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INTRODUZIONE
Il contatto maggiore fra la nostra realtà e quella del mondo
fiabesco è dato dal cibo. Anche quando è orripilante o disgustoso,
rimane comunque un sottofondo, che consente un certo intenso
legame fra noi e loro. La citazione del cibo permane sempre, anche
perchØ l’ascoltatore o il lettore desidera poter contare su un punto di
riferimento plausibile, che aiuti a digerire anche le assurdità del
racconto principale. Spesso la sventura che dà origine al racconto è
legata alla mancanza di cibo: le fiabe sono affollate di padri che non
sanno come sfamare i figli, di madri che, con crudele realismo, ne
propongono l’allontanamento dalla famiglia; di poveri che chiedono
un tozzo di pane, di viandanti in cerca di osterie, di occhi affamati, di
streghe voraci, di re mangioni. Fame ed eccessi gastronomici
rappresentano, nella realtà e, dunque, nelle fiabe, due poli opposti
dell’esistenza. Questo rapporto così intenso, praticamente inscindibile,
ha suscitato il mio interesse, perchØ la realtà e la fiaba si congiungono
nella rappresentazione del cibo ed insieme evolvono, si modificano
l’uno con l’altro, si autoinfluenzano. “L’uomo è ciò che mangia”,
scrisse quasi centocinquanta anni fa il filosofo Ludwig Feuerbach, ed
il suo aforisma ebbe una straordinaria fortuna, fin quasi a diventare un
luogo comune. La questione è che la simbiosi uomo/cibo non è,
infatti, unilaterale, nØ di natura semplicemente meccanica. Ogni
comportamento alimentare ha un valore, un senso ben preciso. Ogni
alimento è un discorso, una comunicazione a se stessi e agli altri. Quel
valore, quel senso nasce talvolta dal cibo, ma è sempre legato alla
cultura degli uomini che, insieme, lo consumano. La loro cultura è in
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quel cibo, in quel consumo, per cui l’aforisma di Feuerbach può anche
essere invertito: “L’uomo mangia ciò che è”, i valori ed i simboli che
ha costruito attorno al cibo, di cui lo ha caricato.
La mia è un’indagine storica ed antropologica, ma anche
psicologica e sociologica, che mi condurrà ad approfondire la
dimensione culturale del cibo e del consumo alimentare, attraverso
l’analisi delle fiabe. Quelle classiche e quelle moderne. Quelle con il
cibo e quelle sul cibo. In ogni caso, fiabe. Quando si raccontano fiabe
ai bambini, infatti, essi s’identificano con immediatezza e genuinità,
accogliendo tutto il sentimento contenuto nella storia. La storia opera
proprio così, offrendo un modello vitale, incoraggiante, vivificante,
che agisce dall’inconscio, riportando alla memoria tutte le possibilità
positive di vita. Tra gli aborigeni australiani esiste una bella
consuetudine: quando il riso non cresce bene, le donne vanno nel
campo, si accovacciano tra il riso e gli raccontano il mito della sua
origine. Allora il riso comprende di nuovo perchØ è là e riprende a
crescere. Questa probabilmente è una proiezione della nostra
situazione di lettori e di narratori. Se comprendiamo il mito, torniamo
infatti a comprendere anche le ragioni della nostra vita, muta l’intero
nostro stato d’animo nei riguardi della vita e, talvolta, perfino la nostra
condizione fisica. La caratteristica particolare delle storie, però, sta nel
fatto che si rivolgono ai lettori usando il loro stesso linguaggio,
adottando un ordine di giudizio basilare nell’esistenza, la distinzione
rassicurante tra Bene e Male. Proprio per queste caratteristiche, che
fanno vivere la fiaba in sintonia con il mondo infantile, essa acquista
aspetti di verità e ciò che vi è narrato viene recepito come esperienza
interiore. Nelle fiabe è simbolizzata la natura problematica della vita
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ma esse non suggeriscono niente, spingono piuttosto a comportamenti
concreti attraverso l’identificazione con i personaggi ai quali si vuole
assomigliare. Le fiabe non dicono cosa si deve fare ma chi si vuole
essere. Eppure sono imbevute dell’umore della gente e della terra in
cui si sono sviluppate, ne riflettono il modo di vivere, di lavorare, di
parlare e, naturalmente, di mangiare. La fiaba assorbe inevitabilmente
qualcosa del luogo e del tempo in cui è raccontata e quanto piø è
imbevuta di questo qualcosa tanto piø si può collocare in un luogo e in
un tempo o in un altro.
