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INTRODUZIONE
Benessere organizzativo, salute e qualità della vita negli ambienti di lavoro
rappresentano questioni di sempre maggiore interesse e centralità nella società
attuale. Sempre piø spesso, nella vita quotidiana, si fa riferimento a questi aspetti,
anche solo discutendo con un collega su quanto ci si sente soddisfatti del proprio
lavoro, su quanto ci si ritiene professionalmente realizzati o su come riuscire a
conciliare l’attività lavorativa con la vita privata. Sono tutte questioni che in qualche
modo rientrano nell’ampio tema del benessere organizzativo e della salute
occupazionale, di cui molto si è dibattuto e su cui si sono concentrate numerose
ricerche scientifiche. Nel corso degli anni infatti si è arrivati a dimostrare che
un’azienda in salute, attenta a garantire e tutelare la sicurezza dei lavoratori e
promuovere al suo interno politiche ispirate al benessere organizzativo, soprattutto
con il coinvolgimento di tutti i dipendenti, non solo accresce la motivazione e il grado
di soddisfazione dei suoi lavoratori, ma è in grado di raggiungere livelli piø elevati di
produttività ed una maggiore efficacia, vendendo per contro abbassarsi il tasso di
assenteismo.
Lo svolgimento del tirocinio formativo presso la Struttura Complessa
Formazione e Comunicazione dell’Asl di Biella mi ha consentito un ulteriore
avvicinamento al tema del benessere organizzativo, in particolar modo
contestualizzato nell’ambito sanitario, dove la complessità organizzativa e la
peculiarità del servizio assistenziale rendono il benessere, psicologico ed
organizzativo dei lavoraori, un aspetto davvero cruciale ed estremamente delicato
soprattutto in merito alla stretta connessione che sembra esserci tra lo stato di
benessere di chi eroga e di chi fruisce del servizio (pazienti).
In particolar modo durante il tirocinio ha avuto la possibilità di partecipare agli incontri
del gruppo di lavoro regionale dedicato a “La tutela del benessere organizzativo nelle
Aziende Sanitarie”, la cui costituzione è stata deliberata nel 2007 dalla Regione
Piemonte. Tale gruppo di lavoro, formato da psicologi del lavoro, medici competenti,
Responsabili dei Servizi di Prevenzione e Protezione (RSPP) e Rappresentanti dei
Lavoratori per la Sicurezza (RLS), collabora da anni nella ricerca attiva sul tema del
benessere organizzativo al fine di poter dare supporto alle Aziende Sanitarie che lo
richiedono. Una delle azioni del gruppo, finanziata dalla Regione Piemonte e
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coordinata dall’Asl di Biella, che mi ha vista coinvolta sia in alcune fasi della
progettazione sia come supporto nella realizzazione, è stata quella di attuare un
corso di formazione-intervento rivolto a tutte le Aziende Sanitarie Piemontesi al fine
di sensibilizzare tutti i dipendenti al tema del benessere organizzativo e di fornire loro
strumenti per attuare strategie di intervento all’interno delle loro aziende. Il progetto
di formazione-intervento prevedeva alcune giornate di formazione d’aula volte ad un
approfondimento teorico sul tema del benessere organizzativo e successivamente la
creazione di singoli gruppi, uno per ciascuna azienda, impegnati nello sviluppo di
progetti per la promozione del benessere da realizzare all’interno delle rispettive
Aziende Sanitarie d’appartenenza.
Proprio a partire da questo progetto formativo è nata, insieme al dott. Alastra -
Responsabile della Struttura Complessa Formazione e Comunicazione dell’Asl di
Biella - , l’idea di questo lavoro di tesi, riflettendo sulla possibilità di indagare, in una
prospettiva “ecologica”, la coerenza fini-mezzi all’interno dei gruppi di lavoro
relativamente allo sviluppo dei progetti di promozione del benessere organizzativo.
Tale ricerca è stata condotta andando a costruire, e successivamente a
somministrare a tutti i partecipanti, un questionario volto a raccogliere le percezioni,
le sensazioni e i punti di vista di tutti i soggetti, al fine di indagare e valutare quanto le
modalità operative e collaborative di chi si fa promotore del benessere organizzativo,
risultano effettivamente ispirate ad una logica di benessere.
