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II capitolo: multiculturalismo e percezione della diversità nella letteratura
In questo capitolo sono stati analizzati i concetti di multiculturalismo, identità,
percezione, pregiudizio e stereotipo emersi dalle interviste e confrontati con gli stessi
concetti presenti nella letteratura. Successivamente sono state elencate le leggi che
regolano e tutelano l‟immigrazione in Italia. Si è concluso con una mini – guida in
lingua inglese sui diritti degli immigrati nel nostro Paese.
Multiculturalismo e processi di inclusione ed esclusione sociale
Per multiculturalismo s‟intende “la coesistenza di più culture all‟interno di uno stesso
paese”. Il termine rinvia a una serie di pratiche sociali, posizioni filosofiche e ideologie
politiche che, avendo tutte per oggetto la problematica della convivenza di espressioni
culturali diverse entro un sistema istituzionale comune, hanno tuttavia dato risposte di-
versificate
29
.
Questa è la definizione più generica che troviamo curiosando tra le varie definizioni
del termine multiculturalismo. In realtà, nella società d‟oggi, dove la globalizzazione
gioca un ruolo importante nella vita di ogni individuo, questo fenomeno si trasforma,
come dice Rivera, semplicemente in un‟accettazione dell‟ineguaglianza. Il fascino che
una simile varietà umana esercita è enorme; basta pensare alla molteplicità di usanze,
cibi, vestiti, o musiche che porta con sé. Ma grande è anche la difficoltà di mantenere un
livello accettabile di coesione. I problemi d‟inserimento sono all'ordine del giorno, a
partire da quello linguistico. Soprattutto, però, la convivenza tra gruppi di provenienza
molto diversi finisce spesso per metterli in conflitto l'uno contro l'altro.
Ci sarà spesso una situazione di una cultura dominante e di minoranze che si identifi-
cano in espressioni culturali e religiose diverse. Allora, di per sé, non vuol dire nulla es-
sere favorevoli o contrari al fenomeno, ma bisogna capire in che misura l'analisi e i con-
cetti che descrivono questo fenomeno lo rappresentano in modo realistico o lo falsifica-
no. Attenendomi alle riviste raccolte, ho rilevato che questo fenomeno è presente anche
29
Per approfondire si veda Pluralismo multiculturale in Europa, a cura di R. Gallisot e A. Rivera
nel Comune di Maserà, dove coesistono gruppi di provenienza molto diversi tra loro e
dove la convivenza risulta essere non sempre positiva. Ci si riferisce al fatto che molti
degli Italiani intervistati non accettano la presenza di alcuni immigrati nel paese e prefe-
rirebbero non conviverci.
Il termine multiculturalismo deriva da cultura, termine che rimanda a un insieme, un
contenitore di stili di vita, di riti, di simboli, di lingua che unificano un certo numero di
persone, un "popolo", e che possono convivere su un certo territorio. Esistono differen-
ze di gusti, stili di vita, cucina, ma all'interno di un mondo che è già unificato economi-
camente. Politicamente magari no, ma economicamente sì. Quando si dice extracomuni-
tari, formalmente bisognerebbe intendere Marocchini, Neozelandesi, Americani e Giap-
ponesi e così via. Ma dubito fortemente che qualcuno abbia pensato a un americano o a
un giapponese quando sente la parola extracomunitario che dunque è economicamente
connotale. Il concetto di multiculturalismo, a mio avviso, è falsificante. Viaggiando
all'estero probabilmente non c'è nessuna differenza tra New York, Milano, Bologna, Pa-
rigi, Berlino se uno ovviamente ha dei soldi. Se non uno non ce li ha e si va lì come
immigrato, allora le questioni son totalmente diverse e nascono i conflitti mascherati da
culturali. Da un‟intervista emerge proprio questa problematica: una signora sopra i 40
anni afferma mio figlio lavora in Brasile per una nota multinazionale e che spesso ha
ospitato a casa sua in Italia giovani stranieri che lavorano con lui; aggiunge li ho ospi-
tati volentieri perché è gente con i soldi, che sta bene, con una buona educazione, di
conseguenza so che posso fidarmi e per questo non ho avuto niente da dire; invece
quelli che vengono qui come immigrati sono tutti poveri e vengono qui per i soldi, ma
spesso non lavorano, rubano. Perciò più che di differenza di culture, si parla di diffe-
renza tra ricchezza e povertà; tutto ciò è dovuto a un pensiero comune di percezione
dell‟altro sbagliato, l‟altro è diverso solo in base ai soldi che ha e non in base alla sua
cultura. Queste idee nascono dalla società e dall‟affermarsi di stereotipi che portano i-
nevitabilmente a questi concetti.