Nel primo capitolo di questo lavoro ho deciso di riferirmi alla
fiaba popolare europea e alle sue tematiche, che hanno poi condotto
alla produzione delle cosiddette fiabe classiche d’autore. Maestri delle
fiabe, quali Giambattista Basile, i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm,
Hans Christian Andersen, Charles Perrault, ma anche Aleksander
Afanasjev e William Yeats. Il patrimonio fiabesco è vastissimo e le
storie, che solo eccezionalmente si dilungano in descrizioni di tipo
gastronomico, sono tuttavia assai ricche di riferimenti che riguardano
il cibo: la gastronomia vi è presente in maniera diffusa come sostrato
permanente, evocato ora da un profumo, ora da un sogno, ora da un
bisogno. I menø proposti, quindi, sono praticamente infiniti. La fiaba
tradizionale, però, analizzata da questa prospettiva alimentare,
diventa irrimediabilmente anche fonte storica, per questo ho ritenuto
necessario trovare conferma alle citazioni fiabesche nell’opera di
antropologi, come Giuseppe Cocchiara e Piero Camporesi, che bene
hanno indagato il substrato socioculturale europeo e soprattutto
italiano.
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Nel secondo capitolo mi sono concentrata su alcune storie
italiane, scritte da penne innovative ed accattivanti come quelle di
Collodi, Vamba e Yambo. Pinocchio, Gian Burrasca e Mestolino,
protagonisti delle loro opere, vivono e palesano un rapporto
totalmente rinnovato con il cibo. La fame che sperimentano, infatti,
diventa motivo di fuga e di ribellione, dallo status quo, ma anche dalle
costrizioni tipicamente imposte all’infanzia. Costrizioni che sono
anche alimentari. L’analisi di queste storie offre l’ occasione di una
riflessione sui primi tentativi di rappresentazione dell’infanzia ribelle
e su come questo nuovo soggetto letterario si faccia veicolo
dell’insofferenza esistenziale, ma anche alimentare. Mentre il rifiuto
del cibo diventa metafora delle tendenze sovversive che percorrono il
mondo borghese e il panorama delle letteratura per l’infanzia, invece
la fame costante è manifestazione del desiderio di cambiare, di uscire
dal modello infantile imposto e di maturare, di crescere.
Nel terzo capitolo ho preferito concentrarmi su alcune storie
straniere nelle quali ho riscontrato una presenza ed un utilizzo
particolare del cibo. In Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis
Carroll, nelle storie di Roald Dahl e nella saga di Harry Potter di J.K.
Rowling, infatti, il cibo assume un carattere magico e simbolico del
processo di crescita e di evoluzione della storia. Le trasformazioni che
Alice subisce nel corso del racconto sono spesso dovute
all’assunzione di cibo. Queste trasformazioni, che comportano delle
modifiche del corpo di Alice ci permettono una riflessione sul bisogno
di crescita e, nel contempo, del mantenimento della propria identità,
sull’essere in balia dei cambiamenti, sul non accettare la
trasformazione. L’alimentazione è spesso correlata alla stabilità
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emotiva, soprattutto nei bambini. Nei libri di Dahl sono sistematici i
riferimenti al cibo, in particolare alla cioccolata, come riempitivo della
vita affettiva. L’analisi, soprattutto de La fabbrica di cioccolato ci
permette una riflessione sui cibi e l’affettività, sulla soddisfazione del
bisogno di sicurezza e sull’inscindibilità della triade
cibo/amore/sicurezza. Nei testi della Rowling, infine, il riferimento al
cibo costituisce uno dei legami piø forti tra il mondo magico e quello
reale, ma è un cibo che subisce comunque un’alterazione magica.
Dall’analisi dei testi si sviluppa una riflessione sul significato del cibo
nel substrato potteriano e sui significati magici attributi al cibo nella
cultura popolare.
