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INTRODUZIONE
La teoria economica ha contribuito alla nascita e alla diffusione delle cooperative,
che gli economisti hanno teorizzato, dapprima, come forme d„imprese nate in
contrapposizione al capitalismo e versus i principi ispiratori delle imprese
capitalistiche, poi, concepite come un nuovo sistema di produzione.
La svolta nel pensiero economico si è avuta nel 1958, quando Ward, economista
neoclassico, ha individuato i principi fondativi di una teoria economica delle
cooperative di produzione e ha formulato le regole principali di funzionamento
dell‟impresa cooperativa. L‟articolo di Ward ha aperto un nuovo campo di ricerca
economica e da allora si sono avuti notevoli contributi a riguardo, tanto che oggi
esiste una compiuta teoria economica delle cooperative di produzione. Un
contributo recente è quello di Zamagni, che distingue due filoni di teoria
economica delle cooperative: uno che considera le cooperative come la risposta al
fallimento delle imprese capitalistiche, l‟altro che vede la cooperativa come forma
d‟impresa non solo alternativa ma migliore dell‟impresa capitalistica.
L‟impresa cooperativa capovolge il rapporto capitale-lavoro che si ha nel
capitalismo perché, mentre l‟impresa capitalistica opera in funzione del capitale
alla cui crescita sono subordinate tutte le altre scelte ed è il capitalista che
controlla il lavoratore, nell‟impresa cooperativa o autogestita l‟obiettivo è la
massimizzazione del benessere dei soci ed è il lavoratore che controlla l‟uso del
capitale che è subordinato al fine della cooperativa stessa. Tale capovolgimento
determina la completa separazione della proprietà dal controllo e la rottura del
nesso tra imprenditorialità e proprietà, il quale è inscindibile nel capitalismo.
Le cooperative dispongono di una formula organizzativa che esalta i principi
democratici di uguaglianza e partecipazione, infatti, i soci sono legittimati a
partecipare alla gestione della società come utenti, lavoratori, piccoli e medi
imprenditori secondo il principio mutualistico “una testa, un voto”. A differenza, i
soci di un‟impresa capitalistica sono legittimati a partecipare in base al
conferimento del capitale sociale, la loro partecipazione è proporzionata alla quota
di capitale e le decisioni sono prese in base al principio “un‟azione, un voto”.
Lo scopo sociale delle cooperative e il vantaggio mutualistico dei soci si
concretizzano mediante l‟istituto del ristorno, disciplinato all‟art. 2545 sexies c.c..
Il ristorno è un “premio” attribuito ai soci per aver attuato in concreto il rapporto
mutualistico, premio da erogarsi in misura tanto maggiore quanto più consistenti e
5
ripetuti sono stati gli scambi mutualistici nel corso dell‟esercizio. Nelle
cooperative di produzione e lavoro il ristorno consente ai soci-lavoratori di
ottenere una remunerazione maggiore rispetto a quella ottenibile nel mercato del
lavoro, mentre nelle cooperative di consumo il ristorno consente ai soci-
consumatori di acquisire beni e servizi a un prezzo inferiore di quello corrente sui
mercati.
La maggiore flessibilità che contraddistingue le cooperative, deriva dal fatto che
sono gli stessi soci cooperatori che deliberano la quota da destinare a integrazione
delle proprie remunerazioni e la parte da destinare a riserve indivisibili, sulla base
dei maggiori o minori risultati economici prodotti dalla gestione dell‟impresa cui
partecipano in quanto titolari di quote di capitale di rischio. Ciò determina una
migliore distribuzione del reddito e riduce le diseguaglianze distributive, essendo
questa decisione frutto di scelte democratiche e non di scelte derivanti dal
mercato.
La partecipazione dei lavoratori agli utili e alle decisioni concernenti la gestione
dell‟impresa, fa sì che le cooperative riescano a realizzare una produttività
superiore rispetto alle imprese capitalistiche. A riguardo Marshall ha osservato
che uno dei due vantaggi fondamentali della cooperazione è che essa riesce
finalmente ad utilizzare bene una risorsa di cui il capitalismo fa gran spreco, la
capacità di lavoro degli uomini. Il capitalismo, dunque, non spreca i materiali
occorrenti alla produzione, ma spreca il lavoro; nelle imprese cooperative, invece,
i lavoratori, essendo i responsabili dell‟attività produttiva, sono incentivati a usare
l‟attività produttiva nel modo migliore.