A questo punto sorge pure la domanda, e la religione che ruolo compie? Si scopre al-
lora che non dobbiamo immaginare la religione come una specie di etichetta che defini-
sce un essere umano. Noi forse ci sentiamo rappresentati dal fatto di essere cristiani o
cattolici ma la religione descrive delle differenze, descrive dei grandi contenitori. Noi
55
troviamo individui che probabilmente hanno un'appartenenza culturale e condividiamo
paradossalmente, più cose con persone magari che vengono dal Marocco, dall'Algeria,
di quante non ne possiamo condividere con altre che vivono accanto a noi. Eppure ca-
diamo sempre nella stessa trappola di dire: religioni o culture diverse.
Il concetto di multiculturalismo nasce negli Stati Uniti nei primi anni ‟80 da una pro-
testa studentesca in cui si chiedeva che alcuni insegnamenti di base, come la storia o la
letteratura fossero adattati ai diversi background degli studenti americani
30
. Questo per-
ché i contenuti delle discipline focalizzavano l‟attenzione sull‟Europa e non sulle altre
nazioni di origine della popolazione studentesca. Questa manifestazione era stata prece-
duta inoltre dalle lotte per i diritti dei neri e delle donne e portò alla necessità delle per-
sone di modificare in senso multiculturale i contenuti di alcune discipline universitarie
e quindi di affiancare, per esempio, ai poeti europei quelli africani. In Europa
l‟emigrazione dalle ex colonie in Gran Bretagna, in Francia e in Olanda iniziò negli anni
‟50-60; l‟emigrazione come fenomeno consistente arrivò in Italia molto più tardi. Da
noi, il termine multiculturalismo ha assunto dagli anni ‟80 il significato di necessità di
costruire una società che coniugasse la coesistenza di culture. Da qui tutta una elabora-
zione sulla necessità di costruire una cultura dell‟accoglienza per gli emigrati, una de-
mocrazia multiculturale e dibattiti su problemi concreti come quello del crocifisso nelle
scuole o del velo delle donne musulmane. Dibattiti che sono molto accesi ancora oggi e
che emergono anche nel piccolo comune di Maserà.
La fine dell‟ Unione Sovietica aveva lasciato stabile la superpotenza americana mul-
tietnica e multiculturale, lo specchio dell‟universo in una sola grande nazione: allora è
formulabile la fine di una storia e la nascita di un mondo globalizzato, democratico, li-
berale, multiculturale, privo di conflitti, dove il libero mercato avrebbe portato la felici-
tà. Il sogno è durato poco perché sono riapparse grandi potenze come la Cina, l‟India, la
Russia, l‟Iran, il Brasile, nazioni con ambizioni militari e economiche.
Di conseguenza in Europa si sono formati principalmente due modelli multiculturali,
quello francese e quello britannico. Il modello britannico, detto pluralismo culturale, si
30
Vedi l’articolo: “Considerazioni sul multiculturalismo” di Daniela Coli, 14 ottobre 2007, L’Occidentale
basa su parole chiave come diversity, equality e integration (diversità, uguaglianza e in-
tegrazione) che rivela un progetto di accettazione della diversità, di garanzia
dell‟uguaglianza e di inclusione dei gruppi diversi nella società nazionale
31
. Anche il
pluralismo britannico rimanda al dibattito sul multiculturalismo, ovvero sulle problema-
tiche della convivenza di gruppi culturali diversi all‟interno di una società e punta alla
valorizzazione e al rispetto di tutte le differenze, a un‟armonica coesistenza fra i diversi
gruppi di una società politica liberale e tollerante. Per provare a realizzare questo obiet-
tivo il pluralismo concede spazi pubblici alle minoranze etniche o religiose, sotto forma
di “diritti collettivi”. Il dibattito sul multiculturalismo ha una matrice filosofica e si di-
vide in due dimensioni: da una parte i liberali, dall‟altra i comunitaristi. I liberali soste-
nevano che la cultura di un gruppo non doveva essere tutelata; i comunitaristi sostene-