Nell’ultimo capitolo ho riportato ed indagato la situazione
narrativa attuale. A partire dal secondo dopoguerra si è generata una
consistente modifica del modello alimentare, che ha determinato un
cambiamento nell’interpretazione e nel rapporto con il cibo. A
prevalere non è piø il sentimento di mancanza, ma quello di
abbondanza, che comporta l’attribuzione di significati diversi
all’esigenza dell’alimentazione. Tramite l’analisi dei testi sarà
possibile individuare l’evoluzione dello stile alimentare, azione
sostenuta anche dalla saggistica socio-antropologica, ma anche
psicologica sull’argomento. Questa particolare dinamica risulta essere
valida e verificata non solo nella letteratura italiana, ma anche in
quella anglo-americana e in quella francese. In un costante
parallelismo con la produzione per l’infanzia cercherò di dimostrare la
progressiva apertura delle tematiche alla diversità alimentare e ai
disturbi alimentari. E’ sempre piø frequente, infatti, l’insorgenza di
patologie della sfera alimentare in età evolutiva, cosa che comporta
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anche un’azione di prevenzione che passa attraverso le storie moderne
sul cibo. L’ultima analisi si concentra su una serie di titoli, destinati ai
bambini dai 2 ai 6 anni, reperiti presso la biblioteca Gianni Rodari di
Campi Bisenzio, specializzata in letteratura per l’infanzia ed unica in
Italia. Albi e racconti illustrati correlati alla tematica
dell’alimentazione e del cibo, che dimostrano come la
rappresentazione e l’interpretazione di questo argomento abbia subito
una cospicua modifica nel corso degli ultimi anni.
Obiettivo del presente lavoro è quello di dimostrare come il
cibo costituisca uno dei motivi ricorrenti nella letteratura per
l’infanzia e come, per questo motivo, subisca sistematici mutamenti
rappresentativi, mano a mano che si modificano le condizioni socio-
culturali ed il panorama letterario. In quanto elemento concreto
nell’ambito dell’invenzione narrativa, il cibo diventa strumento per
veicolare significati e metafore della società rappresentata da queste
storie. La sfera alimentare, infatti, è costantemente ribadita nella
letteratura per l’infanzia, perchØ essenziale ed imprescindibile
nell’esistenza dell’individuo, creando un legame durevole e
sistematico tra il cibo del corpo ed il cibo della mente.
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CAPITOLO PRIMO
Il cibo nelle fiabe popolari e d’autore
1.1. Fiaba come immagine della società
La fiaba. Probabilmente nessun altro capitolo della letteratura per
l’infanzia è così pervaso da malintesi come quello della fiaba. Nella
maggior parte delle discussioni riguardo quest’ argomento anche i
pregiudizi iniziali sono sbagliati. Un gran numero di persone usano
male il termine fiaba, trattano ogni tipo di fiaba nello stesso identico
modo, facendo d’ ogni erba un fascio, e vanno a mescolare ciò che
assomiglia alla tradizione folcloristica con ciò che ha origine dalla
cultura popolare. Eppure i vari tipi di fiabe popolari hanno funzioni
assolutamente diverse e quindi sono recepiti in maniera del tutto
diversa. I differenti adattamenti e le varie versioni riflettono spesso le
ossessioni psichiche e regressive degli autori, perchØ la fiaba è anche
l’espressione piø pura e semplice dei processi psichici dell’inconscio
collettivo. Le fiabe rappresentano gli archetipi nella forma piø
semplice, piø genuina, piø concisa ed in questa forma piø immediata
sono offerti al lettore gli indizi migliori per comprendere i processi
che si svolgono nella psiche collettiva. Il materiale culturale di cui si è
pienamente coscienti è presente in misura molto minore rispetto ai
miti o alle leggende, per questo le fiabe riflettono in maniera piø
chiara ed immediata i modelli fondamentali della psiche, e la migliore
spiegazione di una fiaba è la fiaba stessa. Le fiabe, quindi, riportano
l’inconscio, quello collettivo che però diventa tale solo nel momento
in cui non recupera solo un modello di pensiero, ma anche
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un’esperienza emotiva individuale. La fiaba è viva e dotata di senso
solo se possiede un valore emotivo e sentimentale per l’individuo e
potremmo comprendere questo solo nel momento in cui saremmo a
conoscenza dei problemi connessi alla narrazione delle fiabe e se
conoscessimo le aspettative degli ascoltatori. L’unico modo per capire
veramente i testi, quindi, è quello di risalire alla situazione originaria
