1
1. Introduzione: i commenti a Petrarca nel Cinquecento
Nella prima metà del XVI secolo il Canzoniere petrarchesco si è già imposto come modello di
riferimento per la poesia lirica in Italia. La stampa sancisce il successo del Petrarca volgare rispetto
a quello latino: nell‟Italia settentrionale, tra Venezia, Padova, Bologna e Parma vengono pubblicate
le edizioni (Vindelino e Valdezocco) e i commenti più importanti (Ilicino, pseudo-Antonio da
Tempo, Filelfo).
La fortuna di Petrarca nel Cinquecento è legata alla stampa aldina, curata da Bembo, del 1501: a
Venezia, capitale dell‟industria tipografica, vengono pubblicati anche i commenti del toscano
Vellutello, del romagnolo Fausto, del napoletano Gesualdo. Inoltre, il commento a Petrarca si
rinnova grazie alla proposta del Vellutello (che si sostituisce a quella del Filelfo) e alle Prose della
volgar lingua (di cui si troveranno riferimenti nei commenti a stampa, estesi ed ufficiali, e nelle
diverse chiose dei postillati).
L‟aldina del 1501 rappresenta un modello per tutti i successivi commenti, in quanto è essa stessa un
commento, benché legato a fatti strettamente filologici e testuali. Quindi, le tappe fondamentali del
commento a Petrarca (Canzoniere e Trionfi) nella prima metà del „500 sono: prima aldina del
Petrarca (1501); prima edizione del commento del Vellutello al Canzoniere e ai Trionfi (1525);
commento di Fausto da Longiano al Canzoniere (1532); I luoghi difficili del Petrarca di
Giovambattista da Castiglione (1532); commento di Silvano da Venafro a Canzoniere e Trionfi
(1533); commento di Giovannandrea Gesualdo a Canzoniere e Trionfi (1533); quarta aldina con
Avviso di Paolo Manuzio e chiose (1533); Osservazioni del ferrarese Francesco Alunno (1539);
prima edizione del commento del Daniello a Canzoniere e Trionfi (1541); Annotazioni ai luoghi
difficili del Sansovino (1546); Dichiarazione et annotazioni del fiorentino Antonio Brucioli (1548);
seconda edizione del commento del Daniello (1549); prima edizione lionese di Rovilio con le
Annotazioni del Brucioli ed altre aggiunte ai Trionfi (1550).
2
2. Giovambattista da Castiglione: vita e opere.
Non possediamo molte notizie relativamente a questo commentatore. Nato a Firenze da una
famiglia nobile, ha unitamente conseguito gli studi di letteratura e diritto canonico: secondo gli
studi di Fabroni
1
, Giovambattista da Castiglione ha prestato la sua opera all‟Accademia fiorentina
fino al 1542, quando vi entrarono altri due dottori di diritto canonico (molto probabilmente il 1542 è
da considerare come data di morte, avvenuta a Firenze, del commentatore).
Giovambattista da Castiglione è autore di un commento ai Rerum vulgarium fragmenta
petrarcheschi (I luoghi difficili del Petrarca), pubblicato a Venezia nel 1512
2
e, successivamente,
nel 1532
3
; Trabalza
4
, sulla scorta di alcune osservazioni grammaticali contenute nel commento a
Petrarca, gli attribuisce anche una Grammatica toscana di cui tuttavia non si hanno altre notizie.
1
Cfr. A. Fabroni, Historia Academiae Pisanae, Pisis, 1792, p. 138.
2
Secondo Patrizi, curatore della voce relativa a Giovambattista da Castiglione sul Dizionario biografico degli italiani,
l‟editio princeps sarebbe del 1512; tuttavia, le ricerche di questo esemplare non ha nno avuto alcun esito.
3
Il presente lavoro si baserà su questa seconda edizione.
4
Cfr. Ciro Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano, 1908, p. 100.
3
3. I luoghi difficili del Petrarcha nuovamente dichiarati da m.
Giovambatista da Chastiglione gentilhuomo fiorentino.
