertanto pongono al limite il rapporto tra Dio e uomo. Sono i cosiddetti
episodi della prova dove sempre si rischia una “rottura delle relazioni
diplomatiche” tra i due partner. Le figure di Abramo, Giobbe, Giona ed Ezechiele,
rappresentano la sintesi dell’evolversi e il maturare dell’avventura dialogica
iniziata sotto il segno di una pesantezza organica in cui la parola è, all’inizio,
ancora chiusa in se stessa. Occorrerà un lungo periodo per l’apprendimento della
comunicazione da parte dei due partner, segnato da continui incontri-scontri in cui
il dabar (la parola) si schiuda e si apra, divenendo capace di creare ciò che Neher
chiama i tre dialoghi: orizzontale, verticale e diagonale.
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Con la parola responsabile inizia così la Storia, il vero e proprio esodo umano, in
cui l’uomo diviene capace di divenire con-creatore, di proseguire da solo, di
“camminare avanti” con il rischio di voltarsi e non scorgere più Dio, e quindi
percepire un Dio scomparso. Neher vede in questa disparità di ritmo, la pro-
vocazione umana, che non è mai centrata sull’incontro, e richiama ad un divario.
Tra i due ritmi di cammino si può individuare il silenzio. Ecco allora una delle
chiavi interpretative bibliche assunte da Neher: le chiavi del messianismo non
sono in cielo, ma nella faticosa opera dell’uomo. In tal senso all’opera umana,
l’uomo è necessariamente aggiogato da solo. Dio non realizza l’opera
sostituendosi all’uomo.
Questi ha ormai acquisito la dignità di vero e proprio partner, perché
nell’insicurezza radicale, che caratterizza la creazione ed informa la storia, si
scorge il frammento divino che è nelle mani dell’uomo.
L’ultimo e quarto capitolo intende affrontare il rapporto tutto particolare di Neher
con l’ambito filosofico. Quasi a denunciare l’eccessiva supremazia del pensiero
occidentale come derivante da quello greco, egli tenta di rivalutare la dignità di
Gerusalemme. Non che egli intenda rivaleggiare con Atene, ma, abbastanza
polemicamente, egli sottolinea ed evidenzia come il pensiero ebraico si
contrapponga a quello greco. Il pensiero ebraico, legato essenzialmente alla
matrice biblica, si configurerebbe come vera e propria “filosofia della storia”.
L’elemento storico sarebbe il contributo più fecondo dato dal pensiero ebraico al
mondo. Il pensiero greco, invece, avrebbe privilegiato la riflessione sull’essenza,
sulla scia di un pensiero spazialmente geometrico, rimanendo vittima della visione
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della ciclicità, proprio perché il tempo viene a desumersi dallo spazio, più
precisamente dall’astrologia.
Insito nel pensiero greco, e Neher qui si richiama sostanzialmente al pensiero
platonico ed aristotelico, è la concezione della negatività della temporalità. Il
tempo è elemento di usura, appartiene solamente alla natura effimera, contro la
stabilità della natura e del cosmo, universo ordinato e immutabile. Il tempo,
insomma, non può generare nulla e non è fonte di progresso.
Nel pensiero biblico, invece, il tempo, la storia, ne costituisce il punto essenziale.
Ciò è espresso nel concetto di Alleanza (la Berit) e della profezia. In antitesi alla
ricerca dell’essenza, viene, qui, privilegiata l’esistenza, data nel tempo. Con il
rifiuto dello spazio – e di ciò il nomadismo e il levitismo ne costituiranno
l’incarnazione storica – la Bibbia ha eretto il tempo dell’uomo come una storia
unica, feconda, debordante di significato e capace di mettere in causa il destino
dell’uomo stesso.