vano invece che concedere diritti collettivi alle minoranze, non era un problema. Taylor
(1993) afferma che lo stato deve farsi garante dei diritti collettivi, tutelandoli. Haber-
mans (1998) invece critica la posizione di Taylor, rilevando che la tutela dei diritti indi-
viduali implica la tutela dei diritti collettivi. Kymlica (1999) sintetizzando le due posi-
zioni, ha elaborato un modello di cittadinanza multiculturale in cui lo stato è chiamato a
intervenire per garantire a tutti la non discriminazione. Ma perché il suo intervento pos-
sa essere efficace, oltre ai diritti universali riconosciuti a tutti gli individui, lo stato deve
poter disporre di diritti specifici per le minoranze. I comunitaristi credono nel modello
britannico di tipo pluralista, mentre i liberali si appoggiano al modello assimilazionista
francese secondo cui “uno stato veramente democratico non può che essere cieco a
qualsiasi differenza e considerare tutti i cittadini in modo eguale per garantire loro asso-
luta parità e piena libertà” (Colombo, 2002: 46). Lo stato in questo caso non può ricono-
scere diritti collettivi e differenze in base all‟appartenenza, anzi tutti gli individui sono
uguali e perciò i diritti individuali sono tutelati. Ciò significa che l‟individuo deve ri-
spettare le norme che vigono in un determinato territorio in cui vive. Gli immigrati
quindi devono comportarsi come i cittadini del paese ospitante adattandosi alle loro
norme; un‟uguaglianza dunque che si risolve nella piena assimilazione nel paese ospi-
tante (Colombo, 2002: 46).
31
Queste e le osservazioni che seguono sono tratte dall’Introduzione di Donatella Schmidt al testo Tre
paesi, un progetto. Percorsi formativi con donne migranti, a cura della stessa D. Schmidt e di Antonio
Marazzi
57
La critica più rilevante, mossa contro questo modello, è quella riassunta dallo stesso
Colombo: “la richiesta di piena adesione a ideali universali maschera in realtà
l‟imposizione della volontà di uno specifico gruppo dominante. La piena eguaglianza
della vita pubblica, raggiunta secondo principi di razionalità e imparzialità, si traduce,
nella pratica, nell‟accettazione della lingua, della storia e delle tradizioni del paese ospi-
tante, negando legittimità e spazio d‟espressione ad altri tratti culturali provenienti da
diverse tradizioni e appartenenze” (2002: 47). La critica al modello britannico invece è
riassumibile nei seguenti termini: “prefiggendosi l‟obiettivo di proteggere e salvaguar-
dare i gruppi etnici, culturali come si fa con le specie animali in via di estinzione e favo-
rendo il mantenimento di barriere rigide tra l‟uno e l‟altro, alcuni inseriscono automati-
camente l‟individuo in uno di tali gruppi in funzione dell‟ascendenza e della filiazione
senza tenere conto né dell‟eventuale volontà di cambiamento di identità che egli espri-
me né dei mutamenti effettivi che si producono durante il suo percorso sociale. Che si
tratti di pratica sociale o di ideologia questo tipo di pluralismo equivale ad assegnare
all‟individuo un‟appartenenza culturale, imponendogli un‟identità della quale egli po-
trebbe volersi disfare. Così facendo il multiculturalismo di ispirazione pluralista può
rinsaldare le barriere tra le comunità culturali o etniche e di fatto allontanarle le une dal-
le altre impedendo a chi così voglia di lasciare il suo gruppo per aderire al gruppo mag-
gioritario” (Colombo, 2002: 83). Ci sono però degli aspetti positivi in entrambi i model-
li, ad esempio il principio associazionista come base per una mobilizzazione dei gruppi
di minoranza, capace cioè di trasformarli da recettori della categorizzazione altrui a ma-
nipolatori di categorie, e dunque non parti di una storia assegnata, ma parti di una storia
cercata e di ribaltare così i termini della relazione con la maggioranza
32
.