Il testo oggetto della presente tesi è tratto dall‟esemplare posseduto dall a Biblioteca Trivulziana –
Archivio storico civico - di Milano: consta di 66 carte; le carte 2r-6v presentano macchie che non
consentono di leggere alcune parti. Per la trascrizione di queste, infatti, sono state utilizzate le carte
corrispondenti provenienti dalla copia del commento posseduta presso la Biblioteca civica
“Girolamo Tartarotti” di Rovereto.
Il volume, fascicolato in quaderni da A ad I, presenta anche la numerazione delle carte (2-66).
Il commento è costituito da una lettera prefatoria (c. 2r-2v), cui segue una “nota ai lettori” (c. 3 r);
inizia poi il commento vero e proprio (cc. 3r-66r). Infine è presente un indice, in cui sono riportati
gli incipit delle rime commentate e le carte corrispondenti (66v-67v) e una tavola degli errori più
importanti commessi durante la stampa (c. 67v).
3.1 Criteri di trascrizione.
Nella trascrizione sono stati osservati i seguenti criteri:
uso moderno di accenti, apostrofi e punteggiatura;
uso moderno di maiuscole e minuscole;
uso moderno nella divisione delle parole;
conservazione di h etimologiche e pseudo-etimologiche;
conservazione del nesso ti + vocale;
distinzione delle u dalle v.
In base alla tabella relativa agli “errori più importanti commessi nello stampare” , sono stati corretti
gli errori di stampa:
Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi: «furon radice di questa vita novella» (c. 20r) → «furon
radice novella».
Sì è debile il filo a c ui s‟attene : «Apuleio le chiama tre fatti» (c. 25r) → «Apuleio le chiama tre
fati».
N e la stagi on c he „l c iel rapi do inchina: «Perché fa tu quest? e man ha del proprio» (c. 33v) → «e
mancha del proprio».
Ne la stagi on c he „l c iel rapi do inchina: «con tanta attentione e piacere considerasse» (c. 35r) →
«considerassino».
4
3.2 I luoghi difficili del Petrarcha nuovamente dichiarati da m.
Giovambatista da Chastiglione gentilhuomo fiorentino.
MDXXXII.
Con gratia et privilegio.
ALL‟ILLUSTRISSIMO SIGNOre: il Signore Alphonso Marchese del Guasto: Giovambatista da
Castiglione.
NIUNO ILLUSTRISS. Signore, come si legge, in Persia si trovava ch‟el Re suo senza qualche
dono, per una certa usanza, visitato non havesse. Per la qual cosa interveniva che ciascuno, come da
una grandissima reverentia guidato, secondo la sua conditione, il più riccho e horrevolissimo di
portare sommamente s‟ingegnava. Laonde non manco a i Re l‟animo alcuna volta ch‟el presente
aggradire soleva. Hora, volend‟io baciare le mani a Vostra Illustriss. Signor., non m‟è paruto
sconvenevol cosa, né fuora di proposito, simil costume ritenere e con questa mia operetta a lei
venire, tirato certamente più dall‟inestimabile benignità e smisurata sua gentilezza, che di prode
Signore già, per tutto chiarissima risuona, e dalla ferma credenza ch‟io tengo ch‟ella habbia havere
della mia buona intentione, che dalla qualità e valuta punto del dono, il quale, se come degno di lei
havesse havuto arrechare, di molto più fatica e sapere che „ n me forse non è di mistieri stato mi
sarebbe. Ma non trovando hora cosa ch‟alle mie mani più ispedita di questa mi fosse e non volendo
appo lei con altro mezzo che del mio proprio valermi, m‟è stato di viva forza, non havendo per hor
altro, con questo partirmi, in guisa di gentilhuomo facendo, il quale il suo havere, le sue facultà, per
qualche sinistra e strabocchevole fortuna ricevuta, di non troppo patrimonio, né di troppa grandezza
conoscendo vorrebbe pure col suo bene e largamente spendere, esser tenuto cortese. Scusemi,
dunque, Vostra Illustriss. Signor., accettando il mio buon proposito, e non il presente, s‟io ho voluto
sfogare questo mio acceso desiderio, ch‟io ho di già lungamente portato, di far ch‟ella per suo buon
servo mi riconosca. E rivolgendosi a questi signori, le loro lodi e vertù con le sue contrapesando, in
altrui il pregio e la gloria sua veder potrà; né del mio ardire punto accusatrice non fia. La cui hoggi
nell‟afflitta e misera Italia, e ciò sia con pace detto, a guisa d‟un sole, a i valorosi cavalieri e a gli
huomini di vertù dotati, di somma cortesia e d‟incredibile liberalità solamente risplende; e a quelli
com‟unico rifugio e tranquillissimo porto si ritruova. Però, per sua gratia, con lieta e amorevol
faccia, queste mie fatiche, come per via di diporto, di legger si degni; sperando come la minuta
pioggia suole esser alcuna volta manifesto segno della maggiore, così io forse un giorno di più
riccha mercé ripieno dovere a lei con più pretiosa cosa venire.