La gestione dell‟impresa da parte dei lavoratori rappresenta, però, anche uno dei
motivi della scarsa diffusione delle imprese cooperative, Hasmann, infatti, osserva
che il costo principale di dare tutto il potere decisionale ai lavoratori è quello di
togliere il potere decisionale agli investitori. L‟impresa democratica assegna il
potere ai lavoratori e lo toglie ai capitalisti, laddove l‟impresa capitalistica assegna
il potere agli investitori, ma esclude da esso i lavoratori. Anche gli economisti,
rilevano che il pregio principale delle cooperative non è quello di dare potere
decisionale ai lavoratori, ma quello di abolire il principio “un‟azione, un voto” e,
più in generale, quello di togliere ogni potere ai proprietari del capitale.
Hasmann è del parere che la soluzione più “giusta” o astrattamente “migliore”
sarebbe quella di attribuire potere decisionale a tutti coloro che hanno rapporti
diretti con l‟impresa, gli stakeholders. Tuttavia, questa soluzione non è in concreto
6
suggerita perché l‟attribuzione del potere decisionale a soggetti che hanno
interessi diversi accrescerebbe il costo delle decisioni collettive; ma anche se i
soci fossero molto simili tra loro, per competenze e capacità professionali, la
gestione collettiva dell‟impresa risulterebbe, di regola, molto difficile, se non
impossibile, per le difficoltà insite nella natura stessa della democrazia.
La difficoltà della democrazia è, dunque, ancora oggi la critica principale che si
rivolge contro l‟impresa democratica e dato che tale critica ha un indubbio
fondamento, la conclusione da trarre a riguardo, è che nelle cooperative il potere
decisionale dei soci deve essere stabilito in limiti ragionevoli da opportune regole
istituzionali.
La scarsa diffusione nelle economie di mercato e la difficoltà a nascere delle
cooperative sono dovuti anche a due principali ostacoli che contraddistinguono
queste imprese: la difficoltà di finanziamento e la conseguente
sottocapitalizzazione.
Il problema di reperire capitali è particolarmente elevato in fase di start-up, perché
chi ha capitale proprio non ha convenienza a fondare una cooperativa dove dovrà
condividere con altri il profitto e il diritto di prendere decisioni, ma preferisce
fondare un‟impresa capitalistica dove sa di poter conservare tutto il suo potere, se
resta unico proprietario, e appropriarsi di tutto il surplus. Ciò spiega, dunque, che
le cooperative nascono per iniziativa di coloro che non hanno capitale proprio e
hanno difficoltà a trovare finanziamenti nella fase iniziale della loro attività e in
questa fase nessuno è disposto a prestare capitale a dei “nullatenenti”.
Con la crescita, tuttavia, le difficoltà di finanziamento si attenuano perché una
cooperativa già funzionante ha beni sui quali i creditori possono rivalersi e perché
i creditori sanno che i soci di una cooperativa che è in fase di crescita non hanno
convenienza a fare investimenti rischiosi, perché temono che, se gli investimenti
non vanno a buon fine, essi perderanno il posto di lavoro e le occasioni di
guadagno che hanno costruito in passato.
Il problema del finanziamento assume connotati diversi e gradi di intensità più o
meno gravi a seconda del tipo di cooperativa considerata. La Labour Managed
Firm rappresenta il modello di cooperativa che si finanzia interamente con
capitale di prestito e nella quale si realizza una netta separazione tra redditi da
lavoro e redditi da capitale. Al finanziamento dell‟attività partecipano i terzi
finanziatori, ai quali vanno attribuiti diritti di credito e diritti di percepire gli
interessi, e i soci che intendono investire i loro risparmi in titoli obbligazionari
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dell‟impresa, che se volontariamente prestano all‟impresa una parte del loro
capitale ne conserveranno la titolarità anche dopo aver lasciato l‟impresa,
continuando a godere degli interessi maturati.
Le garanzie per i creditori sono massime, perché, non solo, sono pagati prima dei
lavoratori, ma possono anche rivalersi, per i loro crediti insoluti, sugli impianti
dell‟impresa, ed essendo questi di proprietà dello Stato, i creditori hanno anche la
garanzia dello Stato per i prestiti concessi all‟impresa. Tuttavia, il modello di
cooperativa Lmf non risulta immune da difficoltà nel reperire i capitali di prestito
necessari a finanziarne gli investimenti. A tal proposito, i problemi di
finanziamento si riferiscono alle difficoltà di reperire fondi relativamente a tre
specifici contesti: la nascita di nuove imprese autogestite, le attività ad alta
intensità di capitale e quelle a rischio molto elevato.