Avendo esaminato i due modelli, britannico e francese, mi risulta, in base alle inter-
viste, che nonostante le società spesso affermino di adottare il modello multiculturale
britannico, i cittadini di Maserà seguono idealmente il modello francese, adottando
un‟ideologia di rifiuto delle differenze sociali e propendendo verso l‟assimilazione cul-
turale. Contrariamente a come si potrebbe pensare, anche i giovani immigrati a Maserà
non considerano la loro etnicità e tendono ad uniformarsi alla società d‟accoglienza, an-
dando a perdere quei valori che i più anziani, immigrati dal 1991, cercano con tutte le
32
Per approfondire: Introduzione di D. Schmidt
loro forze, di portare avanti. Il fenomeno dell‟immigrazione a Maserà è cominciato ad
essere importante dagli anni ‟90, quando sono iniziate le prime immigrazioni dai Balca-
ni; sono proprio questi immigrati che mantengono le loro differenze culturali e la loro
etnicità; la seconda generazione di immigrati invece è interessata a integrarsi nel paese
ospitante, tralasciando almeno apparentemente la diversità culturale e adattandosi alle
pratiche sociali del paese in cui vivono.
Identità etnica: dentro, fuori, in mezzo
A tutti sarà capitato di fare un viaggio al di fuori dell‟Italia, convivendo con persone
di culture diverse dalla nostra, sicuramente la sensazione di accettazione o rifiuto di cer-
ti aspetti della cultura straniera ci avrà coinvolto. Ẻ qui che si inizia a parlare di identità
di un gruppo o etnica, identità che evolve e cambia a contatto con un‟altra cultura. Arri-
vare però all'integrazione significa prima di tutto comprendere il concetto di identità
personale, che è strettamente legata all'identità etnica. L'identità personale deriva dall'e-
sperienza propria del soggetto del sentirsi esistere e del sentirsi riconosciuto dagli altri
in quanto essere singolare nella sua realtà fisica, psichica e sociale
33
. Si tratta di un pro-
cesso attivo che implica la rappresentazione del sé nel proprio ambiente e che si costrui-
sce attraverso l'esperienza della comunicazione sociale. L'identità personale è collegata
a quella sociale, che si manifesta con la partecipazione ai gruppi e alle istituzioni, in
quanto legata ai processi di integrazione. Nella persona l'identità personale coesiste e
convive con l'identità etnica, che è un concetto più ampio. Un gruppo etnico o un‟etnia è
una collettività che identifica se stessa, o che viene identificata da altri, secondo criteri
di tipo etnico, cioè in funzione di alcuni elementi comuni quali: la lingua, la religione, la
tribù, la nazionalità, la razza o una combinazione di tali elementi, e che condivide un
sentimento comune di identità con gli altri membri del gruppo
34
.
L'identità etnica è la consapevolezza di appartenere a una comunità, a una cultura e
di essere diversi da chi si riconosce in altre comunità e in altre culture. Ẻ ciò che accade
quando un individuo emigra in un altro paese, con un‟altra cultura. Secondo Fabietti
non si può pretendere che l'individuo che emigra abbandoni la propria lingua e le pro-
33
Ugo Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Roma, Carocci editore, 1998
34
Ibidem pag. 63
59
prie usanze, ma non si può neanche pensare che chi accoglie debba adeguarsi a quelle
altrui. Nei fenomeni di immigrazione, il processo di ricostruzione dell'identità personale
e culturale dell'individuo può incontrare quindi ostacoli differenti. Gli stranieri immigra-
ti, nel corso della loro socializzazione, devono confrontarsi con diverse ipotesi di identi-
tà: quella originaria, quella del Paese d'arrivo, quella che nel Paese d'arrivo è ritenuta
l'etnicità presente nel Paese di partenza, quella che la famiglia ritiene essere l'etnicità del
Paese d'immigrazione.
Ci sono varie ipotesi d‟identità, tra le più comuni e tra quelle che sono state rilevate
dalle interviste, c‟è l‟identità che attua una resistenza culturale quando l'atteggiamento
prevalente dell‟immigrato è quello di continuare a fare riferimento alla cultura e all'i-
dentità del proprio Paese d'origine, riducendo al minimo i rapporti e i contatti con la so-
cietà ospitante; questo è ciò che accade soprattutto tra gli immigrati più anziani e che
sono arrivati a Maserà negli anni „90. Questi immigrati sono quelli che si chiudono alla
comunità ospitante e che vivono ai margini
35
. Le differenze culturali continuano ad es-
sere percepite come diversità culturali, portando l‟immigrato a mantenere le proprie u-
sanze e differenze anche nel paese ospitante, rafforzando l'identità originaria e manife-
standola agli altri.