5
MOLTE PIÚ COSE SAREBbono state necessarie all‟intelligentia del leggiadrissimo nostro Poeta,
che queste ch‟io ho qui solamente considerato e poste; e molto maggior senso e più copiosa dottrina
che la mia si ricercherebbe, le cui cose, se non in tutto, in parte [al] manco iscusi la mia travagliata
vita, la quale hoggi a‟ gravissimi colpi di fortuna tetragono d‟ess[ere] sommamente si sforza. Ma se
questo appresso de‟ benigni lettori scusa pienamente non acquista, un altro più sicurissimo scudo
prender mi lascino, mediante il quale difensione honestissima procacciare intendo. Perché, sì come
non debbe essere ripreso quel soldato che la militia di pié essercita, se non sa cavalcare e un destrier
attamente voltare, ma ben coll‟archibuso al segno tira, la picchia, la labarda degnamente maneggia;
il passo militare e tutta l‟ordinanza pedestre ottimamente possiede, così io mi son ingegnato di fare,
il quale non altro in questa dignissima e varia opera del Petrarcha procuro ch‟e sensi suoi, la mente
sua puramente ritrovare, lasciand‟agli alti ingegni di coloro che di me più sanno, l‟ornamento, l‟arte
poetica e mill‟altre leggiadrie, solo di questa parte contentandomi.
Sonetto
PER FAR UNA LEGGIADRA
5
. Questo Sonetto molti dicono al seguente contrariarse, perché in
questo narra che la sua vertù ristretta al cuore era per far difesa quando Amor l‟assaltò, nell‟altro
dice «TROVOMI DEL TUTTO DISARMATO ed aperta la via per gli occhi al cuore». Veramente,
a chi ben non considera, hanno in sé difficultà. Uno s‟intende in quanto alla potentia, l‟altro in
quanto all‟[att]o: vuol dir dunque in q[uest]o che, quand‟il colpo mortal là giù discese [ove si solea]
sp[unt]are ogni saetta, “la mia vertù ristrett‟al cor[e] era per far difesa”; era s‟intende in quanto alla
potentia. Ed è modo thosco frequente “com‟io era h[uom]o per difendermi, quantunque non mi sia
dife[so] IVI [nel] cuore”. [ET] NE GLI OCCHI. E anchora “la mia vertù era per far difese negli
occhi”. Ma non possete questa sua vertù per esser giunta all‟improvista, c ome fa un ch‟è assaltato a
tradimento che non può metter mano per l‟arme, né fuggire. PERÒ TURB. Questo però dipende dal
primo quadernario, perché celatamente e a tradimento Amor prese l‟arme, “però la mia vertù non
possete aitarmi non lo pensando”.
Sonetto
QUEL CH‟INFINITA providentia ed arte
6
. Il Poeta par che voglia che in Dio l‟arte sia diversa
dalla providentia; il che si può dir superfluo, perché secondo non solamente i Christiani, ma anchora
gli altri Theologi, il volere e l‟operare in Dio è il m edesimo; e così dicono haver fatto questo mondo
Iddio per la intelligentia e volontà sua, la quale non è altro che essa providentia. Perché quello che
vuole Iddio, quello opera e l‟arte in quello è il volere. Puossi rispondere secondo S. Thomaso che la
providentia divina dall‟arte divina solamente per ragione e non per effetto si distingua e potriasi dire
anchora ch‟egli intenda providentia per previdentia, la quale in Dio è diversa dalla providentia,
perché il suo conoscere senza l‟operare è la previdentia , il conoscere con l‟operare è la providentia,
quantunque appresso i Greci alcuna volta si confondono in quanto alle parole.
