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Introduzione
Se ci troviamo sempre più sull‟orlo di una possibile crisi planetaria, se il
mondo deve affrontare una quantità di problemi e di rischi mai presentatisi in
passato e se il futuro della nostra civiltà tecnologica appare oggi quanto mai
incerto, la colpa non è della scienza o della tecnologia – ovvero
dell‟applicazione pratica delle scoperte scientifiche – bensì dell‟utilizzo
assolutamente dissennato che noi uomini facciamo di entrambe.
Le conquiste della scienza moderna sono, a dir poco, affascinanti. Negli
ultimi due secoli, l‟uomo ha imparato molte più cose che in tutto il resto della
lunga storia sua e della civiltà. Così, ora sappiamo sulle nostre origini e
sull‟universo che ci circonda ciò che appena i nostri bisnonni neppure si
sarebbero sognati di chiedere. Il progresso scientifico ha aperto nuovi
straordinari orizzonti nella comprensione rigorosa del mondo in cui siamo nati
e viviamo; per di più, numerose applicazioni pratiche di scoperte scientifiche
sono risultate utili a scopi benefici e di pace. Oggi, però, il sempre più precario
stato di salute del nostro pianeta e la spada di Damocle di un olocausto
nucleare e di altri disastri su scala planetaria suscitano, soprattutto in alcune
menti illuminate, una notevole preoccupazione. Le applicazioni belliche della
scienza, inoltre, si rivelano sempre più potenti e micidiali, mentre proliferano le
tecnologie civili sviluppate a scopo di lucro senza curarsi troppo dei loro
possibili effetti sull‟uomo o sull‟ambiente.
Dunque, la scienza sembra dover salire sul banco degli imputati, accusata
di essere la prima responsabile dell‟attuale stato di degrado e del minaccioso
futuro che si va prospettando per il nostro mondo e per la nostra civiltà.
Eppure, la scienza non è, di per sé, né buona né cattiva. Gli ordigni nucleari,
certi tipi di manipolazioni genetiche, l‟eccessivo inquinamento e tanti altri mali
moderni che ci affliggono o ci preoccupano, non sono colpa dello sviluppo
scientifico, bensì la conseguenza di errate scelte di fondo, che hanno
privilegiato le applicazioni pratiche della scienza a fini distruttivi rispetto alle
applicazioni a fin di bene. Mentre la scienza pura permette pian piano di
decifrare e leggere il misterioso libro della natura, il potere politico e quello
economico spesso finanziano lo studio di applicazioni tecnologiche delle
5
scoperte scientifiche che finiscono poi per bruciare le pagine di questo
meraviglioso libro.
Abbiamo letto tutto ciò anche dal punto di vista filosofico attraverso il
pensiero di Hans Jonas. Negli scritti di questo pensatore tedesco del
Novecento, emerge questa pericolosa discrasia - che caratterizza il mondo
attuale - tra il crescente potere della tecnologia e la nostra saggezza
nell‟utilizzarla: una separazione profonda tra la vera scienza, da un lato, e la
cultura dei politici, degli intellettuali e del grande pubblico, dall‟altro.
A questo si aggiunge la notevole e diffusa disinformazione scientifica, che
caratterizza la nostra epoca, e che ha una delle sue cause nella crescente
difficoltà oggettiva dei mass-media nel divulgare – e del pubblico nel
comprendere – i problemi del nostro tempo, sempre più complessi, numerosi e
interdisciplinari. Il maggiore difetto dell‟attuale cultura dell‟informazione,
fondata sulla quantità dei dati invece che sulla loro qualità, non è certo la
disponibilità di notizie o di contenuti scientifici, quanto la mancanza di una
loro contestualizzazione e di un loro approfondimento. Comunicare la scienza,
infatti, oggi non significa più solo divulgarla, ma anche sottoporla a un esame
critico non banale, collocando i nuovi risultati in una dimensione storica e
cercando di prevederne con rigore i molteplici aspetti ambientali, culturali e
sociali.