L'assimilazione avviene invece quando l‟immigrato aderisce pienamente alle norme e
allo stile di vita del paese d‟arrivo, rinnegando, tutto ciò che ha a che fare con la cultura
d'origine, o almeno non manifestandolo a contatto con i cittadini del paese ospitante.Ẻ
quello che capita soprattutto tra i giovani immigrati che adottano le usanze e gli stili di
vita dei cittadini di Maserà, in modo da evitare l‟emarginazione per facilitare
l‟integrazione
36
. L'assimilazione è stata per decenni l'obiettivo principale della politica
migratoria proposta dai governi dei Paesi occidentali. Oggi il modello dell'integrazione
mediante assimilazione è tramontato e ciò ha significative conseguenze sui minori, che
da un lato chiedono assimilazione (persino giungendo a disprezzare le proprie origini),
mentre dall'altro la società d'arrivo non è disposta a concederla se non a parole.
35
Deduzioni ottenute osservando la vita sociale di alcuni immigrati più anziani a Maserà
36
Deduzioni ottenute osservando la vita sociale di alcuni giovani immigrati a Maserà
Si arriva quindi alla condizione più frequente: la marginalità. Molti stranieri vivono
al di fuori e ai margini sia della cultura d'origine sia di quella di arrivo, incapaci di pro-
porre essi stessi una proposta d‟identità alternativa. Si verifica infine, sempre secondo
Fabietti, un fenomeno di doppia identità, ovvero quando l'identità viene formata dal
continuo confronto fra i due mondi. Ẻ il risultato di una strategia relazionale che si è ri-
velata idonea nel processo di integrazione nella società d'arrivo, evitando la marginalità.
In genere la doppia identità è ritenuta la soluzione migliore, perché permette all'immi-
grato un maggiore equilibrio, una maggiore capacità critica, una maggiore obiettività e
sensibilità. La critica è che questa soluzione rappresenti una aspirazione difficilmente
realizzabile, poiché nel processo identitario non conta solo la trasformazione della per-
sona, ma anche la reazione del nuovo Paese. Nell'esperienza migratoria infatti, ciò che
rende faticoso e a volte pericoloso il contatto tra culture differenti è principalmente l'as-
senza di agenti di mediazione tra l'esperienza precedente, nel Paese d'origine, e l'espe-
rienza nel Paese d'accoglimento. Le culture sono ed esistono in quanto ci sono gli uomi-
ni che le condividono. Cercare di capire le varie differenze comporta un doppio movi-
mento della mente: è un andare verso "l'altro", ma è anche un ritorno verso noi stessi per
vedere e capire la nostra cultura. Se si vuol capire l'identità dei migranti non la si può
percepire dai contesti in cui questi vivono nei Paesi di accoglimento e dalle relazioni
che vi hanno stabilito; capire l'identità culturale dell'immigrato significa soprattutto, ca-
pire con quale livello culturale la società di accoglimento cerca di omologarlo al proprio
interno: purtroppo di solito si tratta del livello culturale più basso, quasi marginale o
marginale, cioè quello culturalmente meno potente.
Somiglianza e diversità dello straniero: la formazione di stereotipi e pregiudizi
Parlando di immigrazione è inevitabile discutere sulla somiglianza e sulla diversità,
perché arriviamo a parlare di diversità? Perché ci sono state lotte tra gli uomini bianchi
e quelli neri? Perché questi ultimi sono sempre stati considerati inferiori? Perché oggi
anche nel piccolo comune di Maserà ci sono stereotipi e pregiudizi nei confronti degli
immigrati? Dobbiamo cercare la risposta nella letteratura. La consapevolezza che siamo
tutti uguali e tutti diversi viene percepita da qualsiasi persona. Sempre secondo Fabietti,
la differenza è che se una persona non riesce ad aprirsi con un‟altra, non riesce ad istitu-
61
ire un dialogo reale, ma sotto la forma fittizia del dialogo, svolge un monologo con se
stesso, nel quale l‟altro è ridotto ad uno specchio per l‟esercizio narcisistico dell‟io.
Ma prima di passare alle somiglianze vere e proprie è bene chiarire nuovamente il
concetto di cultura. Oggi la società è multietnica e culturalmente composita e per l‟Italia
è un fenomeno inaspettato, perché a differenza degli altri paesi europei, l‟Italia ha avuto
poche esperienze coloniali che non sono state rilevanti quanto le altre citate, anzi sono
stati gli italiani stessi che sono immigrati verso altri paesi. L‟impreparazione ad affron-
tare questo fenomeno ha portato all‟insegnamento dell‟interculturalità nelle scuole
37
.