Sonetto
SÌ TRAVIATO È ‟L FOLLE
7
. GUSTANDO, da chi è gustato: come i Latini «cantando rumpitur
anguis». Alcuna volta questo gerundio ha un‟altra significatione, qualmenti vergognando per
vergognandomi; come meravigliando per meravigliandomi, così il medesimo al primo Capitolo
d‟ amore l‟ha posto «Onde io meravigliando dissi hor», come qualche volta con in, come
“inaspettando un giorn o”, cioè inaspettare come alla canzone I‟ v o p e nsando «e nel pensier
5
Per fare una leggiadra sua vendetta [RVF II].
6
Qu e‟ ch ‟ in fi n ita p r o vid en tia e t a r te [RVF IV].
7
S ì tra vïa to è „ l fo lle mi‟ d esio [RVF VI].
6
m‟assale durò molti anni»; “inaspettand‟un giorno” ed in vari altri modi, come appieno nella
gramatica mia Thoscana dire intendo.
Sonetto
LA GOLA E „ L SONNO
8
. A chi si mandasse il presente sonetto non fa di mistieri, affaticarsi.
Puossi dire al Boccacio, perché fu molto povero; il quale chi si fosse conforta non lasci gli studii
delle buone lettre per darsi all‟arte mechanice mostrandogli, benché la gola e l‟otio, i quali pone per
tutti i piaceri sieno cagione, non si stimano hoggi le vertù, per questo debbe seguitare i suoi studi,
consistendo la vertù nelle cose difficili. SBANDITA. Dicesi sbandire e sbandeggiare, bando e
sbandeggiamento, quantunque sbandeggiamento è più della prosa che delle rime proprio, come nel
Decamerone si può vedere. OND‟È. Onde per gli cui vitii universali, i qu[ali] pone per la gola e
l‟otio. NOSTRA N[ATURA] vinta dal costume è quasi smarita, è quasi uscita del suo corso:
costume intende per usanza e così è da vedere, perché voglia che la natura sia uscita fuora del suo
corso per esser vinta dall‟usanza. Pone Platone nel suo Protagora che naturalmente l‟huomo non è
inclinato al male, m‟al bene, il che prova così. Se l‟huomo ha innazi duoi mali, sempre elegge
quello che gli par minore e benché si gabbi nella sua elettione, tutta fiata l‟intentione sua è del
mancho male e così niuno naturalmente elegge quello ch‟è male o, al mancho, quello che gli par
male; il che, s‟enterviene, è perché l‟huomo non sa, il cui non s apere chiama la malatia dell‟animo,
la quale viene dalla mala usanza nostra. Però dice il Poeta «nostra natura vinta dal costume», ch‟è
essere superato da‟ piacer i, i quali mette per la gola e „ l sonno come parte per il tutto. ED È SÌ
SPENTO OGNI. Questi duoi versi si possano intendere in duoi modi: come continovativi de‟
superiori e dichiarativi di quelli; e che quello imiti Cicerone nel terzo delle Tuscolane, il quale dice
così. La natura n‟ha dato certi fuochi e certe faville di sapere, i quali per le ca ttive oppenioni che ci
sono insegnate gli spengiamo, in modo che niuno lume della natura apparisce. Puossi dire che non
sieno dichiarativi de‟ superiori e sieno da per loro e ch‟egli habbi imitato Dante nel XVII del Purg.,
alludendo all‟intelletto agente, il quale s‟informa e piglia l‟essere dalle influentie celesti, le quali
ministrano qua giù l‟attività, per dir così, e così che voglia dire dell‟operatione dell‟intelletto senza i
sensi, la quale dice essere spenta per causa della concupiscentia che quel pone per la gola e „ l sonno
e l‟otio, perché l‟huomo con questa parte dell‟intelletto si fa più simile a Dio e quasi Iddio, come
dice S. Giovanni: «dette Iddio all‟huomo potestà di farsi suo figliuolo», il che viene a essere
mediante tale intelletto. Porrò i versi di Dante: «CHI MOVE TE se „ l senso non ti porge? MOVETI
lume che nel ciel s‟informa per sé o per voler che giù lo scorge».
Sonetto.