della loro narrazione, poichØ solo in quel modo la loro funzione
diventa evidente. Immaginiamo una situazione di narrazione tipica. Da
una parte vi è il pubblico, piccolo o grande che sia, con le sue
aspettative, e dall’altra c’è il narratore, con il suo repertorio, la sua
abilità di narrazione e la sua comprensione delle aspettative degli
ascoltatori. E poi cosa succede? Secondo Walter Scherf:
Se consideriamo i risultati delle registrazioni di favole in Europa,
vediamo che predominano la Sage e lo Schwank: la favola demonica o
“numinosa” da una parte, le storielle facete dall’altra. La funzione di
queste ultime è di prendere di mira gli istinti umani e le inclinazioni
che da essi dipendono: l’avarizia, la gelosia, la stupidità, la follia, la
lussuria, l’ingordigia. Gli schemi rigidi di comportamento vengono
raffigurati in maniera realistica e drastica. L’uomo viene ritratto
secondo le sue manie e ossessioni, e queste manie e queste ossessioni
vengono portate ad absurdum facendo scattare il riso. Per “maniera
realistica” intendo che le manie vengono smascherate realisticamente,
ma chi ne è succube viene raffigurato soltanto come tipo caratterizzato
da tali inclinazioni. […] Se i conflitti personali degli ascoltatori non
fossero altrettanto forti e della stessa natura di quelli di questo
personaggio, queste storielle facete non avrebbero pubblico, nØ
sarebbero state tramandate da una generazione all’altra per millenni.
2
A questo punto è lecito chiedersi perchØ la fiaba, e soprattutto quella
popolare, riporta la realtà? PerchØ semplicemente non si limita a
ricreare un mondo fittizio che esuli completamente dalla realtà? La
riposta è che la fiaba può e deve rispecchiarsi nella realtà, necessita di
trovare legittimazione nel mondo reale, poichØ, al contrario, verrebbe
2
W. Scherf, Conflitti familiari ed emancipazione nella favola, in a cura di F. Butler, La grande
esclusa, Milano, Emme Edizioni, 1978, p. 94.
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meno alla sua funzione sociale. Proprio come si trattasse di un dipinto
o di una scultura, la fiaba popolare è un nascondiglio di informazioni
ed è fonte inesauribile di osservazioni, anche minuziose, sulla società
del passato, sui costumi e sui valori che quella determinata società
aveva fatto propri. Possiamo, per questo, affermare che la fiaba può
essere considerata un documento, sia dal punto di vista storico sia dal
punto di vista antropologico. Si tratta di immagini che hanno
certamente subito il fluire del tempo, che sono state oggetto di piccoli
aggiustamenti nella loro tradizione orale, attraverso centinaia e
centinaia di anni, eppure l’ambientazione che, nella fiaba, fa da sfondo
alla storia, in maniera inevitabile fa trapelare l’immagine sociale, il
contesto allargato, i tanti aspetti della vita e delle relazioni umane che
connotavano la società di quel tempo. La sapiente opera di limatura,
che le ha fatte diventare un capolavoro letterario unico e che le ha rese
così profondamente terapeutiche, non ha toccato in maniera
significativa l’ambientazione in cui sono nate. Ed è quell’immagine,
talvolta così precisamente affrescata, che noi possiamo, oggi, ricavare
un quadro tanto esauriente di epoche precedenti e notevolmente
diverse dalla nostra epoca attuale. Sulla base di questa tendenza che
percorre in maniera generica tutta la fiaba, appare evidente che un
determinato cibo contrassegna una situazione economica e sociale con
maggiore evidenza di quanto non facciano tanti altri fattori, ponendosi
come notizia e sintomo prezioso per chi è impegnato nella
ricostruzione di un ambiente o di un periodo. E’ soprattutto nella fiaba
che al tema del cibo si applicano una gamma eccezionalmente ricca di
punti prospettici, fino al punto in cui si possono ipotizzare, per la
ricerca, risultati di spicco. Prima di qualsiasi azione d’indagine, però,
è necessario distinguere, tra la fiaba popolare e la fiaba d’arte. La
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prima, affidata alla trasmissione orale, si stabilisce e si sviluppa
nell’anonimato, cosa che rende difficile, nella maggior parte dei casi,
la localizzazione e la datazione, la seconda, originatasi in età barocca
dallo sviluppo di temi provenienti dall’oralità e giunta a piena fioritura
dopo il Settecento, prevede una figura di scrittore ben distinta e si
affida alla sua fantasia per sperimentare la piø grande varietà di effetti.