Drèze sostiene che la soluzione al finanziamento di una Lmf può essere l‟utilizzo
di titoli di credito che non conferiscono al possessore il diritto di partecipare alla
gestione dell‟impresa; titoli che sono rappresentati da obbligazioni, nel caso in cui
il loro rendimento sia indipendente dal risultato economico dell‟impresa, o da
quasi-azioni, nel caso in cui una quota preventivamente determinata del sovrappiù
sia assegnata ai loro possessori. Questi strumenti possono essere utilizzati da terzi
che vogliono finanziare l‟impresa e dagli stessi soci che possono investire nella
loro impresa, restando semplici creditori. Il finanziamento dei soci, attuato in
questo modo, diviene un elemento strategico per attrarre i finanziamenti dei terzi,
ma non altera la natura dell‟impresa di tipo Lmf, che non prevede partecipazioni
di capitale da parte dei soci.
Meade ha, invece, proposto un sistema misto, cioè un sistema in cui l‟impresa è in
parte dei lavoratori e in parte dei capitalisti e dove, dunque, il finanziamento
dell‟impresa avviene mediante l‟emissione di azioni con diritto di voto. Questa
proposta, però, tende a poco a poco a trasformare la cooperativa in un‟impresa
capitalistica, perché nel momento in cui i lavoratori di una cooperativa concedono
ai finanziatori esterni il diritto di partecipare ad una parte degli utili che l‟impresa
percepisce, condividendo insieme sia il rischio che il controllo, l‟impresa
autogestita viene sottoposta ad un controllo esterno che elimina la proprietà
esclusiva da parte degli stessi lavoratori.
Un rimedio ulteriore alla difficoltà di finanziamento della Labour Managed Firm è
quello di consentire all‟impresa di autofinanziarsi, sia perché in tal modo si riduce
il bisogno di capitale esterno, sia e soprattutto perché per un‟impresa è tanto più
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facile ottenere capitale a prestito quanto maggiore è il capitale proprio che essa
investe.
Secondo la letteratura economica attuale, l‟autofinanziamento è consentito anche
alla Worker Managed Firm, dove il reddito viene ripartito tra i soci senza
distinguere tra redditi di lavoro e redditi di capitale. In essa il capitale non è
necessariamente capitale di prestito e i lavoratori-imprenditori possono essere
anche finanziatori (cioè i capitalisti) dell‟impresa. In questo tipo di cooperativa
chi partecipa all‟attività produttiva non mette in comune solo il suo lavoro, ma
una combinazione di capitale e lavoro; in essa i lavoratori-imprenditori assumono
capitale, percepiscono un reddito fisso e si appropriano del residuo.
La Wmf è caratterizzata da un elevato problema di sottoinvestimento, definito
“effetto Furubotn-Pejovich”, causato dal fatto che i lavoratori che prevedono di
lasciare l‟impresa, non avendo diritto al rimborso della loro quota capitale, al
momento del recesso dell‟impresa saranno contrari a realizzare l‟investimento.
In queste cooperative il risparmio che finanzia l‟investimento è risparmio
d‟impresa, e non anche risparmio dei soci, perché chi lascia l‟impresa non ha
diritto a ricevere la quota di autofinanziamento eseguito in passato, i lavoratori
non hanno diritti individuali sul patrimonio dell‟impresa e non hanno diritto di
chiedere la restituzione delle somme investite nell‟impresa.
La tendenza al sottoinvestimento, tuttavia, deriva anche dal contrasto di interessi
che può sorgere tra i soci che ritengono di rimanere a lungo nell‟impresa e quelli
il cui orizzonte temporale risulta inferiore al periodo di durata del possibile
investimento. Questi ultimi sono disposti a votare contro qualsiasi proposta di
investimento ogni volta che, per effetto del loro limitato orizzonte temporale di
permanenza nella cooperativa, possono godere soltanto di una parte del flusso di
reddito generato dall‟investimento stesso. Dunque, la tendenza al
sottoinvestimento si verificherà tutte le volte che i soci prevedano di restare
mediamente nella cooperativa per un periodo inferiore alla durata
dell‟investimento e questa tendenza risulterà tanto maggiore quanto meno a lungo
essi pensino di rimanervi.