Ad aggravare le cose, vi è il fatto che la percezione del cosiddetto rischio
tecnologico – cioè di un pericolo derivante da una data tecnologia, quantificato
in termini di possibili effetti e di probabilità dell‟evento – non sfugge solo al
grande pubblico, ma anche agli specialisti. Vi è una grossa difficoltà, da parte
dell‟uomo, nel dare il giusto peso a certi tipi di rischi, in particolare a quelli
mai accaduti ma che potrebbero materializzarsi, provocando effetti catastrofici.
Erroneamente, il non essersi mai verificato prima lascia intendere, soprattutto
nel pubblico, una bassa probabilità che tali minacce si avverino.
D‟altra parte, un eventuale ricorso sempre più massiccio alla tecnologia per
risolvere i problemi generati da un cattivo impiego della tecnologia stessa non
avrebbe affatto un esito scontato. Innanzitutto, perché la tecnologia non è certo
infallibile; inoltre, sarà sempre più difficile trovare una soluzione ai gravi
problemi globali futuri agendo dopo che essi si saranno presentati,
semplicemente perché allora potrebbe essere troppo tardi: occorre quindi
6
anticipare tali problemi, più che porvi rimedio, e agire all‟origine, cioè sui veri
meccanismi che contribuiscono a crearli. Infine, ogni nuova tecnologia –
perfino quella al servizio pacifico dell‟uomo – nella misura in cui accresce il
potere di alcuni individui, oppure della nostra specie sulla natura, rappresenta
di per sé una minaccia.
La filosofia di Hans Jonas dà voce a tutto ciò, e gli dà un nome preciso:
misconoscimento uomo ‐natura. È da questo assunto che Jonas parte per
imporre alla filosofia contemporanea problemi fino ad allora per lo più ignorati
o mal compresi: la dinamica del rapporto tra tecnica, scienza ed economia;
l'utopia di un progresso illimitato; la vulnerabilità della natura. Ciascuno di
questi problemi si riverbera e trova spazio negli altri poiché sono tutti compresi
in un unico sfondo ontologico la cui declinazione essenzialmente etica sta nella
ricerca di una via che conduca “dall'essere al dover essere”, sulla base di un
“valore in sé” dell'essere.
Questa istanza etica in Jonas prende la forma di una filosofia della
responsabilità e, insieme, una responsabilità della filosofia nel contribuire alla
comprensione delle possibilità apocalittiche di cui il presente è gravido e
nell'affiancare la tutela politica dell'ecosistema. Ma il principio responsabilità
che ha reso celebre questo autore non va cercato in un'opera piuttosto che in
un'altra: l'etica di Jonas, prima che filosofia, è vita, è reazione di fronte alla
storia, è la spinta a realizzare il proprio ruolo sociale di filosofo in un mondo i
cui problemi stanno diventando catastrofe.
Per cogliere il senso dell'etica di Jonas è necessario aprirsi ad un pensiero la
cui aderenza alla realtà sta nel denunciare la non ‐aderenza della filosofia e
della scienza alla realtà, all'essere, nel proporre nuovi modelli conoscitivi e
nell'aprire uno spazio per un cambiamento necessario. Non solo interpretare il
presente, ma valutarlo sulla base di criteri etici condivisi che siano in grado di
guidare il giudizio e l'azione umana.
7
Primo capitolo: Rapporto uomo-tecnica
1.1 Hans Jonas: l’etica della responsabilità per il nuovo
agire tecnologico
Hans Jonas, filosofo del Novecento di origine ebraica, fino a ieri noto
soltanto come studioso dello gnosticismo, ha il merito di aver reinterpretato la
condizione umana nell‟età della tecnica. La sua riflessione, attenta e attuale,
confluisce nella sua opera più importante: Il principio responsabilità, apparso
nel 1979.