Nel dettaglio questo lavoro di tesi è costituito da due parti: la prima parte è
dedicata ad un approfondimento teorico sul tema del benessere e del clima,
relativamente alla recente letteratura internazionale, per arrivare poi a
contestualizzare il benessere organizzativo nelle Pubbliche Amministrazioni in Italia;
la seconda parte è invece dedicata alla descrizione della ricerca esplorativa
condotta, all’analisi dei dati ed alla presentazione dei relativi risultati.
Nel primo capitolo è stata presentata l’evoluzione dei principali paradigmi di
studio che hanno segnato la nascita e lo sviluppo del benessere organizzativo.
Un’attenzione particolare viene data all’evolversi del concetto di salute che nel corso
del tempo appare essere sempre meno associata alla semplice assenza di malattia,
ma assume valore autonomo ed un’accezione positiva, arrivando a rappresentare
l’insieme di benessere fisico, psichico e sociale (OMS, 1946); si assiste infatti al
cambiamento di prospettiva da un approccio incentrato alla cura, alla prevenzione e
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alla riduzione dei fattori di rischio, ad un approccio fondato sulla conservazione
attiva della salute. L’ultimo paragrafo si concentra sulla conciliazione tra vita privata e
vita lavorativa, tema che si è rivelato in stretto rapporto con il benessere
organizzativo, soprattutto in questi ultimi anni in cui risulta sempre piø difficile
raggiungere e mantenere un equilibrio tra lavoro e tempo libero.
Il secondo capitolo è interamente dedicato al clima ed alle connessioni che
esso presenta con il tema del benessere organizzativo. Sono stati presentati e
definiti i costrutti di clima psicologico, clima organizzativo e cultura aziendale e ne
sono state evidenziate le principali differenze ed analogie. Successivamente sono
state sintetizzate e ripercorse alcune delle piø recenti ricerche sul tema del clima
organizzativo.
A partire dal terzo capitolo l’attenzione si concentra sul contesto italiano,
descrivendo lo scenario in cui le Pubbliche Amministrazioni, e la Sanità in
particolare, si trovano ad operare. La prima parte del capitolo 3 è interamente rivolta
a delineare le recenti evoluzioni del panorama politico ed economico e i continui
cambiamenti del contesto sociale che hanno avuto evidenti ripercussioni sulle
Pubbliche Amministrazioni, dando origine a nuove esigenze e ponendole di fronte a
nuove sfide, tra cui una delle principali è rappresenta dal riuscire valorizzare e
riconoscere i lavoratori generando ed innalzando in loro motivazione ed senso di
appartenenza. La seconda parte del capitolo invece descrive una proposta operativa
volta alla promozione della salute organizzativa nelle Pubbliche Amministrazioni,
nata in risposta alle evidenti esigenze generate dai mutamenti socio-politici. In primo
luogo viene descritta la strategia di sostegno attuata dal Dipartimento della Funzione
Pubblica attraverso il Programma Cantieri, finalizzata ad aiutare tutte le
amministrazioni che desiderassero sperimentare soluzioni di miglioramento
organizzativo e gestionale; successivamente viene definito il costrutto di salute
organizzativa (Avallone Pamplomatas, 2005) ed il modello operativo che ne deriva,
costruito sulla base delle dimensioni e degli indicatori individuati proprio a partire da
tale costrutto.
La seconda parte di questo lavoro di tesi è interamente dedicata al tema del
benessere organizzativo nelle Aziende Sanitarie Piemontesi.
Il capitolo 4 cala il benessere organizzativo in ambito sanitario evidenziando la
peculiarità e la delicatezza di tale contesto. Successivamente viene presentato il
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gruppo di lavoro regionale, dalla sua costituzione, alle azioni in cui è impegnato; in
particolar modo viene introdotto, e spiegato in tutte le sue fasi, il progetto regionale di
formazione-intervento volto alla promozione del benessere organizzativo all’interno
di tutte le Aziende Sanitarie Piemontesi.
A partire dal capitolo 5 l’attenzione è rivolta nello specifico alla ricerca
esplorativa condotta. Il quinto capitolo infatti illustra gli obiettivi e le ipotesi della
ricerca, delinea la costruzione del questionario in tutte le sue parti, definisce le
procedure e le modalità di somministrazione ed infine descrive le caratteristiche dei
partecipanti alla ricerca, anche alla luce dei risultati delle statistiche descrittive sulle
variabili socio-demografiche.