Con riferimento, invece, alla Lmf, Vanek ha argomentato che in considerazione
della separazione dei redditi da lavoro da quelli di capitale, in conseguenza del
capovolgimento del rapporto capitale-lavoro che questo tipo di impresa realizza,
in essa non c‟è una tendenza al sottoinvestimento. Nella Lmf le attività sono
finanziate dall‟esterno contraendo debiti e l‟apporto di capitale dei soci è nullo; il
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socio che ha investito in titoli dell‟impresa, all‟atto del recesso conserverà la
titolarità piena delle obbligazioni e delle somme da lui conferite. Questo comporta
il diritto a godere degli interessi, a riottenere alla scadenza il capitale prestato e a
poter cedere i titoli, in qualunque momento, sul mercato finanziario. Dunque,
essendo il capitale dell‟impresa distinto da quello del socio, se quest‟ultimo
decide di recedere, non può vantare alcuna pretesa sulle quote di capitale
dell‟impresa e quindi non può esservi sugli investimenti l‟effetto Furubotn-
Pejovich.
Per contrastare il problema della sottocapitalizzazione, quale ostacolo allo
sviluppo delle cooperative, in Italia con la riforma del diritto societario, d.lgs.
n.6/2003, sono stati previsti ulteriori strumenti di finanziamento per le
cooperative. La legislazione nazionale disciplina espressamente le società
cooperative all‟art.2511 del codice civile, e in base alla particolare finalità
istitutiva, la distinzione principale è quella tra cooperative a mutualità prevalente e
cooperative a mutualità non prevalente.
Il legislatore della riforma ha previsto la possibilità di emettere strumenti
finanziari, diversi dalle azioni, in analogia a quanto previsto per le Spa; infatti, in
aggiunta alle azioni cooperative, che sono sottoscritte dai soci cooperatori e che
esprimono la loro partecipazione al capitale della società, è stato previsto che la
cooperativa può offrire in sottoscrizione ai soci finanziatori azioni “lucrative”,
obbligazioni e strumenti finanziari partecipativi, differenti dalle azioni e dalle
obbligazioni.
L‟obiettivo della riforma è quello di consentire una più agevole raccolta di mezzi
finanziari sul mercato dei capitali, tipicamente precluso alle società cooperative;
di sfruttare tutte le possibilità offerte dal mercato per permettere anche alle
imprese mutualistiche di personalizzare le loro strutture patrimoniali facendole
risultare in futuro meno rischiose agli istituti di credito finanziatori, senza però
rinunciare ai principi mutualistici; di rafforzare la desiderabilità e la competitività
dei loro investimenti, allo scopo di ridurre il problema della sottocapitalizzazione.
Una modalità per eliminare l‟incentivo alla sottocapitalizzazione dell‟impresa
cooperativa è, infatti, l‟introduzione di titoli partecipativi aventi caratteristiche
analoghe a quelle dei titoli azionari delle società per azioni, per quanto riguarda la
loro negoziabilità, la loro potenziale remunerazione attraverso i dividendi e il loro
effettivo peso nella struttura proprietaria e nei meccanismi decisionali
dell‟impresa. Per tale ragione con la legge n.59/1992 è nata la figura giuridica del
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socio-sovventore e delle azioni di partecipazione cooperativa. Questa soluzione ha
subito critiche a causa delle conseguenze sfavorevoli che ne derivano, infatti,
questi titoli creano un rischio di snaturamento dell‟organizzazione di tipo
cooperativo, nel caso in cui il socio-sovventore, detentore di un elevata quota di
azioni di partecipazione, sia in grado di esercitare forti pressioni economiche
sull‟impresa cooperativa, spostando dunque al di fuori dell‟impresa e del nucleo
originario di cooperatori il potere decisionale. D‟altra parte, i titoli di
partecipazione cooperativa e quelli detenuti dal socio sovventore, non
raggiungono completamente lo scopo di essere equiparabili ai titoli azionari delle
società per azioni, per quanto attiene alla loro negoziabilità e al soddisfacimento
di alcuni requisiti che la teoria economica individua come elementi
potenzialmente costitutivi di capital gain.
Un altro modo per ovviare al problema della sottocapitalizzazione, introdotto con
la riforma del diritto societario, consiste nell‟individuare e nell‟introdurre un tipo
di titolo finanziario che non sia “dominato”, per ciò che riguarda la potenziale
redditività e negoziabilità, da quelli delle società per azioni e non alteri in alcun
modo la struttura proprietaria e le peculiarità organizzative della società
cooperativa. Queste soluzioni, dunque, creano per le cooperative l‟opportunità di
affermarsi e di accrescere la loro presenza nei mercati. Ciò è stato favorito anche
dal processo di globalizzazione e dal sistema di innovazioni, che hanno creato
numerosi vantaggi alle imprese cooperative.