In questo classico della filosofia contemporanea, l‟autore delinea la
necessità di fondare una nuova etica, l‟etica della responsabilità, in grado di
controllare il nuovo agire tecnologico. Jonas perviene a tale conclusione sul
piano morale dopo aver dimostrato, con diversi esempi, come potrebbero
rivelarsi inquietanti le conseguenze del potere tecnologico.
L‟etica della responsabilità ha una sua precisa architettura, individuata
da Jonas in determinati principi, quali saggezza, umiltà e responsabilità: una
somma saggezza (che l‟uomo non possiede), è richiesta per non soccombere
alle dimensioni utopiche della tecnologia moderna, che prosegue verso un
progresso illimitato; un atteggiamento di riserbo responsabile si rende
necessario per via dell‟ignoranza circa le conseguenza ultime dei processi
tecnici; e infine, una nuova umiltà è indotta dalla grandezza abnorme del nostro
potere.
In aiuto della nuova etica, a cui spetta il compito di dirigere le
potenzialità del progresso, secondo Jonas non possono essere chiamate né la
religione né la paura; la religione come forza che foggia lo spirito non c‟è più,
la paura – che è spesso il miglior surrogato della virtù o della saggezza – può
esercitare un controllo sulle nostre azioni ma non è in grado di abbracciare
prospettive più ampie, che nell‟ambito dell‟etica sono ciò che più conta
1
.
1
«Dal canto nostro noi non temiamo il rimprovero di pusillanimità e di negatività quando
dichiariamo in tal modo la paura un dovere, che può essere naturalmente tale solo con la
speranza (della prevenzione): la paura fondata, non la titubanza, forse addirittura l‟angoscia,
ma mai lo sgomento e in nessun caso il timore o la paura per se stessi. Sarebbe invece
8
L‟etica deve reggersi sulle sue basi mondane – cioè sulla ragione e sulla
propria forza filosofica. E mentre della fede si può dire che c‟è o non c‟è,
l‟etica deve esserci, perché gli uomini agiscono e l‟etica serve a mettere ordine
nelle azioni e a regolare il potere di agire. Quindi è tanto più necessaria quanto
più grandi sono le capacità di agire che devono essere regolate.
E‟ proprio nella formulazione di un principio razionale, quello di
previsione, che l‟etica prende corpo. Il principio di previsione proibisce certi
esperimenti di cui è capace la tecnologia, poiché esso afferma che bisogna dare
priorità decisionale alle previsioni di sventura rispetto a quelle di salvezza. In
altri termini, potremmo riscrivere tale principio nel seguente modo: anche dei
palliativi imperfetti sono preferibili a una cura radicale promettente, in seguito
alla quale il paziente può morire.
1.1.1 La mutata natura dell‟agire umano
L‟avvento della tecnologia moderna ha prodotto un mutamento
qualitativo nella natura di certe nostre azioni. In realtà, l‟uomo non è mai stato
privo di tecnologia; la questione infatti verte sulla differenza tra la tecnologia
moderna e quella antecedente.
Nell‟antichità, le incursioni dell‟uomo nella natura erano
essenzialmente superficiali, e incapaci di turbare il suo equilibrio stabilito.
L‟immutabilità della natura, che nel saggio Tecnologia e responsabilità Jonas
definisce «l‟invulnerabilità del tutto in quanto ordine cosmico»
2
, era lo sfondo
di tutte le imprese dell‟uomo mortale. La vita dell‟uomo oscillava tra ciò che
perdura – la natura, e ciò che muta – le sue opere. La più grande di queste
opere era la città, resa stabile dalle leggi create per essa. Questa roccaforte di
sua stessa creazione costituiva l‟intero e unico ambito dell‟agire responsabile
dell‟uomo. La natura non era oggetto della responsabilità umana, poiché essa
provvedeva a se stessa. Ma alla città, dove gli uomini hanno a che fare con altri
pusillanimità evitare la paura ove essa sia necessaria». Hans Jonas, Il principio responsabilità,
p. 286, trad. it., Giulio Einaudi Editore, 2002, Torino
2
H. Jonas, Tecnologia e responsabilità, p.45, in H. Jonas “Dalla fede antica all‟uomo
tecnologico”, trad. it., il Mulino, 1991, Bologna
9
uomini, le si appropria la moralità. In questa cornice infra-umana si collocava
l‟etica tradizionale.