A PIE‟ DE‟ COLLI
9
. Sono certissimo che molti diranno ch‟io voglio fare ch‟il Poeta nostro fosse
platonico contro a sua voglia; ma questi tali che ciò diranno o vero già mai cosa niuna platonica
havranno veduto, o vero il Poeta nostro non havranno inteso. Perché conosceranno nel processo
della mia espositione me dalla viva forza a tutto ciò esser tirato. Chiama in questo sonetto il
Petrarcha l‟anima di M.L. pigliar la veste, pigliare il corpo, perché secondo i platonici, de‟ quali il
Poeta nostro fu imitatore per essere stato studioso di S. Augustino, quasi essa anima di Platone,
ponevano l‟anima vestirsi del corpo qua ndo la si univa alla materia; e quanto erano, secondo loro,
più purgati essi corpi, tanto più egregiamente l‟anime operavano. Onde volevano l‟anime delle
spere più delle nostre nelle loro operationi possenti e a niuna mente volevano fosse dato più grave
corpo ch‟all‟huomo. Onde Mercurio trimegistro chiama l‟huomo in duoi modi: uno interiore, ch‟è
l‟anima; l‟altro esteriore, ch‟è il corpo, il quale chiamavono ancora vaso. Però allegoricamente
comandavano non si lasciassi imbrattare il vaso, né bevervi bestie, mostrando non fosse vinto né
8
La g o lla e „ l so n n o et l‟ o tïo s e p iu me [RVF VII].
9
A p ie‟ d e ‟ co lli o ve l a b ella ve s ta [RVF VIII].
7
dalla parte della concupiscentia, né dalla parte dell‟ira. E così parea a quelli l‟huomo haver miglior
vaso, cioè meglior corpo, quanto più attamente fosse composto e più egregiamente; la qual cosa il
Poeta nostro toccha dicendo «la bella vesta» e intende dell‟huomo esteriore e interiore, come in più
altri suoi luoghi vedremo. Perché M.L. era quasi che vicina al temperamento, d‟onde l‟authore
temea di sua vita come facile all‟offensione, come al sonetto Amor na t ura e la be ll ‟a lma umile.
PRIA. Questa parola pare a molti superflua, ma, se con dritt‟occhio risguarderanno, così non parrà
loro: perché, come pongono i naturali scrittori havendo l‟huomo ogni giorno nuovo corpo, l‟anima
viene havere ogni dì nuova vesta e così questa parola pria starà in quanto alla prima veste,
intendendo del nascimento di Laura, che fu la prima veste. Chiamavano anchora l‟huomo essere
l‟anima ch‟usa il corpo. MA DEL MISER. Questi tre versi hanno l‟ordine così: «Ma noi condotte
da altra vita [serena] un sol confor. del mis. stato ove noi semo» e chiama condotte dall‟altra vita
serena, cioè dalla libertà. E DELLA MORTE. «E anchor havemo un sol conforto della morte»: e
così finge che tali augelli parlino e dichino havere duoi conforti, uno del essere loro in gabbia, o ver
rinchiusi, ch‟è per veder il Petrarcha anchor lui prigioniero di Laura; l‟altro conforto che
quantunque essi temino di morire, anchora vedano il Poeta per le passioni amorose di Laura vicino
alla morte. E così son due rispondentie molto artificiose a chi ben le considera e di loro, e del
Petrarcha.
Sonetto
QUANDO FRA L‟ALTRE
10
. DA LEI ti vien l‟amoroso pensiero. Due cose dice in questi sei versi
venir da Laura: una mediante la bellezza e vertù di Laura, perché mediante quelle va di grado in
grado alla consideratione di Dio; l‟altra è esso effeto di venire alla salvatione, come nella canzone
Verdi panni «non s‟aspira al glorioso regno cert‟in più salda nave» e nelle tre Sorelle «questa è la
vista ch‟al ben far m‟induce» ed in più luoghi. SE NTERO. Sentiero e via, in quanto alla proprietà
thosca sono differenti: via s‟intende tanto della publica, quanto privata; sentiero propriamente della
privata e de‟ quella che i latini chiamono diverticulum. In questo significato l‟usa propriamente il
Boccacio nel Decamerone nel Proemio «S‟io havesse possuto menarvi per altra parte a quello ch‟io
desidero, che per così aspro sentiero», come fia questo dove vuole intendere “s‟egli havesse havuto
altro diverticolo”; e così è hoggi l‟uso thoscano, quantunque i poeti lo vadin variando.