L‟alta intensità del fattore “lavoro” rispetto al capitale, modelli decisionali
partecipativi, una struttura interessata a conciliare gli interessi dei diversi soggetti
coinvolti, quali caratteristiche principali delle cooperative, le hanno permesso di
assumere un ruolo “proattivo” di fronte alle trasformazioni del contesto di
riferimento e di indicare soluzioni e percorsi innovativi nel processo di
globalizzazione.
Le società cooperative costituiscono parte integrante del tessuto imprenditoriale
italiano, non sono soggetti isolati bensì strutture inserite in modo esaustivo nella
realtà socio – economica del Paese, del quale rispecchiano carenze, punti di forza
e margini di crescita. Le cooperative sono presenti in tutti i principali settori
dell‟attività economica e al di là di situazioni ed evoluzioni riconducibili alle
peculiarità del tipo d‟impresa, risentono al pari delle altre imprese presenti in
Italia degli andamenti generali dell‟economia e non possono non confrontarsi con
le sfide rappresentate dal mutamento tecnologico ed organizzativo.
11
Uno studio condotto nel 2007 sulle imprese cooperative presenti in Italia, ha
evidenziato la maggiore presenza delle cooperative di produzione e lavoro nel
territorio nazionale. Queste imprese sono fortemente orientate all‟innovazione e
presentano una dimensione media ben superiore rispetto a quella delle altre
imprese, dando, quindi, un contributo occupazionale che risulta significativamente
elevato e in progressiva crescita.
Le cooperative sono una parte importante anche dell'economia europea; in molti
Stati membri, nonostante differenze di disciplina giuridica, svolgono un
importante ruolo nello sviluppo dell‟economia di mercato e nella creazione di
istituzioni democratiche, dimostrando la capacità di fornire soluzioni
economicamente e socialmente valide, sostenibili per conciliare la società
dell'informazione e lo sviluppo socio-economico.
In Francia le imprese cooperative costituiscono una parte fondamentale del
paesaggio socio-economico francese; sono presenti nella maggior parte dei settori
d'attività, contribuendo alla crescita economica del paese.
Un grande contributo offerto nel mondo è quello del gruppo cooperativo di
Mondragòn, presente in Spagna. Come nella normativa italiana, il legislatore
spagnolo riconosce un ruolo particolare alle cooperative, considerate entità dotate
di valori e comportamenti che le differenziano dalle società di capitali. In Spagna
sono specificatamente disciplinate dalla legge sulle cooperative n.27/1999 che ne
definisce i principi e le caratteristiche e prevede benefici fiscali se sono soddisfatti
determinati requisiti oltre che specifiche agevolazioni fiscali, previste per le PMI,
alle cooperative di piccole dimensioni.
Differenze si riscontrano, invece, nel Regno Unito, essendo questo un Paese che
non prevede una specifica legislazione cooperativa e non riconosce benefici fiscali
alle imprese cooperative benché sia un contesto, comunque, caratterizzato da una
fiscalità moderata. Nel suo complesso la cooperazione inglese non è fra le più
grandi del contesto europeo e internazionale, per numerosità e per valori
complessivi espressi in termini di fatturato, pur rappresentando il paese che ha
visto nascere gli ideali cooperativi e le prime significative esperienze con la
Società dei Pionieri di Rochdale del 1844.
Dunque, nonostante le cooperative abbiano riscontrato difficoltà per affermarsi e
per svilupparsi nel mercato al pari delle altre imprese, oggi, anche se
contraddistinte da problemi di finanziamento e sottocapitalizzazione, sono diffuse
in tutti i settori di attività e sono disciplinate esaustivamente nei diversi Paesi, in
12
quanto considerate parte integrante del tessuto imprenditoriale di riferimento.
13
CAPITOLO 1
La teoria economica delle cooperative di produzione
1.1 Introduzione: la nascita delle cooperative
Il movimento cooperativo nacque come reazione al capitalismo, versus
l‟individualismo e la proprietà privata. Gli economisti Owen, Proudhon, Mill
1
e
Marshall
2
ne furono i principali sostenitori; essi ebbero in comune l‟idea che “la
questione sociale”
3
, conseguente al fenomeno dell‟industrializzazione del 1844,
non potesse essere risolta con una forma di organizzazione sociale come il
capitalismo, che difendeva l‟individualismo, lo spirito competitivo e l‟egoismo,
ma richiedesse una regolamentazione dell‟attività produttiva basata sulla
collaborazione.