Questa scelta è legata all‟emergere di pregiudizi, intolleranze, conflitti, talvolta di espli-
citi e aggressivi razzismi di fronte alla presenza degli stranieri, problemi di convivenza
che ai più apparivano improbabili in una società fondamentalmente democratica come
quella italiana. L‟educazione interculturale è quindi in genere collegata da un lato
all‟inserimento degli allievi stranieri, dall‟altro alla prevenzione dei fenomeni di intolle-
ranza e di razzismo che paiono connessi alla presenza dei cosiddetti extracomunitari.
Nell‟educazione interculturale appaiono costitutivi tre elementi: il primo è il concetto
stesso di cultura, sul cui significato è il caso di soffermarsi. Nel linguaggio comune esso
indica un alto grado di scolarizzazione o la produzione di una élite intellettuale: una per-
sona illetterata è quindi definita incolta; un popolo o un periodo storico senza significa-
tive espressioni del pensiero ufficiale (filosofico, letterario o artistico che sia) è conside-
rato culturalmente irrilevante. Nel significato antropologico il termine cultura indica in-
vece “l‟insieme delle rappresentazioni mentali socialmente elaborate che l‟individuo in-
teriorizza fin dalla nascita per orientarsi nella realtà ed entrare in rapporto con il conte-
sto in cui si trova a vivere”
38
. Rispetto al termine usato nel senso comune si tratta quindi
di un concetto assai più ampio, che ha introdotto un rivoluzionario mutamento di pro-
spettiva nel pensiero occidentale. Secondo l‟accezione antropologica infatti non si dà
popolo, gruppo sociale o individuo senza cultura o che ne abbia più o meno di altri, poi-
ché ciascuno possiede schemi di riferimento per conoscere, valutare, agire, elaborare il
proprio rapporto con la realtà. Viene a cadere la distinzione gerarchica per la quale le
37
Va chiarito, anche se non mi soffermo, che il concetto di intercultura nasce proprio in Europa e in
ambito scolastico.
38
Signorelli Amalia, Antropologia culturale, Milano, Mc Graw-Hill Company, 2007
società letterate e le classi egemoni sarebbero uniche detentrici di cultura, mentre popoli
senza scrittura e classi subalterne rimarrebbero fuori di essa e fuori della storia, prive di
ogni interesse conoscitivo
39
. Sono proprio al contrario quelle società e quei gruppi so-
ciali ad essere stati oggetto privilegiato di studio per la ricerca antropologica.
Sempre secondo la Signorelli, il secondo elemento da considerarsi costitutivo
dell‟educazione interculturale è il problema dell‟etnocentrismo. Con questo termine si
indica l‟atteggiamento secondo cui la propria cultura è considerata ovvia e naturale,
l‟unica o la migliore. Si tratta di un‟attitudine comune a tutti: pensieri, percezioni, con-
cezioni e usi del corpo, valori, modalità di rapporto e atti sono filtrati o organizzati dai
modelli culturali che abbiamo interiorizzati. Non ci si può sottrarre al fatto di mettere al
centro del mondo la cultura espressa dal proprio gruppo e da esso appresa. Si tende tut-
tavia a distinguere questo atteggiamento spontaneo da un etnocentrismo ideologico che,
prodotto di una vera e propria elaborazione intellettuale, legittima la superiorità di una
cultura sull‟altra e la discriminazione, la disuguaglianza e lo sfruttamento.
L‟etnocentrismo ideologico ha caratterizzato, in modo più o meno manifesto, il pensiero
e l‟espansionismo dell‟Occidente, che nella sua storia ha fatto del proprio modello di
sviluppo un metro di valutazione universale e della politica di dominio la naturale con-
seguenza della propria idea di superiorità
40
.
L‟evoluzionismo, che ha dominato la seconda metà del secolo scorso e gli inizi di
quello presente, si colloca ad un estremo degli orientamenti di pensiero che sono stati
elaborati lungo la storia delle scienze sociali e, in particolare, dell‟antropologia.
L‟ipotesi evoluzionista risolve la questione delle differenze ordinandole entro un succe-
dersi prefissato di leggi di sviluppo. Le culture “altre” non sono sostanzialmente diverse
da noi: si trovano tuttavia ferme a stadi che l‟Occidente a suo tempo ha già superato.