L‟intera sfera della techne era quindi eticamente neutrale: neutrale
rispetto all‟oggetto, perché influiva poco sulla natura e non sollevava danni
permanenti all‟ordine naturale nel suo insieme; neutrale rispetto al soggetto
agente, perché la techne concepiva se stessa come uno specifico tributo alla
necessità e non come un progresso illimitato e autoconvalidantesi verso il fine
primario dell‟umanità.
La techne antica considerava l‟entità «uomo» costante nella sua
essenza, e non essa stessa oggetto di una sua azione capace di darle nuova
forma. L‟etica era etica del qui ed ora, delle circostanze e delle situazioni
caratteristiche della vita pubblica e privata. L‟uomo probo affrontava queste
circostanze con virtù e saggezza, rassegnandosi per il resto all‟ignoto. Tutta la
moralità era conformata ad un campo d‟azione immediato, quello costituito dai
contemporanei, che interagiscono tra loro. Se l‟azione fosse buona o cattiva,
veniva deciso interamente in quel contesto limitato. Nessuno era ritenuto
responsabile delle conseguenze involontarie del suo atto. Al braccio corto del
potere umano non occorreva il braccio lungo della conoscenza predittiva.
Tutto questo è decisamente cambiato nello stato attuale delle cose. La
portata, gli obiettivi e le conseguenze della tecnologia moderna sono così nuovi
che l‟etica precedente non è più in grado di abbracciarli. Le vecchie
prescrizioni dell‟etica del «prossimo» sono ancora valide soltanto nella sfera
più prossima e quotidiana dell‟interazione tra gli uomini. Questa sfera è
eclissata dall‟estendersi dell‟ambito dell‟agire collettivo, in cui attore, azione
ed effetto non sono più gli stessi; un ambito estremamente potente, capace di
imporre all‟etica una nuova dimensione della responsabilità, mai immaginata
prima.
Le iniziative della tecnica umana hanno prodotto nel quadro tradizionale un
importante mutamento: la «vulnerabilità critica della natura»
3
. Questa scoperta
ha portato alla nascita dell‟Ecologia e ci ha rivelato che un oggetto di tipo
completamente nuovo – la Biosfera – si è aggiunto a quelli di cui siamo
3
H. Jonas, op. cit., p. 49
10
responsabili. Il novum su cui bisogna riflettere nell‟ambito dell‟etica è
rappresentato dall‟estensione della responsabilità umana alla natura.
Il confine tra città e natura è stato cancellato. La città degli uomini si
estende all‟intera natura terrestre e ne usurpa il posto. Tra naturale e artificiale
non esiste più differenza: il naturale viene assorbito nella sfera dell‟artificiale e
al tempo stesso la totalità degli artefatti - le opere dell‟uomo che influiscono su
di lui, generano una necessità con cui la libertà umana deve confrontarsi in un
senso completamente nuovo.
1.2 L’etica del nuovo agire
La nuova forma dell‟agire umano esige un‟adeguata etica della
previsione e della responsabilità, altrettanto nuova quanto i problemi che deve
affrontare: quelli dell‟homo faber.
L‟homo faber si volge a se stesso ed è pronto a trasformarsi nell‟artefice di
tutto il resto. Il pensiero etico non si è mai trovato di fronte alla possibilità di
scegliere delle alternative a quelli che venivano considerati i limiti definiti
della condizione umana.
Il più fondamentale di questi “limiti” è rappresentato dalla mortalità
dell‟uomo:
- la legge inesorabile della mortalità era oggetto di rammarico e
rassegnazione. Mito e leggenda si sono dilettati con questi temi su uno
sfondo di immutabilità; nella sfera dell‟azione e della decisione
operativa il problema era soltanto come riferirsi al dato indiscutibile.