Il capitolo 6 è dedicato all’elaborazione dei dati ed alla presentazione dei
risultati. Vengono infatti descritte tutte le analisi statistiche effettuate sui dai raccolti
ed i relativi risultati emersi: il calcolo dell’analisi fattoriale esplorativa e le
caratteristiche psicometriche delle batterie, l’analisi delle relazioni tra le variabili
attraverso il calcolo delle correlazioni e della regressione lineare ed i confronti tra i
vari gruppi, effettuati con il calcolo del t-test e con l’analisi della varianza.
Infine il capitolo 7 si propone di riprendere e sintetizzare i principali risultati
emersi e di interpretarli e commentarli anche alla luce della recente letteratura
esaminata, al fine di arrivare ad alcune conclusioni ed ipotizzare eventuali spunti per
future prospettive di ricerca.
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Parte I
Analisa della letteratura
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1 - IL BENESSERE ORGANIZZATIVO
1.1 - Percorso storico e paradigmi di studio
Il tema del benessere in ambito lavorativo si è evoluto nel corso degli anni
partendo da una concezione puramente anti-infortunistica fino alla dimostrazione
che la qualità delle condizioni lavorative non solo risulta fondamentale per il
benessere del lavoratore stesso, ma può apportare notevoli vantaggi
all’organizzazione in termini di produttività.
Qui di seguito tenterò di ripercorrere le tappe di questo percorso.
All’inizio del ventesimo secolo l’organizzazione lavorativa veniva generalmente
concepita in funzione del conseguimento del miglior risultato per l’impresa, senza
alcuna considerazione nØ per l’ambiente di lavoro nØ per la salute del lavoratore
stesso. L’individuo al lavoro era visto come un essere passivo, costretto ad adattarsi
al sistema tecnologico ed organizzativo con il solo compito di contribuire alla
produttività e all’efficacia dell’organizzazione. Gli unici interventi e tentativi di
miglioramento erano rivolti ad aumentare l’efficienza, ad esempio attraverso lo studio
di tempi e metodi o la commisurazione del salario al rendimento.
Soltanto negli anni ’30 - ’40, nel Nord America, si iniziò a prestare attenzione
alla salute fisica del lavoratore, concentrando l’attenzione sugli aspetti relativi alla
sicurezza sul lavoro, cercando di eliminare, o almeno limitare, le possibili cause di
infortuni e malattie lavorative. Prevaleva quindi una concezione meccanicistica ed
una causalità lineare dall’ambiente di lavoro al lavoratore, per cui gli studi e gli
interventi si limitavano a valutare e a correggere le condizioni di lavoro che potevano
costituire fonti di rischio.
Con la nascita del movimento delle Relazioni Umane (Mayo 1933, 1945) per la prima
volta venne posta l’attenzione sul fattore umano, enfatizzando l’orientamento delle
persone alla relazione. In questo periodo si iniziò a considerare il malessere dei
lavoratori non piø solo da un punto di vista fisico, ma anche psicologico, individuando
nella routinizzazione, nella dequalificazione e nell’alienazione le possibili cause.
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Negli anni ’50 - ’60 il lavoratore inizia ad essere riconosciuto come soggetto
attivo, in grado di interagire con il proprio ambiente di lavoro, anche se permane un
concetto di causalità lineare. Si assiste all’avvio in questi anni degli studi denominati
Early Ergonmics, incentrati sul binomio lavoro-ambiente e sull’interazione tra
individuo e tecnologie. Pur restando l’intervento incentrato prevalentemente sulla
cura dell’individuo, si iniziava a prestare attenzione anche alle conseguenze
psichiche del lavoro (affaticamento, disturbi psicosomatici, etc.). Gli studi sugli
aspetti mentali della salute si svilupparono soprattutto negli Stati Uniti con le ricerche
di Eli Chinoy (1955) e Korhauser (1965), che portarono, successivamente, allo studio
dei cosiddetti aspetti psicosociali del lavoro. In Europa si dovrà aspettare il ventennio
successivo con i lavori di Gardell (1971) e Levi (1981), i cui risultati generarono
alcuni cambiamenti di grande beneficio, quali l’aggiornamento della legislazione e
della regolamentazione.