Esse sono quindi documenti viventi di un passato che ci appartiene ma che ci siamo la-
sciati alle spalle. Entro questa concezione unilineare della storia secondo cui i gruppi
umani si dispongono dal più semplice al più complesso, da forme inferiori a forme su-
periori di pensiero, da forme più arretrate a quelle più avanzate di organizzazione eco-
39
Ibidem pag. 31
40
Tahar Ben Jelloun, Il razzismo spiegato a mia figlia, Milano, Bompiani, 2005, p. 27
63
nomico-sociale, l‟Occidente si colloca nello stadio di maggior progresso che anche gli
altri possono raggiungere, specie se opportunamente aiutati a bruciare le tappe. La di-
versità delle culture viene quindi a ridursi attraverso il loro ordinamento entro un‟unica
linea evolutiva in cui la nostra civiltà si trova all‟apice.
Quindi che cos‟è la diversità? Ẻ il contrario della rassomiglianza, di ciò che è identi-
co
41
. La diversità può essere una ricchezza, perché ogni uomo ha delle caratteristiche
che lo rendono unico, ma può essere un elemento negativo nel momento in cui la diver-
sità viene interpretata come pregiudizio e ignoranza, manifestando sentimenti ostili di
invidia, odio, paura e risentimento. Da questi sentimenti nasce il razzismo e la discrimi-
nazione.
Il pregiudizio è presente in tutte le società. Di solito s'instaura nei confronti di altri
gruppi etnici o sociali; oppure, all'interno di una stessa società, da parte di un gruppo
verso un altro gruppo o classe sociale. Emerge gradualmente a partire dai primi contatti
sociali che ogni individuo sperimenta. Ẻ strettamente dipendente dall'educazione ricevu-
ta, dalla fede religiosa, dallo stato socio-economico, dal contesto culturale di apparte-
nenza, dall'ideologia dominante nel proprio ambiente.
Anche il pregiudizio ha un contenuto percettivo, cognitivo, emotivo e comportamen-
tale, e dura nel tempo. Dipende in misura maggiore da fattori sociali che da esperienze
individuali
42
. Il meccanismo di produzione del pregiudizio è la sua proiezione, ovvero
l‟individuo proietta negli altri ciò che teme possa accadere e lo associa a tutti quei tipi di
persone che secondo lui appartengono a quel gruppo o classe sociale. Ecco perché parla-
re di pregiudizio implica anche parlare di conflitti tra gruppi sociali o tra comunità reli-
giose Allport
43
ha pubblicato un volume dal titolo: La natura del pregiudizio, in cui è
analizzato in modo ampio il problema del pregiudizio. Ciò che interessa maggiormente
evidenziare riguarda un aspetto dell‟opera di particolare valore ancora oggi, nonostante
la data di pubblicazione del testo ci riporti agli anni Cinquanta. Si tratta infatti del rap-
41
Tahar Ben Jelloun, Il razzismo spiegato a mia figlia, Milano, Bompiani, 2005, p. 11
42
Fonte: enciclopedia Encarta alla voce pregiudizio
43
G. W. Allport, The Nature of Prejudice, Cambridge, Addison Wesley Publishing Company, 1954;
tr.it. La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia, 1973 pag. 475-494
porto che si stabilisce fra frustrazione e aggressività nella genesi del pregiudizio e le
conseguenze che questo può assumere nella teoria del cosiddetto "capro espiatorio", ov-
vero della tendenza a colpire i membri di un gruppo con cui non ci si identifica.
Partendo dal presupposto che il pregiudizio sia riferibile a certe fonti di frustrazione,
Allport costruisce una specie di classificazione di esse, identificando quattro diversi li-
velli:
a) fonti costituzionali e personali;
b) frustrazioni in famiglia;
c) frustrazioni nella comunità vicina;
d) frustrazioni nella comunità lontana.
Alcune caratteristiche individuali, come ad esempio la bassa statura, o altre mag-
giormente svantaggiose, possono costituire una causa di nervosismo per tutta la vita. Ma
non sembra che questa fonte di frustrazione possa essere collegata al pregiudizio.
