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limiteremo a delineare i confini della nostra ricerca e a indicare i criteri che abbiamo
seguito nell'esposizione della materia.
Innanzitutto precisiamo che la città alla quale faremo riferimento è, salvo diversa
indicazione esplicita, la città moderna così come si è venuta trasformando in seguito
alla rivoluzione industriale. Solo dalla fine del settecento, con il mutamento dei
sistemi di produzione, la città assume una sua fisionomia decisamente contrapposta
a quella della campagna, e viene ad incidere sempre di più sul corso della storia
umana. E' vero che già l'antichità conobbe alcune grandi città, che informarono del
loro spirito intere civiltà, basti pensare agli esempi forniti da Atene e da Roma; ma,
come giustamente fa rilevare una studiosa di scienze sociali francese, "...la metropoli
era allora un'eccezione, un caso straordinario; si potrebbe invece definire il XX
secolo come l'era della metropoli." (Nota 1). Del resto, per meglio rendersi conto di
ciò, basta osservare un quadro riassuntivo del rapporto numerico degli abitanti della
campagna e di quelli della città dal 1800 ai nostri giorni, fino alle previsioni per l'anno
2000. Tale quadro è più eloquente di qualsiasi discorso. Ecco le cifre in percentuale
(Nota 2):
ANNO ABITANTI CAMPAGNA ABITANTI CITTÁ
1800 97 3
1850 94 6
1900 86 14
1950 71 29
2000 38 62
Sebbene fautori dell'avversione alla città siano stati via via filosofi, letterati, architetti,
urbanisti ecc., la nostra attenzione si concentrerà sull'antiurbanesimo dei sociologi;
costoro, tra i vari aspetti negativi della città, mettono maggiormente in risalto quelli
aventi rilevanza sull'intero corpo sociale. Ma, poichè la sociologia prima del suo
affermarsi fu preceduta da varie correnti metodologiche e di pensiero che ne
prepararono l'avvento e poichè non sempre è possibile discernere i confini tra
sociologia e discipline affini, abbiamo dedicato la prima parte di questa tesi allo
studio dell'antiurbanesimo presociologico e utopistico. In tale sezione abbiamo
affrontato per primo l'antiurbanesimo di ispirazione conservatrice, cioè quello che si
fonda sul richiamo a modelli sociali del passato. Abbiamo poi preso in esame due
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correnti di pensiero, quella socialista utopista e quella anarchica, che rientrano
invece nel filone progressista. Per la verità, come vedremo, tranne gli autori trattati
nel primo capitolo, tutti gli altri si proclameranno appartenenti a tale filone, in modo
più o meno completo. A conclusione della prima parte abbiamo riportato alcune
celebri utopie elaborate da insigni urbanisti, testimonianze di una sicura avversione
nei confronti della città moderna.
Affrontando il campo più propriamente sociologico abbiamo dedicato tutta la seconda
parte del lavoro a tre autori che, tra i classici della sociologia, maggiormante
avvertirono i pericoli e le contraddizioni della metropoli: Tönnies, Durkheim e Simmel.
In essi si ritrovano compendiate tutte le critiche alla città che la nascente sociologia
europea della fine ottocento seppe mettere in luce.
L'America, la terra in cui l'urbanizzazione raggiunse i suoi vertici più alti e in cui pure
la sociologia ebbe il suo massimo sviluppo, divenne poi la patria dell'antiurbanesimo,
anche se, come vedremo nella terza parte della tesi, qui esso ebbe delle componenti
particolari, dovute alle contingenze storiche di quel continente.
Questo, a grandi linee, l'itinerario che percorreremo con la nostra ricerca. Al suo
termine cercheremo appunto di trarre qualche conclusione, cercheremo cioè di
ricondurre la materia particolare che avremo trattato allo schema più generale dal
quale siamo partiti.