Il ventennio successivo (’70 - ’80) fu caratterizzato dal passaggio da un
approccio di intervento incentrato sulla cura ad un approccio focalizzato sulla
prevenzione. Health protection è infatti il concetto chiave che, almeno inizialmente,
contraddistingue questo periodo: la sicurezza sui luoghi di lavoro è diventata ormai
un principio riconosciuto, tanto che si affinano le tecniche per migliorarne la qualità
con la partecipazione attiva di tutti gli attori.
Con gli anni ’80 vediamo invece affacciarsi un nuovo concetto, quello di
Occupational Health Promotion (Glasgow e Terborg 1988) che si distingue e supera
la precedente concezione di Health Protection: se infatti quest’ultimo si concentrava
sul proteggere le persone dalle minacce alla loro salute, la piø recente prospettiva si
propone di promuovere la salute fisica e mentale dei lavoratori proprio inducendo le
persone a fare scelte ragionate.
La novità principale consiste infatti nello spostamento d’interesse dalla prevenzione
degli infortuni e delle malattie alla conservazione attiva della salute. Se prima di
allora la salute veniva definita semplicemente come assenza di malattia, da quel
momento in poi inizia ad essere concepita in chiave positiva, cioè come l’estremo di
un continuum al centro del quale vi è l’assenza di malattia ed all’altro estremo la
malattia o l’invalidità. Soltanto a questo punto è possibile individuare un campo
d’intervento specifico per conservare e potenziare il benessere fisico e psicologico.
Se prima l’attenzione si concentrava sulle condizioni ambientali, ora viene data
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maggiore enfasi ai comportamenti dei lavoratori. Il cambiamento di prospettiva è
rilevabile soprattutto nel ricercare le ragioni di infortunio e di malattia non piø solo
esternamente al sistema, bensì all’interno: sforzarsi nel cercare cause interne per
comprenderle e ripianificare il sistema. Con Rosen (1986) si inizia inoltre a valutare
l’importanza di aspetti quali il clima e la cultura organizzativa.
Viene introdotto il termine di Occupational Health Psychology (OHP) da
Rymond, Wood e Patrick (1990), il quale indica un nuovo approccio interdisciplinare
in cui convergono la psicologia della salute e la salute pubblica negli ambienti
lavorativi. In base a questa prospettiva la psicologia viene applicata alle
organizzazioni con l’obiettivo di migliorare la vita lavorativa, incrementando
protezione e sicurezza e promuovendo salute sui luoghi di lavoro. Gli ambienti di
lavoro sani, nel pensiero degli autori, infatti sarebbero caratterizzati da alta
soddisfazione del lavoratore, buona sicurezza, basso assenteismo e alta produttività.
Pur ammettendone alcuni limiti, è possibile affermare che l’OHP permane un
importantissimo tentativo di superare il concetto di sicurezza inglobandolo in quello
piø ampio di salute dell’organizzazione.
A partire dagli anni ’90 compaiono inoltre i primi studi sullo stress in ambito
occupazionale, in cui il lavoratore viene considerato come individuo a tutti gli effetti, e
nell’analisi delle problematiche lavorative entrano a far parte anche il rapporto con la
famiglia e l’ambiente circostante.
Anche dal punto di vista legislativo sono osservabili notevoli passi avanti:
l’introduzione delle norme comunitarie recepite in Italia con il Decreto Legislativo 626
del 1994 ha rappresentato una svolta importante in ambito di sicurezza e
prevenzione. Il modello culturale introdotto pone infatti in risalto aspetti fino ad allora
ritenuti secondari, individuando nell’organizzazione stessa la responsabilità della
gestione della sicurezza. Le condizioni di rischio per il benessere del lavoratore
dipenderanno quindi da come il lavoro è organizzato, dalle scelte e dalle strategie
aziendali. In particolare, la nuova normativa ha contribuito a rivolgere l’attenzione
non solo al benessere fisico dei lavoratori, ma piø in generale al benessere psichico
e sociale, analizzando processi organizzativi oltre che tecnici.