Oggi, invece, con i risultati positivi nel campo della biologia cellulare
c‟è la speranza concreta di prolungare all‟infinito la durata della vita
attraverso la neutralizzazione dei processi biochimici
dell‟invecchiamento. La morte non appare più come una necessità insita
nella natura della vita ma come una disfunzione organica evitabile. Il
prezzo della longevità però deve essere un rallentamento proporzionale
nell‟avvicendamento delle generazioni, cioè un afflusso minore di
11
nuova vita. Ciò porterebbe una percentuale sempre più ristretta di
giovani in una popolazione sempre più anziana. Inoltre, se abolissimo la
morte dovremmo abolire anche la procreazione perché quest‟ultima è la
risposta della vita alla morte.
Un‟altra capacità quasi utopistica che si sta rendendo disponibile grazie
ai progressi della scienza biomedica è rappresentata dal controllo del
comportamento :
- sollevare i malati mentali dalla prostrazione e liberarli dai sintomi
inibenti sembra benefico. Ma dall‟alleviare le sofferenze del malato al
sollevare la società dal disagio di un comportamento individuale
problematico da parte dei suoi membri, il passo è breve. Si tratta del
passaggio dall‟applicazione medica a quella sociale e questo schiude un
campo indefinibile con potenzialità inquietanti.
I problemi che sorgono sono relativi alla dignità e ai diritti dell‟uomo.
Tutte le volte che evitiamo di affrontare problemi umani in modo
umano mettendo in atto un meccanismo impersonale, perdiamo un po‟
della nostra dignità ed individualità e compiamo un passo in avanti
verso i sistemi di programmazione del comportamento, allontanandoci
dalla condizione di individui responsabili.
Questo vale in misura ancora maggiore rispetto all‟ultimo oggetto di
una tecnologia applicata all‟uomo stesso: il controllo genetico degli
uomini futuri:
- l‟uomo vorrebbe acquistare il controllo della propria evoluzione non
solo allo scopo di preservare l‟integrità della specie ma anche di
modificarla. La nostra capacità di agire ci sta spingendo oltre i confini
di tutti i sistemi morali precedenti.
Se dunque la nuova natura del nostro agire esige una nuova etica della
responsabilità, essa esige anche, in nome di quella stessa responsabilità,
un nuovo genere di umiltà; un‟umiltà che, a differenza di quella
precedente, non è dovuta alla limitatezza ma all‟ampiezza eccessiva
delle nostre capacità, cioè alla preminenza della nostra capacità di agire
su quella di prevedere, valutare e giudicare.
Di fronte alle possibilità degli attuali progressi della tecnica, il fatto stesso
di non conoscerne le conseguenze diventa una ragione per stabilire con
12
responsabilità dei limiti. La nuova etica deve trovare la sua teoria in base alla
quale possa essere deciso ciò che si deve e non si deve fare. Secondo Jonas,
“capacità intuitiva” e “valore conoscitivo” sono le due forze a cui bisogna
appellarsi per rappresentare il futuro nel presente
4
. Per l‟importanza decisiva
delle nostre azioni, quella conoscenza autentica che abbiamo perduto è
diventata più necessaria e urgente di quanto lo sia mai stata in ogni altro
momento dell‟avventura dell‟umanità: «perseguire la saggezza, oggi, richiede
una buona dose di stoltezza»
5
.
1.2.1 Tecnica, libertà e dovere
Nel 1987 l‟editoria tedesca conferisce a Jonas il premio della pace. Jonas
riporterà il suo discorso di ringraziamento, tenuto a Francoforte l‟11 ottobre del
1987, nell‟autobiografia intellettuale Scienza come esperienza personale
(1992).
Nella motivazione della sua scelta, il consiglio della fondazione dichiara:
«La pace si fonda sulla responsabilità», e con questa affermazione - rileva
Jonas - «l‟editoria tedesca ha gettato un ponte tra il concetto di pace e il tema
che ha dominato gli scritti degli ultimi anni della mia vita»
6
.
