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Capitolo I
GIUSTIZIA, DIRITTO E COSTITUZIONE
1.1 Rapporto tra Diritto e Giustizia
La parola deriva dal latino justitia che a sua volta deriva da justus,
"giusto", e questo da jus, diritto, ragione. Se ci volgiamo alla storia,
vediamo un immane campo di battaglia dove fazioni dell‟umanità si
sono affrontate, combattute e sterminate in nome di loro proprie e
opposte concezioni della giustizia. La giustizia degli uni era
l‟ingiustizia degli altri. Attualmente nelle nostre società, vivono
numerose concezioni della vita giusta e queste sono continuamente in
confronto le une con le altre, si influenzano reciprocamente e, in
presenza di situazioni e problemi in precedenza sconosciuti, si
modificano, muoiono e altre ne prendono il posto. Questa situazione
di pluralismo o anche, di relativismo della giustizia, rende impossibile
la giustizia assoluta. Quest‟ultima, è dunque inattingibile al genere
umano che da sempre la cerca, ma non la troverà. Ognuno di noi
potrà credere di averla trovata, ma sarà solo la sua giustizia e non è
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detto che coincida con quella degli altri. La giustizia universale è un
miraggio, un‟illusione; nobile certamente ma, altrettanto certamente è
da credere che sia una nobiltà assai pericolosa. Chi crede di possedere
la verità, o coloro che credono di possedere le chiavi per intendere il
senso e la legge della storia umana, sono particolarmente esposti al
rischio del fanatismo e del dogmatismo, in materia etica e politica.
Poiché la giustizia è esigente, chi la possiede, non potendo esimersi
dal servirla con tutte le sue forze e con tutti i mezzi di cui dispone, con
questi sarà portato ad agire per convertire gli erranti o, se la
conversione non riesce, talvolta a eliminarli. La norma kantiana della
giustizia, agisci in modo che la massima della tua volontà possa
sempre valere come principio di una legislazione universale, può
contenere una componente di aggressività. Soltanto in coloro che
considerano la verità una continua ricerca attraverso la libertà, ovvero
soltanto nella coscienza dell‟inesauribile insondabilità della verità e
della giustizia c‟è l‟antidoto della violenza. Nel discorso sulle
beatitudini, il «discorso del monte» (Matteo, 5, 6 e 10) non si parla
affatto dei giusti come di coloro che hanno trovato la giustizia e la
mettono in pratica, ma come di quelli “che hanno fame e sete della
giustizia” e di quelli che sono “perseguitati per causa della giustizia”.
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La giustizia che è concessa agli esseri umani è una ricerca, un andar
cercando, lungo strade piene di pericoli. Dunque non si tratta di un
abbaglio o di un miraggio, ma di un aspetto della humana condicio.
L‟intera storia del diritto è una storia di una tensione, spesso
drammatica, tra due soli lati, il lato della legge positiva (potere) e il
lato che attiene al pre-positivo, ovvero, il lato che attiene con la
giustizia (verità). Questa tensione è stata esposta nel modo più
radicale nella Antigone di Sofocle. La riflessione greca sulla giustizia
e sulla legge ha radici antichissime, ed è affidata prevalentemente a
testi poetici, letterari e filosofici; i termini portanti di questa
riflessione sono: themis, dike, nomos. Il termine Themis deriva dal
greco e significa "porre nell'esistenza", dare un fondamento.
Letteralmente, themis sta ad indicare la regola stabilita dagli dei.
Dike, non è sentita da Omero come divinità, ma come "costume,
ordine, diritto"; con Esiodo il suo significato si precisa e spazia da
quello di "sentenza" in una contesa, a concetto astratto , a divinità
personificata, la Giustizia, Dike figlia di Themis. Il termine dike
deriva dal greco e significa "indicare" e dal latino dico, verbo della
lingua dei tribunali, che mostra con autorità di parola ciò che deve
essere. Nomos è il sostegno di cui necessitano Themis e Dike per
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essere salvaguardate. Nomos è un punto nodale dell'esperienza
religiosa e insieme politico-giuridica del mondo greco, e, con
l'evoluzione del pensiero etico, viene ad assumere, a seconda dei
tempi, degli autori, dei singoli contesti, sempre nuove accezioni.