La gran parte delle ricerche sviluppate negli anni successivi (Fiorelli, 1998;
Lyden e Klengele, 2000) hanno seguito un approccio metodologico improntato a
individuare degli “indici di malessere” organizzativo (assenteismo, turnover,
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diminuzione dei profitti, etc.) e stabilire una soglia al di sotto della quale sarebbe
stato necessario un intervento riparatore.
Successivamente si arriva a comprendere che non è sufficiente rilevare il tasso di
malessere per monitorarlo e mantenerlo al di sotto di certi limiti, ma diventa
importante andare a capire che cosa caratterizza il benessere di un organizzazione,
e degli individui che ne fanno parte, per poterlo promuovere. L’organizzazione inizia
ad essere vista come luogo accogliente per il dipendente, luogo relazionale dove
poter comunicare con franchezza, dove ci si deve sentire coinvolti nelle decisioni
prese, dove obiettivi e compiti devono essere chiari e condivisi da tutti. Tuttavia una
definizione condivisa di salute organizzativa rimaneva ancora incerta, non
consentendo di individuare con certezza le condizioni in presenza delle quali
un’organizzazione potesse esprimere e mantenere uno stato di benessere.
Dopo aver ripercorso un breve excursus storico sull’evoluzione del benessere,
verrà di seguito presentato un quadro dei paradigmi di studio che, negli ultimi anni,
hanno trovato considerazione nella letteratura internazionale. Non potendo in questa
sede fornire una descrizione completa di tutti i modelli di ricerca, mi limiterò a
presentare la prospettiva adottata da Jaffe (1995), in cui viene evidenziata, con
l’individuazione di quattro paradigmi, la frammentarietà degli studi sul benessere
organizzativo e l’interdisciplinarità del tema, al quale si interessano la medicina, la
sociologia, le scienze politiche e studi manageriali.
1. Stress da lavoro e burnout
Questo paradigma risulta essere il maggiormente studiato e si concentra sulla
capacità dell’individuo di fronteggiare e gestire le situazioni stressanti.
Per stress si intende un fenomeno soggettivo, ovvero una reazione di fronte a
situazioni stressanti (stressors), che ciascuno di noi percepisce e manifesta in modo
differente. Nel corso degli anni la ricerca in questo ambito si è concentrata piø su
come gli individui riescano ad affrontare lo stress che non su come certi ambienti
lavorativi possano provocare o evitare situazioni di forte pressione. In realtà,
ultimamente, sembra che siano proprio i fattori legati al luogo di lavoro i principali
responsabili di malattie, stress ed esaurimento.
Nell’ambito di questa prospettiva è necessario citare la ricerca di Karasek e Tehorell
(1990) incentrata sull’analisi dello stress in relazione alla riprogettazione del lavoro
(work redesign). Le variabili considerate da questo modello sono tre: le richieste
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avanzate sul lavoro (carico lavorativo), la libertà decisionale o controllo percepito
(autonomia nelle decisioni e discrezionalità delle abilità) ed infine il supporto sociale
(relazioni positive con colleghi e responsabili). Ciò che si evince dalla ricerca è che
un’elevata domanda lavorativa a cui corrisponde però una limitata possibilità di
controllo decisionale porta ad una situazione di tensione (strain) in cui i problemi di
salute e di stress sembrano essere piø frequenti rispetto ad ambienti attivi (active)
caratterizzati da un’elevata domanda ma anche da un altrettanto alto grado di
controllo. Pertanto dove prevale la tensione gli individui sembrano essere piø rigidi,
con un morale piø basso e piø inclini alla malattia, al contrario, in un ambiente attivo
le persone hanno piø opportunità di sperimentarsi, di apprendere nuove abilità, di
essere soddisfatti e quindi di godere di uno stato migliore di salute. Per render le
organizzazioni piø sane, secondo Karasek e Tehorell (1990) è fondamentale la
riprogettazione del lavoro. Tuttavia questo genere di interventi rimarrebbe confinato
ad un livello micro-organizzativo senza prendere in considerazione elementi a livello
macro, come il clima, la cultura o le strategie aziendali.