È invece dimostrato dalla ricerca psicologica come il pregiudizio sia spesso associato
a disturbi familiari. Una atmosfera di rifiuto e una educazione molto rigida, fondata su
autoritarismo e cieca obbedienza, possono fortemente condizionare la genesi del pre-
giudizio nel bambino. Le esperienze che si compiono nella vita quotidiana, al di fuori
della sfera familiare, sono in genere più frustranti di quanto non accada dentro le mura
di casa. La vita nella scuola, nel lavoro, non consente quel recupero affettivo che la fa-
miglia concede ai suoi membri.
Naturalmente molte frustrazioni nascono da condizioni di vita difficile a livello so-
cio-economico.
Nei Paesi occidentali, caratterizzati da una complessità sociale esagerata, da un livel-
lo di invadenza del mercato elevata e da una forte competitività, le fonti di frustrazione
sono molto ingenti, sia dal punto di vista quantitativo, che qualitativo. "La civiltà pro-
fondamente competitiva degli Stati Uniti genera assai spesso uno stato di irritabilità
nell‟individuo che non riesce a raggiungere i livelli di successo fissati per lui: così nella
scuola come nella considerazione sociale, nel successo professionale e nella stabilità e-
conomica. Tale spirito competitivo può in parte spiegare perché ogni nuovo arrivato
senta all‟inizio di essere destinato al fallimento".
La risposta alla frustrazione quindi, è forse il problema principale collegato alla di-
namica del pregiudizio. Non è vero che la frustrazione conduca sempre ad una qualche
65
forma di aggressività. Se questo lo fosse, tutti noi, saremmo pronti ad aggredire il pros-
simo e a riversare su di esso una certa quota di pregiudizio. Secondo Allport, la più co-
mune e la più normale forma di reazione nei confronti della frustrazione consiste nel
tentativo di superamento dell‟ostacolo che si frappone fra i nostri desideri e il loro sod-
disfacimento, e cioè la rimozione di ciò che impedisce il raggiungimento di uno scopo,
e cioè la causa della frustrazione. Scrive Allport: "possiamo affermare che alcuni fru-
strati tendono a incolpare se stessi dell‟esperienza frustrante; si tratta degli individui au-
topunitivi. Alcuni hanno un atteggiamento così distaccato nei riguardi della vita che non
biasimano nessuno: sono gli apunitivi. Ma altri ancora vedono (e cercano) in modo par-
ticolare agenti esterni da incolpare. Questo tipo ateropunitivo di reazione può avere una
base realistica (se è veramente identificabile una fonte di frustrazione), o non realistica,
se il biasimo è indirizzato male. Naturalmente è solo il tipo di risposta eteropunitiva ad
esigere la presenza del capro espiatorio".
Sempre secondo il ragionamento di Allport, il termine "capro espiatorio" ha origine
dal rituale ebraico descritto nel libro del Levitico (16, 20-21). Nel Giorno
dell‟Espiazione venne scelto un capro fra il gregge; casualmente. Il sacerdote, vestito
con panni di lino, pose le mani sul suo capo e confessò l‟ingiustizia dei figli d‟Israele. I
peccati dell‟intero popolo ebraico vennero così trasferiti, in modo simbolico, sul capro,
che venne poi portato nel deserto e lasciato libero. Il popolo si sentì liberato dai mali
che aveva commesso e per un certo periodo di tempo si sentì senza colpe. Ciò che gli
uomini hanno appreso da questo rito consiste nel maturare l‟idea che una colpa possa
essere "lavata", trasferendola su qualcosa di altro. In realtà molte delle questioni poste
da Allport riguardano un livello di analisi che richiede una valutazione dei fattori incon-
sci che entrano in funzione nel momento in cui un soggetto incolpa un "altro" qualsiasi
delle sue condizioni di sofferenza. E quanto più tale sofferenza è negata, e cioè non av-
vertita a livello razionale, tanto più è probabile che il pregiudizio si manifesti. Per chia-
rire, il pregiudizio è un atteggiamento ostile verso un gruppo di individui, basato princi-
palmente sull‟apparenza. Secondo Allport il pregiudizio etnico é: “un‟antipatia basata
su una generalizzazione irreversibile e in mala fede. Può essere solo intimamente avver-
tita o anche dichiarata” (Allport, p.13). Lo stereotipo invece, è una generalizzazione fat-
ta su un gruppo di persone, da questo si può formare la discriminazione, cioè un‟azione
negativa o dannosa verso un gruppo o una classe sociale. Quindi il pregiudizio è una