Con sfumature differenti, ma non in maniera minore, anche le fiabe
d’autore ci aprono uno squarcio vivido e pregnante sul contesto
sociale in cui si svolgono le vicende narrate. Volontariamente o
involontariamente, l’autore annota particolari, dipinge scenari che ci
tramandano i segni indelebili di un modo di pensare e di agire,
profondamente intrisi dello spirito che pervade quel tempo.
Naturalmente, per ciò che riguarda la tematica del cibo, è la fiaba
popolare a fornire un numero piø cospicuo di riferimenti adatti ad una
storicizzazione del cibo stesso, mentre la fiaba d’arte ne sfrutta
soprattutto le applicazioni astratte e simboliche. In tutti gli aspetti
della cultura folcloristica, da quelli appartenenti all’ambito
dell’espressività verbale (come i proverbi, i canti ed i racconti), a
quelli pertinenti la ritualità e la cerimonialità (come credenze ed usi
riguardanti la vita dell’uomo – nascita, matrimonio, morte – o il ciclo
dell’anno – feste patronali, feste e riti primaverili, feste invernali), in
tutte le forme, insomma, in cui si esprime e/o si esprimeva la parte
contadina, pastorale e artigiana delle popolazioni europee, il cibo, si
sa, assume un’importanza assolutamente cardinale. PoichØ, come
sostiene Piero Camporesi, fame e crapula emergono da una tradizione
secolare come i due poli autentici dell’esistenza.
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Per questi motivi nel
corpus fiabesco europeo troviamo da un lato la documentazione della
3
Cfr. Piero Camporesi, Il paese della fame, Bologna, Il Mulino, 1978.
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pratica della nutrizione, dall’altro l’illustrazione del patrimonio
alimentare, cioè la molteplicità di sostanze di varia provenienza e
natura che concorrono alla nutrizione. Le fiabe enfatizzano, quindi, ai
poli dell’evento nutrizionale, la situazione della mancanza totale di
cibo e quella della sovrabbondanza, così che, ad esempio, la raccolta
dei Grimm ravvisa molto di frequente in una carestia la causa di
quell’alterazione dell’equilibrio nel sociale o nel familiare, che
costituisce la matrice della fiaba stessa, ma non mancano le occasioni
in cui ci si spinge ad identificare nel cibo il segnale della precarietà
della condizione umana, come condizione dell’assoggettamento alle
necessità naturali. La menzione di determinati alimenti, invece, si
verifica soltanto quando questi rappresentano una particolare
deviazione dal menø quotidiano e vengono a sottolineare il rilievo
sociale di chi si trovi a gustarli. Eppure è da queste riferimenti che si
può trovare ausilio decisivo per la datazione del testo fiabistico,
poichØ, ad esempio, che una fiaba parli di patate è prova sicura che
essa non risale a prima del XVII secolo. Raramente, però, si dà notizia
di preparazioni di lunga portata, che coinvolgano l’intero gruppo
familiare, come la cottura del pane nel forno di casa e la fabbricazione
della birra. Di solito, infatti, la presenza del cibo nella fiaba serve a
trasmettere l’idea, preoccupata o addirittura angosciosa, di una
possibile e anche drastica assenza di esso.
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1.2. Fame e carestia
Ogni fiaba, lo ha spiegato Propp
4
, muove da una sventura e
questa si definisce spesso proprio come dissesto della struttura
economica familiare oppure come catastrofe collettiva, assurta sin
dagli inizi come topos dell’immaginario, ma riscontrabile, con
impressionante frequenza, nel reale storico. La paurosa minaccia della
carestia continuerà a gravare sulla vita degli uomini almeno fino verso
la metà dell’Ottocento, infatti
Nell’Europa del passato, l’alimentazione era caratterizzata
dall’alternanza frugalità – gozzoviglie, e queste ultime, rare, non
riuscivano a esorcizzare in gran parte della popolazione l’ossessione
della carestia.