Considerando che le proposte di intervento in tema di stress vengono suddivise in
tre livelli, ovvero ad un primo livello la riduzione dei fattori fonte di stress, al secondo
livello la gestione dello stress ed al terzo l’assistenza al lavoratore, è opportuno
sottolineare che solitamente nelle organizzazioni vengono attuati piø frequentemente
interventi di secondo e terzo livello, che puntano a modificare e correggere
comportamenti o stili di vita responsabili di eventuali danni alla salute. Un
organizzazione sana in realtà non necessiterebbe di interventi di questo tipo, poichØ
sarebbe sufficiente attuare soltanto interventi del primo livello, cioè di prevenzione,
andando ad eliminare o ridurre le cause dello stress, anzichØ agire sulle
conseguenze.
Sempre all’interno di questo paradigma di studio troviamo i lavori sul burnout: in
questo caso si studia il modo in cui le persone rispondono alle situazioni stressanti
per capire se riescono a resistere allo stress mantenendo un buono stato di salute
(hardiness) o se, al contrario, subiscono un esaurimento, soprattutto in termini
emotivi, sperimentando un’incapacità a continuare a lavorare (burnout).
Freudemberger (1980) è stato il primo studioso ad utilizzare il termine “burn-out” che
letteralmente si traduce con “bruciati, scoppiati”. Tale parola, associata a fenomeni
quali affaticamento, logoramento, improduttività, tale parola viene utilizzata per
designare una sindrome specifica che colpisce soprattutto le professioni di aiuto
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(helping professions). Con il termine burn-out (Cherniss 1980) si intende quindi la
risposta individuale ad una situazione lavorativa percepita come stressante nella
quale l’individuo non dispone di risorse e di strategie (comportamentali e cognitive)
adeguate per fronteggiarla.
Sebbene le ricerche in quest’ambito si siano maggiormente concentrate sui fattori
individuali nella spiegazione delle differenti reazioni, ultimamente si è iniziato a porre
l’attenzione anche su fattori organizzativi: tra le cause di burnout possiamo
considerare infatti anche fattori socio-organizzativi come le relazioni interpersonali,
l’ambiente lavorativo e l’organizzazione stessa del lavoro. A tal riguardo si è
riscontrato per esempio che il burnout risulterebbe una qualità del gruppo di lavoro
piø che di un singolo individuo (Golembiewski e al., 1986): si è visto che se un
individuo soffre di burnout all’interno di un team, è piø alta la probabilità che ne soffra
l’intero gruppo.
2. Sviluppo organizzativo e riprogettazione del lavoro
Questa prospettiva si dimostra interessata piø a capire come creare luoghi di lavoro
efficaci piuttosto che in salute, con l’obiettivo di comprendere quali modelli e quali
processi organizzativi influenzano al meglio la motivazione e la soddisfazione del
lavoratore. Assumendo che le persone siano motivate sia da fattori intrinseci
(desiderio di crescita, di partecipazione…) sia da fattori estrinseci (remunerazione,
status…) questo approccio sostiene l’ipotesi secondo cui le organizzazioni in grado
di soddisfare i bisogni intrinseci dei lavoratori avrebbero piø possibilità di ottenere
dalle proprie risorse motivazione, soddisfazione ed efficacia. Sembra quindi che
l’efficacia organizzativa sia legata al grado di partecipazione e di coinvolgimento dei
lavoratori, non solo nella definizione dei compiti e delle mansioni ma anche nella
predisposizione delle politiche decisionali e strategiche di piø ampio respiro. Lawler
(1986) ha infatti constatato che dai diversi livelli di coinvolgimento dei lavoratori può
derivare non solo la loro soddisfazione ma anche l’efficacia dell’organizzazione.
3. Politiche organizzative per la promozione della salute
Questo paradigma si concentra sulle politiche organizzative e sulla cultura aziendale,
da cui deriva la possibilità o meno di controllo e di partecipazione da parte del
lavoratore, di supporto sociale, di soddisfazione dei bisogni, di salute dell’individuo e
dell’organizzazione. Se per politiche aziendali intendiamo le procedure, i programmi
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e le iniziative organizzative, e per cultura le norme, i valori e tutti i fattori impliciti che
sostengono la dinamica di un’organizzazione, è facile comprendere come
quest’ultima, essendo per definizione piø radicata, sia anche piø difficile da
cambiare. Le politiche aziendali ed organizzative, che al contrario sembrano essere
piø chiare e consce, risultano essere quindi piø flessibili e disposte al cambiamento.