Note
Nota 1 F. Choay, Introduzione all'antologia da lei curata "Urbanisme: utopies et
réalités", Seuil, Parigi, 1965, p. 7 in nota
Nota 2 Cfr. J. Musil, Sociologia della città, Angeli, Milano, tabelle 2 e 4, pp. 44 - 45
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Antiurbanesimo e analisi sociologica
Capitolo primo - I conservatori e la città
Paragrafo primo - Alcune precisazioni sul termine
"conservatore" e sul concetto di "città perfetta"
Il termine "conservatore" è oggi generalmente usato per definire chi si oppone al
progresso, al mutamento di quell'ordine di valori che costituisce il retaggio del
passato. In questo senso lo abbiamo adottato, anche se da un punto di vista
terminologico non è del tutto appropriato. Infatti gli autori che studieremo in questo
capitolo non hanno nulla da spartire con il conservatorismo di tipo borghese che
intende per lo più mantenere inalterato il sistema di produzione e di privilegi che
avvantaggia una classe rispetto ad un'altra. Ciò che intendono conservare gli autori
che prenderemo in esame sono piuttosto i frammenti ancora vitali di un corpo sociale
che essi ritengono oggi agonizzante. Questo come primo obiettivo. Secondariamente
essi intendono restaurare quelle forme di vita, che normalmente sono definite come
unità naturali, che sono state messe in disparte dal mondo moderno e che essi
giudicano invece indispensabili al buon funzionamento della società. Qui appunto il
termine "conservatori" non è più appropriato e meglio si adatterebbe "reazionari" o
"controrivoluzionari". Costoro, in definitiva, sono i rappresentanti di quella tendenza
che abbiamo definito tradizionale, la quale guarda al passato per ritrovare i modelli
sociali più perfetti. Dunque ancor meglio si adatterebbe loro il termine "tradizionalisti",
senonchè molti di essi, come vedremo, non ebbero coscienza di cosa in realtà fosse
la tradizione, e si richiamarono ad essa in modo confuso e istintivo. Ciò però ha delle
valide scusanti. Infatti, mentre il progressista si affida alla ragione per capire il
mondo, e costruisce quindi delle precise ideologie che gli chiariscono le situazioni
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attuali e lo mettono in grado di adattarsi alle future, il tradizionalista osserva e vive la
realtà secondo dei modelli preformati, che egli ritiene di origine divina. Non ha quindi
un'ideologia, ma ha solo dei punti di riferimento fissi e immutabili. In una recente
opera sulla tradizione questa diversa impostazione mentale è stata definita con i
termini "civiltà della critica" e "civiltà del commento" (Nota 1). Anche Karl Mannheim
esprime un concetto simile: "La mentalità conservatrice non ha alcuna
predisposizione per la teoria. Ciò dipende dal fatto che gli uomini non sono per nulla
spinti a riflettere sulle situazioni entro cui vivono, quando vi si sentono perfettamente
inseriti." (Nota 2). Solo di recente dunque, da quando il legame con la tradizione è
stato rotto, i tradizionalisti hanno sentito il bisogno di capire un mondo che non era il
loro, di far uso della ragione per giustificare e proclamare la bontà del loro mondo.
Inevitabilmente una mentalità inadatta a teorizzare, trovatasi costretta a farlo, ha dato
vita a idee e concetti incompleti, contraddittori, quasi sempre irrazionali. Vale però
egualmente la pena di indagare nel complesso delle opere di ispirazione tradizionale-
conservatrice, perchè il tema che ci siamo proposti, lo studio dell'antiurbanesimo, ha
una particolare importanza in questo campo: anzi, come vedremo, qui esso trova una
sua coerenza e un suo adeguato inserimento.