Il significato originario di nomos è "costume, consuetudine" , che
varia a seconda dei luoghi e dei tempi: ne offre un esempio calzante
Erodoto nel passo dove mette a confronto il nomos, cioè il costume
degli Indiani Callati e quello dei Greci riguardante la sepoltura dei
genitori. Per gli Indiani è nomos mangiare i genitori defunti, mentre
per i Greci un simile costume è empietà. Egli osserva: Se si
proponesse a tutti gli uomini di fare una scelta tra tutti i costumi e si
ingiungesse loro di scegliere i più belli, ciascuno, dopo un attento
esame, sceglierebbe quelli del suo paese. E conclude citando il
famoso passo di Pindaro: Questa è la forza della consuetudine; e, a
mio parere, rettamente ha poetato Pindaro, quando affermò che
Nomos di tutti è Re, Nomos panton basileus. Pindaro afferma: Nomos,
che di tutti è Re, dei mortali e degli immortali, guida rendendo giusta
la cosa più violenta, con mano che tutto sovrasta (sublime). Nel
frammento, da alcuni studiosi è stato visto il tentativo da parte del
poeta di risalire, al di sopra della singola divinità olimpica, ad un
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principio superiore a uomini e a dei, che è in grado di risolvere in se
stesso ogni eventuale dicotomia tra il mondo degli dei e il mondo
degli uomini, il Nomos basileus. Esso è la garanzia che, al di là della
molteplicità dei fenomeni che riescono inspiegabili o dolorosi, c'è una
volontà onnicomprensiva che, magari con "fortissima mano", realizza
un saggio ordinamento universale". Dunque, la legge deve essere
interpretata attraverso una doppia lettura, ovvero essa è il medium che
collega il potere alla giustizia e viceversa. Il nomos è sempre stato
collocato in un punto d‟incontro tra potere e giustizia: punto
d‟incontro non necessariamente d‟equilibrio. La celebre formula di
Pindaro, contenuta nel frammento 169, che si potrebbe rendere così:
«Nomos, il sovrano di tutti, sia mortali che immortali, con mano
fortissima traduce la violenza in giustizia»
1
, stabilisce un rapporto
perché pur esaltando l‟assolutezza del nomos, lo collega alla giustizia,
che deve pur essere riconosciuta come una dimensione necessaria del
diritto. Il nomos sta in mezzo tra dike e bia. Senza di che, sarebbe
pura forza che solo nella forza trova la sua ragion d‟essere. Ma senza
dike, non ci sarebbe nomos, ma solo bia. La massima di Pindaro può
interpretarsi come una santificazione della forza che si impone e,
imponendosi, si trasforma in giustizia tramite legge. Ma il rapporto
1
Pindaro, frammento 169, tratto da La virtù del dubbio, Laterza, Roma-Bari, 2008,p.29.
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potrebbe essere visto al rovescio: il nomos trasforma con mano
potente la giustizia in forza. Questa doppia lettura della legge, come
medium che collega l‟un lato all‟altro, è ben espresso nel famoso
pensiero di Pascal: «Ne pouvant faire qu‟il soit force d‟obeir à la
justice, on a fait qu‟il soit juste d‟obeir à la force; ne pouvant fortifier
la justice, on a justifiè la force, afin que le juste et le fort fussent
ensemble, et que la paix fut, qui est le solverai bien»
2
. Pascal era
attento ai problemi del sociale, era un acuto studioso del
comportamento umano. Dal suo pensiero, emerge che egli giustifica la
forza, ma solo al fine di far regnare la giustizia, e difende il potere e
le sue istituzioni, ma allo scopo di garantire la pace; e, infine, era un
ardente cristiano che esortava a mettere in atto la Legge dell‟amore e a
rispettare la Legge con amore. L‟amore di Dio e l‟amore per il
prossimo sono, infatti, le due leggi sulle quali Pascal edifica il suo
modello di communitas terrena: un modello progettato per la
repubblica cristiana, ma che può valere anche per una società laica che
fondi le sue leggi sul rispetto assoluto della dignità umana. Pascal
distingueva la “véritable justice”, ossia la Giustizia di Dio che sul
piano storico, esiste ed è conoscibile in quanto giustizia divina
2
Pascal, cit., p. 29: Non potendo far si che sia forza obbedire alla giustizia, abbiamo stabilito che
sia giusto obbedire alla forza; non potendo fortificare la giustizia, abbiamo giustificato la forza
così che il giusto e il forte siano uniti e che ci sia la pace come soluzione per il bene.
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rivelata, ed un‟altra giustizia, la “nostra giustizia”, quella umana, la
quale non possiede affatto i caratteri della prima, perché è figlia della
natura umana, segnata negativamente dal peccato originale. La prima,
per Pascal, è l‟unica e vera ed eterna giustizia, quella che penetra
nell‟intimo dei cuori; la seconda è invece un simulacro di giustizia,
una giustizia non giusta, non eterna, non universale, che porta con sé i
segni indelebili della caducità, del relativismo e del male. Nondimeno,
con questa tesi Pascal non intende negare recisamente ogni forma e
ogni istanza di giustizia fra gli uomini, ma solo sottolineare che, senza
un solido fondamento metafisico, tutte le attività umane e tutte le
umane istituzioni sono inesorabilmente soggette alla mutevolezza, alla
caducità, al relativismo, all‟arbitrio. Pertanto, una giustizia umana
sans Dieu, ovverosia senza il fondamento universale dei valori, è
indubbiamente segnata dal male e dalla mutevolezza; ma è certamente
possibile una giustizia umana avec Dieu, che conosce e riconosce la
vera giustizia divina rivelata e, pur non potendola perfettamente e
compiutamente attuare, ad essa guarda come a stella polare e ad essa
si accosta, sia pure all‟infinito.