Oggi le organizzazioni che sono costituite da una popolazionei culturalmente
eterogenea, con valori differenti, bisogni diversi da soddisfare e appartenenze
differenti, necessitano sempre piø di una gestione organizzativa volta all’integrazione
ed al miglioramento della salute del personale che vi opera. Spesso infatti innovare e
sviluppare le procedure sembra essere una conseguenza di altri fattori, come quelli
appena citati. Jamieson e O’Mara (1991) propongono un modello volto ad
incoraggiare una politica flessibile che punti all’armonia tra le persone, alla gestione
ed alla remunerazione della prestazione, all’informazione ed al coinvolgimento dei
lavoratori e che sia di supporto allo stile di vita ed ai bisogni delle persone. Attuare
questo tipo di politica significa tenere in conto diversi aspetti, quali ad esempio la
diversità della forza lavoro con le relative differenti culture, il rapporto lavoro-
famiglia,i bisogni personali e le nuove caratteristiche lavorative, basate
prevalentemente su abilità cognitive e non fisiche.
4. Studio psicodinamico dei manager
Questo paradigma si basa sulla teoria secondo cui sarebbe l’individuo stesso ad
influenzare l’organizzazione: quando una persona ha imparato a gestire
positivamente la propria salute è in grado di diffondere tale atteggiamento all’interno
dell’organizzazione. Si tratta quindi di una prospettiva focalizzata sulla leadership: la
salute dell’organizzazione risulterebbe essere in funzione del leader che opera in
essa. Le organizzazioni sono dunque considerate come manifestazioni dello sviluppo
personale del leader: a seconda dei casi si potrebbe presentare un’organizzazione
sana o patologica (Avallone e Pamlomatas, 2005). Questa prospettiva inoltre
considera le organizzazioni come se avessero una parte inconscia, così come è
presente nell’individuo: ciò potrebbe spiegare le eventuali resistenze e difficoltà al
cambiamento.
Nell’ambito di tale prospettiva, possiamo osservare due sottoparadigmi:
• il primo centrato sulla relazione esistente tra lo sviluppo personale e le modalità
con cui le organizzazioni sono influenzate da valori e questioni sociali e culturali;
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• il secondo basato su modelli di sviluppo psicodinamico della personalità che fa
derivare i problemi organizzativi dalla psiche dei leader: se i leader sono in salute
tale sarà anche l’organizzazione.
I lavori di Maccoby (1988), LaBier (1986) e Kaplan (1991) partono dal primo
approccio e ridefiniscono le motivazioni, le relazioni interpersonali lavorative e le
aspettative che avvalorano la salute e il benessere psicofisico.
I lavori di Kets de Vries e Miller (1984) riguardano invece il secondo approccio e
considerano l’organizzazione come avente un inconscio e una personalità
teoricamente nevrotica. Quest’ultima caratteristica deriverebbe dalla nevrosi del
leader fondatore, dalle sue dinamiche di personalità che, con il tempo, penetrano
nella struttura e nella cultura dell’organizzazione.
Questo sottoparadigma psicodinamico considera l’organizzazione come un
organismo vivente e in quanto tale ne suggerisce il consulto terapeutico per superare
lo stato di difficoltà.
Uno dei limiti di tale prospettiva sarebbe dovuto al grande dispendio di tempo e
denaro per il cambiamento organizzativo che, tra l’altro, avverrebbe solo a livello
individuale, tralasciando l’aspetto organizzativo.
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1.2 - Salute e Benssere
Spesso salute e benessere sono due termini che vengono associati, o
considerati come sinonimi e a cui vengono attribuite molteplici definizioni.