5
Queste semplici testimonianze ci riportano alla mente l’avvio della
fiaba di Pollicino:
C’era una volta un taglialegna e una taglialegna, marito e moglie, i
quali avevano sette figli, tutti maschi. Il maggiore aveva dieci anni, il
minore sette. […] Erano poverissimi, e questi sette figli davano loro
un gran pensiero, perchØ nessuno di loro era ancora in grado di
guadagnarsi il pane. […] Capitò un’annata assai brutta, e la carestia si
fece tanto sentire che quei poveri sposi decisero di disfarsi dei loro
figlioli.
6
Descrizione tollerabile se paragonata a Il Discorso sopra la carestia e
fame (1591) di Giovan Battista Segni, che è un agghiacciante
documento della catastrofe economica e della rovina sociale di una
nazione già prosperosa e ricca, dell’ottusa e cinica indifferenza delle
classi possidenti e dell’alto clero nei confronti di un popolo ridotto a
morire di stenti dalle spietate e sempre piø frequenti carestie che, a
partire dalla seconda metà del Cinquecento, flagellarono l’Italia.
4
V. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Einaudi, 1949, pp. 73 – 75.
5
J. Delumeau, La paura in Occidente (secoli XIV – XVIII), Torino, SEI, 1979, p. 248.
6
Ch. Perrault, I racconti di Mamma l’Oca, tr. Di E. Giloitti, Torino, Einaudi, 1957, p. 36.
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Chi è sì cieco che non veda, chi è sì scemo che non consideri che
l’anno da venire per forza sarà carestioso et forsi del presente assai
peggiore? PoichØ gran parte delle terre non si sono seminate, i poveri
agricoltori si hanno magnate le sementi, molti hanno abbandonati i
campi, ne son morti di disagio assai; i grassatori hanno in molti luochi
rivolti i seminati, rubati e magnati gli animali, cacciati i coltivatori o
impeditili almeno dal lavorare.
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Il lamento dei poveri s’incrocia con quello dei mietitori e dei poveri
locatari, mentre il sogno della pagnotta divenuta grossa e bella, tonda
e piena, si annulla nell’amara realtà di un pane sempre piø piccolo,
nell’incubo di un pezzo sempre piø duro e pesante, sempre piø gramo,
sempre piø insufficiente. Il “flagello di Dio”
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, la “rabbia della fame”
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non si lasciano datare con esattezza, ma almeno fin dalla seconda metà
del Cinquecento si prova l’amara sensazione che per due secoli e
mezzo la fame gravasse come un terribile incubo sull’Europa e sopra
quasi tutta l’Italia. La plebe urbana, ingrossata dal proletariato
contadino rimasto senza lavoro, costretta ad elemosinare nelle
splendide città, costituirà non solo un preoccupante problema per i
gruppi di potere, ma anche un paesaggio umano che si manterrà
inalterato almeno fino alla seconda metà del Settecento e, in certe
regioni, per tutto l’Ottocento.
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La situazione non si presenta
differente in Germania. Ecco l’avvio di Hansel e Gretel dei fratelli
Grimm
Davanti a un gran bosco abitava un povero taglialegna con sua moglie
e i suoi bambini; il maschietto si chiamava Hansel, e la bambina
Gretel. Egli aveva poco da metter sotto i denti, e quando ci fu nel
paese una grande carestia, non poteva neanche piø procurarsi il pane
di tutti i giorni.
11
7 G.B. Segni, Discorso sopra la carestia e fame, 1591, in a cura di G. Allegretti, I forni di Maiolo,
San Leo, Società di Studi per il Montefeltro, 1997, p. 32.
8
Ibidem, p. 37.
9
Ibidem, p. 42.
10
Cfr. P. Camporesi, Il paese della fame, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 127 – 175.
11
J. e W. Grimm, Le fiabe del focolare, tr. di C. Bovero, Torino, Einaudi, 1952, p. 57.