Sonetto
MUOVESI IL VECCHIEREL
11
. COSÌ LASSO TALHOR. Havendo parlato insin qui del
vecchierello che vuol vedere il volto santo, così dice far esso e può haver duoi sensi: o ch‟egli
intenda per haver quello una imagine di M.L., come si prova per il sonetto Per mirar Policleto a
prova fiso col seguente: per questo dica «così lasso, vo cercand‟io». E „ n questo caso la
comparatione del vecchierello a M.L. è perfetta; puossi intendere andasse cercando d‟una donna
simile a Laura, il che par costringa la parola cercando; ma in vero così non è, perché può così uno
andar cercando la vera havendone una finta, come non l‟havere, perché il fin suo è della vera. Onde
il primo senso molto più mi piace e così altrui s‟intenderà, o in altra donna, o altrui in lui.
Sonetto
QUAND‟IO SON tutto volto
12
. Questo sonetto, per viva forza si convien continouare col superiore
PIOVOM‟AMARE LAGRI . A volere cavarne senso, risponde adunque alla seconda parte del
antecedente, ch‟era quando Laura s‟era partita, ch‟è: «ma gli spirti miei s‟agghiaccion» e così nel
pensier gli restava M.L. È da considerare questo modo differente dalle sestine: la sestina ripiglia le
10
Qu a n d o fr a l‟ a ltr e d o n n e a d o r a a d o r a [RVF XIII].
11
Movesi il vecchierel canuto et biancho [RVF XVI].
12
Qu a n d ‟ io s o n tu tto vo lto in q u ella p a r te [RVF XVIII].
8
medesime parole, col medesimo significato proprio; qui in tutto varia il significato, ma le parole le
medesime. Così si trova nei compositori antichi ossevato. Onde bisogna esporre «presso il fin della
mia luce»: luce per vita e così è forza, andare variando l‟altre parole di significato l‟una dall‟altra.
Sestina
A QUALUNQUE ANIMALE alberga in terra
13
. Tutta questa sestina contiene ch‟e „ l dì sospirava,
la notte piangeva. A questa pare contrario il sonetto T utt ‟e „l dì piango e poi la notte; quando dove
dice non sospirare il giorno, ma pianger e „ l dì e la notte, il che il Poeta intende che quantunque
piangesse il dì, nientedimeno nella notte si raddoppiovano le passioni. Come è suo termine che
l‟auora è più felice hora per lui e così il dì gli era manco di passione. CHE M‟HANNO fatto di
sensibil terra: puossi intender in duoi modi, cioè di sensibil d‟huo mo, il quale è propriamente
sensibile, terra, cosa morta, cosa attonita; e così sarà il punto al sensibile. Nel secondo modo, può
stare il punto a terra e sarà il senso: “m‟hanno fatto troppo terreno”. Come dicea Platone intendendo
d‟Aristotile ch‟essi ero no huomini troppo terreni, che troppo seguitavano il senso; e così dice il
Poeta che le stelle l‟hanno fatto tutto inclinato a M.L. Il primo mi quadra più. DESIR. Bisogna stia,
altrimenti dicendo DESTINO direbbe il medesimo venir il destino dalle stelle, cosa troppo sciocha e
varia, perché chi ha una cosa dalle stelle l‟ha dal destino. E perché il suo desire venga dalle stelle
alla c anzone de ‟ c inque p oe ti lo riserbo.
Canzone
NEL DOLCE TEMPO DELLA PRIMA
14
. Questa canzone, secondo il giuditio del medesimo
Poeta, è la più bella ch‟ei facesse infino al tempo della compositione della canzone LASSO me chi
non son qual parte pieghi dove, allegando nel fine di ogni stanza un verso d‟una canzone d‟un
degno poeta di quei tempi, nel fine della canzone allega uno de‟ suoi. Ci sono varie trasformazioni
delle quali, confessando d‟una ch‟abbi allegoria, dell‟altre confessar conviensi. DURO SCEMPIO.