Sul significato del termine salute si possono rintracciare, ancora oggi, differenti
interpretazioni. Un modo comune di definire la salute è quello di riferirsi al suo
negativo, quindi intendere la salute come assenza di malattia. Un cambiamento di
prospettiva, rispetto a questa concezione strettamente medica, è stato marcato
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 1946 con l’affermazione per cui
la salute non rappresenterebbe piø uno stato di assenza di malattia, ma l’insieme di
benessere fisico, psichico e sociale. La definizione dell’OMS ha permesso di
rimuovere il dualismo concettuale “salute-malattia” offrendo una visione dello stato di
benessere di un individuo o di una popolazione non unicamente legata all’intervento
sanitario, sia esso preventivo, curativo o riabilitativo. Tale concetto è stato
confermato ed ampliato dalla successiva dichiarazione di Alma Ata (1978), in cui si è
stato affermato che la salute è un diritto fondamentale dell’uomo e l’accesso ad un
piø alto livello di salute rappresenta un obiettivo sociale estremamente importante
che presuppone la partecipazione di molteplici settori socio-economici oltre a quelli
sanitari; ancora all’interno di questa stessa dichiarazione viene affermato che la
salute è la condizione che rende possibile lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Inoltre a Carta di Ottawa (1986) recita che “la salute è un concetto positivo che
amplifica le risorse sociali e personali, così come le capacità fisiche”. ¨ dunque
importante evidenziare, coerentemente con le definizioni appena presentate, il ruolo
fondamentale che la dimensione sociale è arrivata a ricoprire nel promuovere la
salute ed il benessere individuale.
Considerando la salute come processo, ovvero come stato complessivo legato alle
condizioni individuali e sociali della persona, è possibile notare, sia in ambito medico
sia soprattutto in quello psicologico, il passaggio dall’attenzione a correggere ed
elimnare fattori negativi, all’interesse per le risorse e le potenzialità che potrebbero
favorire la crescita e lo sviluppo individuale e sociale dell’individuo. Quindi dalla
preoccupazione per la salvaguardia della salute volta alla ricerca ed alla eliminazione
delle minacce e dei fattori di rischio per la stessa (health protection) si arriva a
promuovere stili di vita positivi e salutari (health promotion), quindi ad una gestione
attiva della salute attraverso la partecipazione di tutti gli individui. Oltre che di
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promozione della salute si è arrivati a parlare anche di costruzione della salute nelle
sue componenti bio-psico-sociali, in cui l’enfasi viene posta sull’individuazione di
indicatori positivi di salute.
Allo stesso tempo si giunge ad ampliare la questione della salute anche all’ambito
lavorativo occupazionale, comprendendo come la malattia possa influenzare anche
la produttività di un individuo, condizionando negativamente il suo reddito ed il suo
sviluppo e anche l’efficienza della sua organizzazione. Si sono infatti consolidati
alcuni settori di studio come quello della Psicologia della Salute Occupazionale
(Occupational Health Psychology, OHP), disciplina volta a promuovere la qualità
della vita lavorativa, attraverso la protezione della salute, della sicurezza ed del
benessere dei lavoratori (Schaufeli, 2004). Nel rispetto della definizione di salute
dell’OMS, l’OHP considera quattro livelli, strettamente interconnessi, che possono
allo stesso modo influire sulla salute del lavoratore: il livello individuale, il livello
organizzativo, l’ambiente lavorativo ed infine l’ambiente esterno (extra-lavorativo).
Nonostante la diffusione in letteratura di studi dedicati al benessere, soprattutto in
tema di salute organizzativa, ancora oggi non si è arrivati ad una definizione unica e
condivisa del termine “benessere”, ne tanto meno su un costrutto operazionalizzato,
sia che lo si consideri da un punto di vista soggettivo, sociale o lavorativo.
Oltre al concetto di salute, il benessere viene spesso associato anche al
concetto di felicità. Di seguito sono sintetizzati i punti di analogia e di distinzione tra i
due concetti.
Il benessere, inteso come interazione dinamica tra individuo e contesto, viene
concettualizzato anche come «felicità» e «soddisfazione per la vita» (Cicognani,
2001). Una forte sinonimia tra i due concetti è stata messa in luce da Collard (2006),
filosofo della scienza, che per definire il benessere a riproposto le considerazioni di
Bentham il quale, alla fine del settecento, nel formulare il noto principio della
maggiore felicità per il maggior numero di persone come «supremo fine» etico della
società e dei singoli, si interrogava (retoricamente) sulla possibilità di definire il
benessere e la felicità degli individui senza correlarli alla loro utilità. Tuttavia il
benessere e la felicità non possono essere completamente sovrapposti. La
differenza tra i due sta nel fatto che la felicità rappresenta la realizzazione
progressiva di un progetto di vita che viene formulato dall’individuo sulla base delle
risorse disponibili e acquisibili nel contesto sociale e culturale in cui si trova a vivere,