Furono le brutture de capitalismo che fecero sorgere il bisogno di solidarietà e
dell‟aiuto reciproco, diffondendo all‟interno delle diverse classi sociali la
convinzione che fossero necessari alcuni provvedimenti volti a migliorare le
condizioni dei lavoratori.
Owen, considerato il fondatore del movimento cooperativo, a seguito
dell‟esperienza avuta a Manchester durante la rivoluzione industriale, si convinse
che il sistema di fabbrica, con la libertà di concorrenza, era la causa del
diffondersi dell‟avidità e del deterioramento dei principi morali e tali ragioni lo
spinsero a proporre nuove forme di organizzazione sociale per abolire il sistema
capitalistico
4
. Le attività produttive auspicate da Owen dovevano garantire un
utile “equo” per chi investiva il proprio capitale e dovevano reinvestire la maggior
parte del profitto, sia per rafforzare la loro struttura produttiva, sia per migliorare
il benessere degli operai occupati.
L‟influenza del pensiero di Owen caratterizzò tutta una prima fase del movimento
1
John Stuart Mill (1806-1863) scrisse: “Confesso che non mi piace l‟ideale di vita di coloro che
pensano che la condizione normale degli uomini sia quella di una lotta per andare avanti; che
l‟urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri, che rappresenta il modello esistente della vita sociale,
sia la sorte maggiormente desiderabile per il genere umano e non piuttosto uno dei più tristi
sintomi di una fase del processo produttivo”.
2
Scrisse Marshall (1842-1924) che il movimento cooperativo “combina aspirazioni elevate con
un‟azione calma e strenua” e “si pone il compito di sviluppare l‟energia spontanea degli individui
educandoli all‟azione collettiva con l‟aiuto di risorse collettive, per il perseguimento di fini
collettivi”.
3
Crisi di carattere economico e soprattutto di carattere morale conseguente alla rivoluzione
industriale del 1844.
4
Robert Owen (1771-1858) creò i “villaggi della cooperazione” per dare lavoro ai disoccupati; ma
in seguito egli considerò le sue organizzazioni “come uno strumento di rigenerazione universale,
grazie al quale si sarebbe potuto liberare rapidamente il mondo intero dal sistema del profitto
basato sulla concorrenza”. (Cole, 1953,p.105)
14
cooperativo. Durante questa fase, definita “owenita”, la cooperazione fu concepita
come nuovo modo di produzione, contrapposta al capitalismo per il suo rifiuto del
mercato e del sistema economico basato sulla concorrenza.
Anche Proudhon diede il proprio contributo alla nascita delle cooperative,
proponendo di realizzare un‟impresa socialista dove i lavoratori potevano essi
stessi organizzare la produzione sul loro posto di lavoro
5
criticando il “capitalismo
di Stato”, che assegnava allo Stato la proprietà dei mezzi di produzione. Egli
sosteneva che il sistema capitalistico era un sistema di contraddizioni di cui la
principale era quella che separava e univa capitale e lavoro. Rivoluzione era un
concetto molto presente negli scritti di Proudhon, infatti, egli diceva che le
contraddizioni nel capitalismo non potevano essere eliminate e il capitalismo non
andava riformato, ma doveva essere rivoluzionato perché ciò che occorreva era la
soppressione del lavoro salariato e con esso anche lo sfruttamento.
Tra i padri ispiratori del movimento cooperativo ci fu, poi, Thompson, che fu un
fautore sia del cooperativismo che del sindacalismo e considerò il sindacato come
uno strumento di lotta per ridurre il profitto dei capitalisti e per favorire la nascita
di un sistema di cooperative, che avrebbe dovuto eliminare progressivamente il
sistema di imprese capitalistiche. Thompson era convinto della superiorità del
modo di produzione cooperativo rispetto a quello capitalistico e si batté per
favorire la nascita di cooperative di produzione con lo scopo di eliminare i
capitalisti dal processo produttivo.
Anche il contributo di Mazzini allo sviluppo del cooperativismo fu di primaria
importanza. L‟idea centrale del suo pensiero era che i lavoratori dovevano essere
liberati dal “giogo del salario” e diventare “produttori liberi, padroni della totalità
del valore della produzione”. Nella sua visione, infatti, nel capitalismo il capitale
era “arbitro di una produzione alla quale rimane straniero” e doveva, pertanto,
essere sostituito nel suo ruolo dal lavoro associato. L‟associazione dei lavoratori –
egli scriveva – “deve garantire eguaglianza dei soci nell‟elezioni di amministratori
a tempo o, meglio, soggetti a revoca” e assicurare un riparto degli utili a seconda
della quantità e qualità del lavoro di ciascuno; e questo, a suo giudizio, “sarebbe la
più bella rivoluzione che possa idearsi”, perché porrebbe il lavoro “come base
economica al consorzio umano”
6
.