Scempio, in lingua thosca, vuol dire semplice, solo, cosa non doppia: onde si dice una veste scempia
senza fodera e così per similitudine si dice un huomo scempio un huomo sciolto, quasi senza
compagnia di bene alcuno. Scempio substantivo, per quanto posso haver notato, non lo trovo posto
se non per la disgratia, per la disaventura; come Dante nel canto X dell‟ Inferno «ond‟io a lui lo
stratio e „ l grande scempio», dove sta in questo medesimo significato. Dante nell‟ Inferno, al canto
XXV, parlando di quella trasmutatione di Francesco di serpente in huomo, dice che prima havendo
Francesco il viso lungo l‟accortò; fece gli orecch i delle gote scempie delle gote prima di serpente
senza orecchie. E così scempie intende sole, non accompagnate, essendo col agiunto e adietivo. Il
Petrarcha usa il verbo scempiare per far disgratia, come al sonetto Se bianche non son prima ambe
le tempie che più mi strazzi o scempie. I‟ DICO CHE DAL DÌ. È da considerare ch‟il Petrarcha
s‟innamorò d‟età d‟anni XV in circa d‟un'altra che Laura, ma non dimorò quasi punto in tal‟amore e
fu di poco momento; hora lo toccha in questo luogo, medesmamente lo dimostra il sonetto. Per far
una leggiadra dicendo vendetta che presuppone vendetta, a questo medesimo proposito si mostra nel
primo C apit olo d‟ amore. E cominciò: «gran tempo è ch‟io pensava vederti qui fra noi, che da
prim‟anni tal presagio di te tua vista dava ». INFIN AL‟HOR PERCOSSA DI TUO STRALE non
essermi passat‟oltre la gonna. È da considerare ch‟a questo luogo pare contrario: espressamente,
secondo alcuni, quel terzetto del primo C ap. de l l‟am ore «E FU BEN VER MA GLI AMOROSI
AFFANNI MI SPAVENTARSI CH‟IO LA SCIAI L‟IMPRESA, MA SQUARCIATI NE PORTO
IL PETTO E I PANNI». E in questo luogho dice non essergli passato oltra la gonna percossa di suo
strale; e pur parla di tal suo prim‟amore, dalla qual difficultà tirati alcuni ammendano. «Ma
squarciato ne port‟anchor gli panni», cosa troppo licentiosa, per non dir prosontuosa; perché a chi
13
A qualunque animale alberga in terra [RVF XXII].
14
Nel dolce tempo de la prima etade [RVF XXIII].
9
ben guarda e considera è facile, vuol dir il Poeta. MA SQUAR. Ma sta adversative: “ ma, cioè, hora
dell‟amore di Laura io ne porto non solamente squarciato i panni, ma il petto” e qu est‟è „ l senso.
GIOVENILE aspetto. Questa parola giovenile la mette il Poeta per la tenera età, come nella canzone
In que ll a part e dov ‟A mo r mi sprona «onde s‟i‟ veggio in giovenil figura incommicciarsi l‟anno».
FACENDOMI D‟HUOM. È da vedere perché la prima trasformatione fosse in lauro e come si
debba intendere. Pare che nella seguente stanza che se vogliamo intendere che metta il lauro per la
speranza ch‟ella gli mancasse, dicendo “all‟horchè fulminato è morto, giacque il mio sperare”. Di
poi nel fine della canzone par si contrari, dicendone per nuova figura il primo alloro, là onde si può
dire. E la ragione ne stringe ch‟il poeta per questa prima trasformatione voglia intendere due cose: e
in quanto alla speranza; e in quanto quello non si parti giamai dalle voglie di Laura. E così questa
trasformatione ha duoi significati: in quanto alla speranza e in quanto sempre fu alle vogli di L.;
«come ogni amante nel amato si trasforma», in quanto alla speme mancho d‟esser lauro, in quanto
all‟essere alle voglie di Laura fu sempre lauro. Però, per nova figura il primo alloro intendendolo
così non sarà contrario a questo. COME OGNI MEMBRO all‟anima RISPONDE. Puossi intendere
in duoi modi: perché nel primo l‟anima non servisce al corpo, come volevano i platonici, ma il
corpo all‟anima. E così l‟anima viene in questo corpo, secondo loro, e piglia quel vehicolo, quel
carro, quella treggia, come ombra d‟essa anima ed entra in questo nostro corpo come in una
prigione; alla quale il corpo, se l‟anima non è vinta per l‟amore di questa materia, sempre obedisce.