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1.2 Associazione tra diritto e mitezza
In una società pluralista, il diritto ha un compito principale, ovvero
quello di tenere unite situazioni costituzionali plurali. Il diritto
costituzionale è inteso come strumento di garanzia per la convivenza
tra diversi piuttosto che come coercizione del più forte sul più debole,
un diritto della moderazione e della ragionevolezza. Infatti, «ciò che
distingue le società umane dalle società degli (altri) animali è, il loro
essere sempre aperte all‟insolito, cioè alla pressione del nuovo che, da
escluso, chiede di essere incluso, determinando nuovi criteri di
inclusione e, qualche volta, di esclusione […] Questa è la forza che
sospinge le società e le loro forme di civilizzazione. Il rifiuto di
ascoltare questa richiesta comporterebbe una cristallizzazione più
conforme alla natura dell‟alveare o del formicaio che a quella delle
società umane»
3
. Da ciò si evince la mitezza del diritto, in quanto esso
deve avere un atteggiamento amichevole verso le diversità, ovvero
deve assumere un‟idea di cittadinanza aperta, basata sul reciproco
rispetto e non deve cristallizzarsi nella difesa ostile di un‟identità
definita a priori. Per il diritto mite, l‟identità di una società è sempre
un punto di arrivo che deve essere continuamente elaborato e al quale
3
Gustavo Zagrebelsky, cit., p.95.
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si deve contribuire in molti e mai un punto di partenza cristallizzato
nel tempo di cui qualcuno possa proclamarsi padrone e paladino.
Dunque, esso è un modo di rappresentare il diritto dello «Stato
costituzionale nell‟epoca del costituzionalismo. La mitezza del diritto
è un riflesso della mitezza dei rapporti sociali. Una società feroce
implica che anche il diritto sia feroce. Invece, se la società esprime
tolleranza, rispetto, curiosità e interessi reciproci, produrrà diritto
avente caratteristiche conformi.
1.3 Stato costituzionale e Costituzione
All‟inizio degli anni „60, la Costituzione era percepita, in modo
diverso dal nostro attuale concetto di essa. Dedicare gli studi al diritto
costituzionale non era come il diritto civile, il diritto penale, il diritto
commerciale, il diritto tributario, che potevano e possono offrire un
avvenimento professionale puramente tecnico. Il diritto costituzionale
non era una «materia professionalizzante», ma un ramo del diritto in
cui ci si poneva soprattutto in questione riguardo i suoi contenuti da
un punto di vista etico. La Costituzione non era uno strumento ma un
fine, un insieme di principi ordinativi della nostra società che
chiedevano adesione. Oggi molto è cambiato nel diritto costituzionale
in quanto molti costituzionalisti si occupano, per usare una distinzione
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di Carl Schmitt, sempre meno di Costituzione e sempre più di leggi in
forma costituzionale. Secondo G. Zagrebelsky, la Costituzione è il
pass-partout per trascendere il lato formale del diritto. Infatti essa
rappresenta proprio il lato sostanziale del diritto che ha a che vedere
con la giustizia. G. Zagrebelsky definisce la scienza costituzionale
come clichè aristotelico: «La scienza costituzionale non è una scienza
teoretica che, come tale, si occupa di oggetti che sono quello che sono
indipendentemente da noi; è una scienza pratica, che si occupa di un
oggetto che viene a determinarsi come effetto del nostro stesso
prenderci cura di lui. La concezione della costituzione è un prodotto
culturale. Dunque, quando parliamo della costituzione, non parliamo
di una cosa che esiste in sé e per sé, ma di qualcosa che noi, lavorando
per formare una cultura costituzionale, contribuiamo a modellare».
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G.Zagrebelsky afferma che è importante distinguere la «Costituzione
come inclusione» e la «Legge costituzionale» come esclusione. La
costituzione come inclusione illimitata è un‟illusione angelica, in
quanto ogni “atto costituzionale” nasce da una “differenziazione”.
Ogni costituzione è un prendere le distanze quanto meno dal regime
precedente. A seconda delle funzioni pratiche insite nella
Costituzione, possiamo determinarne le sue raffigurazioni spaziali e
4
Gustavo Zagrebelsky, cit., p.74.