Prima di esaminare i contributi antiurbani dei vari autori, riteniamo però che sia
indispensabile cercare di ricostruire quel modello di città tradizionale dalla corruzione
del quale i tradizionalisti ritengono sia nata la città moderna. Trattandosi infatti di
autori che hanno una concezione della storia di tipo involutivo, regressivo, è evidente
che ogni loro critica a qualsiasi forma di organizzazione sociale si fondi sul confronto
con la preesistente condizione ottimale di tale forma. Nel caso della città il più
celebre tentativo di delineare globalmente il modello e lo spirito della città tradizionale
è quello del francese Fustel de Coulanges. Nella sua opera "La città antica" egli si
sofferma sulle origini e sulle funzioni della città nel mondo greco e romano; l'aver
limitato lo studio a queste due civiltà non permette di constatare la persistenza dei
principali elementi strutturali della città antica presso ogni popolo. Comunque, a parte
qualche inesattezza e qualche interpretazione eccessivamente libera, l'opera di
Fustel de Coulanges conserva il merito di aver delineato in maniera corretta l'origine
e il significato della città in seno a una civiltà tradizionale. Gli altri autori che hanno
trattato questo tema si sono mantenuti più in superficie, cercando di cogliere
principalmente il senso generale della città nell'antichità, piuttosto che scendere nei
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particolari della descrizione storica. Ultimo in ordine di tempo è stato Elèmire Zolla,
che ha dedicato un capitolo della sua opera "Che cos'è la tradizione" alla "città
perfetta". Frutto di questi studi è un quadro abbastanza completo di come i nostri
antenati concepirono l'insediamento urbano. Per comprendere il passato, ci dicono
questi studiosi, bisogna innanzitutto penetrare lo spirito degli antichi. Fustel de
Coulanges ammonisce a riguardare gli antichi come se fossero a noi del tutto
estranei, al pari degli indiani o degli arabi. Ciò perchè la nostra civiltà oggi ha
completamente perduto ogni legame con le sue origini, e non è quindi più in grado di
comprendere le motivazioni e le credenze di coloro che la fondarono. Per tentare di
far ciò occorre, secondo Zolla, tener presente che le origini di ogni fenomeno sociale
sono di natura religiosa. Ogni istituzione, ogni attività si formò all'inizio dei tempi
come elemento di devozione alla divinità. Così fu dell'agricoltura, dell'allevamento,
della casa e anche, naturalmente, della città.
La casa, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, non fu costruita dai primi
uomini a scopo di ricovero; costoro infatti vivevano ancora sotto la volta celeste: ad
essi "...non erano necessari rifugi dalle intemperie, poichè il loro corpo non s'era
indebolito a furia di ripararsi" (Nota 3).
La casa inizialmente ebbe esclusivamente funzioni rituali, fu il luogo in cui si
celebrava il culto individuale, privato. Essa conservò il suo carattere sacro anche in
seguito, quando cominciò ad assumere la sua funzione di ricovero, tanto che molti
atti vi rimasero vietati, in segno di rispetto: così secondo i vari popoli, fu del parto,
della cottura dei cibi profani, della morte. Fustel de Coulanges ci ricorda,
sottolineandone la grande importanza, come il focolare fosse presso i greci e i
romani il luogo centrale della casa, il luogo destinato al culto degli antenati. Egli
descrive le attenzioni amorose e riverenti che il capofamiglia usava nel conservare e
nell'alimentare il sacro fuoco, e parimenti fa notare come ogni gesto, ogni atto avesse
nella famiglia antica un significato sacrale.
Ciò che si è detto della casa si può dire anche della città. L'unione delle famiglie
"sacerdotali" in fratrie, tribù e quindi in città aveva lo scopo di celebrare un culto
superiore, di adorare dei penati pubblici. All'inizio dunque la città non aveva funzione
residenziale: poteva semplicemente essere costituita dal luogo del culto comune, in
cui periodicamente convenivano i fedeli. Ecco il primo elemento fondamentale della
città antica: il tempio. "Le città sono templi allargati da un insediamento..." (Nota 4).
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Inizialmente il tempio fu semplicemente un luogo sacro, allo stato naturale, il più delle
volte una selva; l'elemento materiale, architettonico è posteriore (Nota 5). Così pure
è posteriore l'installazione di residenze stabili attorno al tempio. Quando ciò ha luogo
possiamo realmente parlare di nascita della città; per intendere come tale nascita
non avvenisse con finalità pratiche, ma unicamente a scopo di culto comune, basterà
pensare che le città allora non si formavano spontaneamente, poco per volta, bensì
venivano fondate, da un giorno all'altro, secondo un particolare rituale. La cerimonia
della fondazione è un altro elemento fondamentale: la sua importanza non è solo
contingente, ma continua a ripercuotersi sulla vita della città; il fondatore, infatti, è
venerato dalle generazioni future come l'antenato comune, e assume dignità divina.