5
Proudhon (1809-1865) sintetizza la sua opera nella formula destruam et aedificabo, che indica le
due facce del movimento rivoluzionario: distruggere la proprietà privata come base del capitalismo
e costruire un socialismo che renda la proprietà accessibile a tutti.
6
Cfr. Mazzini, 1935, pp. 109 e 132
15
La seconda fase del movimento cooperativo iniziò nel 1844 con la Società dei
Pionieri di Rochdale, considerata la prima cooperativa “di consumo” realizzata
con successo, il cui scopo era “quello di adottare provvedimenti per assicurare il
benessere materiale e migliorare le condizioni familiari e sociali dei soci". Essa fu
caratterizzata da una conciliazione con il mercato perché i principi organizzativi
che introdusse non contemplavano più una distribuzione egualitaria del ricavato
della produzione, ma la vendita in contanti al prezzo corrente al dettaglio;
introdusse il principio del ristorno, cioè la possibilità di remunerare in certa
misura i soci della cooperativa con i proventi delle vendite. Un‟altra novità fu,
poi, l‟introduzione del principio “una testa, un voto”, cioè del principio della
democrazia, che è rimasto, poi, l‟elemento caratterizzante della cooperazione. La
conciliazione con il mercato non fu tuttavia completa perché i Pionieri di
Rochdale ritennero che le cooperative non dovessero perseguire liberamente lo
scopo di lucro, bensì il miglioramento delle condizioni materiali e spirituali dei
soci.
La terza fase della teorizzazione del movimento cooperativo iniziò con Stuart Mill
e fu quella della piena conciliazione con il mercato. Mill apprezzò le cooperative e
considerò la ricerca dell‟interesse personale come un modo per realizzare la
personalità dei lavoratori e fu, pertanto, del parere che non si dovessero porre
limiti al perseguimento dello scopo di lucro. Nelle cooperative di produzione,
secondo Mill, i soci dell‟impresa erano “in una relazione tale rispetto al loro
lavoro, da far sì che diventasse loro principio e loro interesse fare il massimo
possibile, invece che il minimo possibile, in cambio della loro remunerazione”.
Ma ciò significava che le imprese cooperative erano “imprese economiche” e,
come ogni altra impresa economica, “tese a conseguire fini prettamente economici
in modo economico”.
Con la nascita delle cooperative di produzione, dunque, la contraddizione
esistente nel movimento cooperativo tra il proposito di abbattere il capitalismo e
l‟idea di contrapporre all‟impresa capitalistica un‟organizzazione basata sulla
solidarietà sembrava che potesse essere risolta, perché all‟impresa capitalistica
venne contrapposta un‟impresa non capitalistica, gestita dai lavoratori, ma che
poteva essere basata anch‟essa sui calcoli economici del massimo rendimento. La
nascita delle cooperative di produzione avrebbe potuto conciliare ciò che appariva
inconciliabile, perché, queste cooperative, mentre mantenevano il carattere
anticapitalistico, potevano essere basate sul movente del lucro e stimolare al
16
tempo stesso la solidarietà, perché i soci di una cooperativa di produzione
perseguivano un interesse comune e l‟attività produttiva era organizzata in esse in
modo che, “se qualcuno si fosse sforzato di aumentare il suo reddito, ciò avrebbe
contemporaneamente creato vantaggi a tutti gli altri”
7
.
Un altro economista che giudicò con molto favore il movimento cooperativo fu
Marshall, il quale sosteneva: “la cooperazione senza dubbio poggia in gran parte
su moventi etici e ha un fascino speciale per quelli che sono dotati di
temperamenti in cui prevale l‟elemento sociale”. Egli considerò positivamente le
cooperative perché realizzavano il perseguimento dei fini collettivi, infatti, se ogni
socio avesse lavorato con più impegno, era possibile che anche il reddito di tutti
gli altri che lavoravano nella cooperativa sarebbe aumentato.