Però si può dichiarare: “COME ogni membro all‟anima risponde”, ciò è come questo nostro corpo
humano, le membra del quale obediscono all‟anima. E così sia il senso che voglia intendere de‟
piedi de‟ quali era l‟operation e: o dello stare, o del muovere come voleva l‟anima. Perché è proprio
di quella guidare questo corpo per le ragioni dette. Puossi intendere, secondo l‟oppinione
d‟Avicenna e simili, i quali vogliono ch‟a tutto il corpo, non mediante alcuna parte di quello né per
sue potentie, ma immediate a tutto il corpo e alle sue parti come forma d‟esso ch‟egli dà l‟essere.
Per la qual cosa secondo la sua essentia è in tutte le parti del corpo, come si dice d‟una cosa ch‟ogni
sua stanza risponde ben l‟una all‟altra; e co sì voglia qui intendere il poeta tal trasformatione essere
stata perfettissima in lauro per allegoria, mostrando in tutto essere divenuto alle voglie di Laura
«come l‟amante nel amato si trasforma». COSÌ LUNGO L‟AMATE rive andai. Osserva le tre
proprietà del cygno: cantava come el cygno con voce lamentabile; amava l‟acque, perché intorno a
quelle cercava di Laura. Era biancho per il pallore. CANTAVA: “ io, Petrarcha”, ed è prima persona
del passato, tempo imperfetto. Io cantava: e così è usato da‟ Thosci ant ichi; hoggi l‟uso loro è in o,
il che chi l‟usassi non sarebbe perciò un peccato in Spirito Santo, come dicono questi riformatori o
sconciatori, per dir meglio, della lingua nostra. Ed io più ampiamente di ciò e di molt‟altre cose
nella mia gramatica thoscana disputare intendo. Né lo concedo loro per primo principio, come lo
fanno con STRANIA VOCE. Strania o lamentabile o strania per essere M. Francesco thosco e
Laura francesca. MA MOLTO PIÚ DI QUEL CHE PER INNANZI. Il senso è questo: “è bisogno
ch‟io dica molto più di quello ch‟io ho patito per l‟avenire”, cioè “da qui innanzi, ch‟io non ho fatto
per lo adietro, benchè sia tal ch‟ogni parlare avanzi, benchè questo ch‟io ho patito sia tal ch‟avanzi
ogni parlare”. Alcuni intendono per lo innanzi “per lo adietro” e variano il senso: il che, se mi
trovassino per lo innanzi “per lo adrieto”, concederei loro ogni cosa. Ma il Boccacio, nella prima
giornata, alla novella prima, alla novella di Ser Ciappelletto; e nella medesima giornata, alla novella
VIII di Ferondo; e nella X alla novella IIII di M. Gentile Garisendi; nelli cui luoghi ed in altri assai
vuol dire “per lo advenire”. BENCHÉ sia tal ch‟ogni: “benché tante sieno state le passioni ch‟io ho
havuto per il passato ch‟avanzino ogni parlare”. È d‟avertire di f are il punto fermo mi coce, perché
molti vogliono habbi dipendentia dal verso superiore e che s‟habbi a dire: ma molto più mi coce di
quel ch‟è per innanzi, cosa da ridere e da fanciulli. ET DICEA MECO. “Io Petr. se cost. mi. sp.
null. vi. mi. f. no”. A FA RMI LAGRIMAR SIG. MI. RI. “Signor mio Amor, torna a farmi cigno e
ogni altra trasformazione”, che questa MI SPETRA, “fa ch‟io non sia pietra”. Non mi ricordo già
haver trovato il suo verbo scempio come petrare, spetrare sì com‟ nella canzone M ai non v o‟ pi ù
c antar c om‟ io sole v a «quanto posso mi spetro e sol mi sto» e impetrare, farsi pietra come nella can.
Sì è debile il filo a c ui s‟ att e ne «E perché pria tacendo non m‟impetro?»; e Dante medesimamente.