Col trascorrere dei secoli, secondo la concezione tradizionale, il carattere sacrale
della città va deteriorandosi: ogni attività, che all'origine aveva significato di rito,
comincia poco per volta ad assumere un significato profano. Ciò che era cerimonia di
donazioni contrapposte diviene commercio, ciò che era immolazione ieratica diviene
macelleria, ciò che era ierogamia diviene matrimonio, ciò che era liturgia diviene
diritto, danza, canto, arredamento, arte profana. La discesa è graduale, e quasi ogni
secolo può segnare una tappa su questo cammino. L'ultimo momento che nella sua
globalità può essere definito di ordine tradizionale è l'impero medievale. E' l'ultima
volta che la città si stringe, con le sue case basse e le viuzze strette, attorno al
tempio, la cattedrale gotica. E' l'ultima volta che la città sacrifica i suoi interessi
materiali per dar vita a un'opera destinata al culto, la cui costruzione può avere una
durata superiore al corso della vita umana. Ma è un fuoco di paglia. La "civiltà della
critica" è alle porte, e ben presto spazzerà via ogni residuo di sacralità. Ecco appunto
da dove nasce l'antiurbanesimo dei tradizionalisti: la città moderna è una città che ha
perso la consapevolezza della sua funzione, che era quella di innalzare l'uomo a Dio.
Ha perso il suo centro, il tempio, in senso reale e in senso figurato. E' divenuta libera,
libera dall'ordine un cui era inserita, libera dalla stabilità delle tradizioni, e così ha
potuto cominciare a correre, senza sapere in che direzione. Non ha più alcun punto
di riferimento; in preda al caos, ognuno in essa cerca di salvare se stesso, di fare i
propri interessi immediati. E l'equilibrio che si è creato è un equilibrio instabile,
fondato sulla lotta perenne dei singoli e delle classi. Il prevalere dell'interesse
individuale, del "re denaro", spiega la presenza di ogni malanno nella città moderna:
avendo perso di vista l'universale, per riguardare unicamente al particolare, l'uomo,
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pur di soddisfare i suoi desideri, le sue voluttà, è capace di mandare in rovina l'intero
corpo sociale. Ed ecco l'invasione del cemento, del motore a scoppio, delle industrie,
con la conseguente distruzione dell'ambiente naturale; ed ecco la sparizione di
qualsiasi vincolo solidaristico, non solo divenuto inutile, ma ormai anche dannoso.
Questa, a grandi linee, la sostanza delle accuse dei tradizionalisti alla città moderna;
vediamo ora come in concreto i più autorevoli esponenti di una concezione del
mondo tradizionale-conservatrice hanno articolato le loro critiche antiurbane.
Note
Nota 1 Cfr. E. Zolla, Che cos'è la tradizione, Bompiani, Milano, 1971, pp. 7 - 17.
Nota 2 K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1965, p.232. Più avanti
però questo autore, esaminando la mentalità conservatrice, mostra di riferirsi ad altro
da quanto noi qui intendiamo per conservatorismo. Tra l'altro egli inserisce in campo
conservatore il nome di Hegel, mentre qualunque tradizionalista rifiuterebbe una
simile vicinanza, avendo il filosofo tedesco dato vita all'idea del mondo come
continuo sviluppo, come continuo superamento delle posizioni iniziali.
Nota 3 E.Zolla, op. cit., p. 140.
Nota 4 E.Zolla, op. cit., p.147.
Nota 5 "Il tempio greco... almeno in origine, fu un modo di sostituire la selva sacra, fu
una selva artificiale. Sempre simbolo dell'intero cosmo, che ciò resta essenziale nel
valore simbolico di ogni tempio, per qualsiasi culto e in qualsiasi religione; ma pur
tuttavia, nella costruzione del tempio greco, l'accento viene a porsi sula
rappresentazione simbolica della foresta, del folto degli alberi e, quindi, del rapporto
uomo-albero, sia come rapporto individuale di unità sia come rapporto di grandezza.
E le stesse colonne del tempio greco presero a simboleggiare - e addirittura a
sostituire - gli alberi della selva sacra; tanto è vero che nei templi più antichi le
colonne erano di legno; e più tardi, quando presero a scolpirsi in pietra e in marmo,
la scanalatura verticale continuò a ricordare l'altrettanto verticale rigatura della scorza
dell'albero; e il capitello, più o meno evidentemente, accennava alle fronde più
basse. In modo analogo, del resto, le fasce in senso orizzontale del tempio egiziano,
alludono alla struttura per stratificazione dei tronchi di palma." (P.Porcinai -
A.Mordini, Giardini d'Occidente e d'Oriente, Fabbri, Milano, 1966, pp. 22 -29).