Non bisogna dimenticare che Jonas ha vissuto lungo tutto il Novecento,
perciò ha conosciuto l‟epoca atomica
7
e quale migliore connessione tra i fatti
della storia del XX secolo e la sua apologia della responsabilità e della
prevenzione? Del resto, la strategia atomica è l‟ultimo grande risultato negativo
della tecnica:
«è evidente che nell‟epoca atomica la pace è divenuta il compito
supremo e permanente che richiama a una responsabilità dalle dimensioni
4
Questo per Jonas rappresenta un punto problematico: «proprio lo stesso movimento che ci ha
dotato delle capacità che ora devono venir regolate da norme – il movimento del sapere
moderno chiamato scienza – ha eroso in modo ineluttabile i fondamenti da cui queste norme
dovrebbero derivare; anzi ha distrutto l‟idea stessa di norma», Ibidem
5
Ivi, pg. 62
6
H. Jonas, Scienza come esperienza personale, p. 35, trad. it., Morcelliana, 1992, Brescia
7
«La minaccia atomica è in realtà solo un aspetto dell‟intera questione e forse anche quello più
facilmente dominabile con politiche internazionali concertate e strategicamente razionali».
Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas. Quodlibet, 2007, Macerata
13
cosmiche. La prevenzione come impegno principale imposto alla
responsabilità dallo smisurato potere della nostra tecnica non può essere
circoscritta solo a questo. Evitare il crimine chiaro e definitivo della
guerra è più facile che sfuggire a un pericolo che si avvicina in silenzio
per mille vie. Qui non possiamo semplicemente scegliere di astenerci. È
necessario infatti proseguire nello sfruttamento tecnico della natura, ma
appunto dobbiamo chiederci come e in quali proporzioni. Anzi la
questione più seria posta alla libertà umana è quella di stabilire se
possiamo o potremo decidere ciò»
8
.
Un‟onda nuova, più pericolosa, infuria dentro e spinge verso l‟esterno con
un impeto distruttivo: è “la forza travolgente della nostra civiltà nei suoi
effetti”. Siamo noi stessi ad aprire le falle, le brecce attraverso le quali il nostro
veleno si riversa per il mondo trasformando tutta la natura nella “cloaca
dell‟uomo”. Il pericolo da cui ora siamo circondati e da cui d‟ora in poi
dovremo lottare siamo noi: «Doveri nuovi e mai prima conosciuti sgorgano
dall‟impulso comunemente avvertito verso una salvezza»
9
.
Jonas rimarca il fatto che la tecnica è un‟opera della libertà umana. Ma
come coniugare la libertà all‟etica? Jonas lo fa individuando quali siano i
doveri della libertà:
«Il primo dovere di ogni libertà è che essa si ponga dei limiti. Infatti
solo così diviene possibile la società, senza la quale l‟uomo non può
esistere e neppure può dominare la natura. Quanto più è libera la società
stessa, tanto più diviene evidente e inevitabile il dovere di porre
limitazioni volontarie nei rapporti reciproci. Il nostro potere ci ha reso più
liberi e questa libertà comporta dei doveri. Insieme con le imprese del
nostro potere si è esteso di pari passo il nostro dovere che ora abbraccia
tutta la terra e anche il futuro lontano. È un dovere che ci tocca tutti,
poiché tutti siamo corresponsabili delle azioni e fruitori dei vantaggi
offerti dal potere collettivo. Esso ci prescrive di imbrigliare il nostro
potere per amore di un‟umanità futura che i nostri occhi non vedranno
più. La nostra natura morale è pronta anche a questo, come lo è per i
rapporti reciproci immediati? Giustizia, rispetto, compassione, amore,
impulsi di questo genere ci aiutano ad uscire dall‟angustia dell‟egoismo.
Tuttavia l‟idea astratta di un ipotetico essere umano futuro non provoca in
8
H. Jonas, Scienza come esperienza personale, p. 36, Morcelliana, 1992, Brescia
9
Ivi