Ma non furono solo Mill e Marshall tra i grandi economisti del passato che
apprezzarono le cooperative, perché anche Marx in molte occasioni non solo
espresse pareri molto favorevoli a riguardo, ma mostrò di credere che la nascita
delle cooperative di produzione preannunziava la fine del capitalismo e la nascita
di un nuovo sistema di produzione. Nel terzo volume del Capitale, egli scrisse:
“Lo sviluppo della cooperazione da parte degli operai e della società per azioni da
parte della borghesia fa svanire anche l‟ultimo pretesto invocato per confondere il
guadagno d‟imprenditore con il salario d‟amministrazione e il profitto apparve
anche in pratica quello che innegabilmente era in teoria, cioè semplice plusvalore”
(Marx, 1894 p. 460). Questo mostrò con chiarezza come Marx pensasse che un
sistema di imprese cooperative non solo era immaginabile, ma era anche destinato
ad affermarsi nella storia. Il sistema auspicato da Marx era un nuovo modo di
produzione, che aboliva il lavoro salariato ed era tale che in esso i mezzi di
produzione, quelli che gli economisti chiamavano il capitale, non sottomettevano
più i lavoratori, i quali non solo non erano più sfruttati, ma si sentivano liberi e
lieti di lavorare in imprese in cui essi erano padroni. Dopo la Comune di Parigi del
1870, Marx divenne, però, scettico riguardo quello che egli aveva considerato “un
nuovo modo di produzione” a causa del fatto che le aspettative originate dalla
nascita delle cooperative si erano tramutate in delusione, perché le esperienze che
si fecero furono un po‟ dovunque negative. Un‟eccezione fu l‟Italia del periodo
giolittiano, con Gramsci e il “biennio rosso”, allorché si giunse a proporre la
trasformazione della Fiat in cooperativa.
7
Cfr. Myrdal, 1943, p.8
17
Ci fu poi una svolta del movimento cooperativo a seguito della rivoluzione
marginalista di fine „800
8
, fortemente critica nei confronti dell‟impresa
cooperativa.
La teoria del marginalismo fu alla base del noto articolo di Pantaleoni del 1898,
dove egli scriveva: “le imprese cooperative, siano esse quelle di consumo, o siano
esse quelle di produzione, sono imprese economiche”; e, come ogni altra impresa
economica, “tendono a conseguire fini prettamente economici in modo
economico, cioè sono organizzazioni tendenti a produrre beni economici con un
costo minore di quello che con altri mezzi si potrebbe, a vantaggio di coloro che
dell‟impresa sono soci”. Egli, quindi, deduceva, che ogni carattere che si vuole
proprio delle cooperative si riscontra in ogni impresa. Se, infatti, è vero che
“ciascun individuo che fa parte della cooperativa fa il calcolo del proprio
tornaconto e non eleva lo sguardo al di là o al di sopra di questo”, e se è vero che
“ogni funzione economica si esercita sempre per proprio conto esclusivamente”,
ne conseguiva, a giudizio di Pantaloni, che non “sia possibile trovare un solo
tratto caratteristico che sia esclusivamente proprio delle cooperative” e che “i
pretesi principi cooperativi, se venissero attuati logicamente e universalmente,
darebbero gli stessi risultati, cioè, porterebbero ad una stessa formazione dei
prezzi di tutti i beni economici che si ottengono per opera della libera
concorrenza”. A conferma di ciò, Pantaleoni passò in rassegna i vari principi o
connotati che erano stati considerati sino ad allora come propri dell‟impresa
cooperativa per concludere che “il principio cooperativo, per essere attuabile,
presuppone l‟esistenza di organismi economici che non stiano su base
cooperativa”. Egli sosteneva che le presunte differenze specifiche delle
cooperative erano “caratteri comuni a tutte le società economiche”; in ogni caso,
quindi, che il principio cooperativo non era “un principio autonomo”
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.
Poi, per 60 anni, dal 1898 al 1958, gli economisti non diedero più contributi di
rilievo alla teoria delle cooperative di produzione. Bisognò aspettare la fine del
XIX secolo i contributi di Ward, Vanek e Meade perché nascesse il filone teorico
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La "rivoluzione" marginalista segnò l‟inizio del sistema teorico neoclassico. E‟ un approccio che
centra la sua analisi sull‟equilibrio e sulla ricerca di metodologie di allocazione delle risorse in
modo efficiente. Da tale rivoluzione in poi, infatti, la visione del processo economico si concentrò
sul problema dell'allocazione ottimale di risorse scarse tra usi alternativi e il punto di partenza fu il
concetto di utilità.
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Pantaleoni – scriveva – “Non è una caratteristiche delle cooperative di produzione che le loro
funzioni si esercitano collettivamente”, perché “ogni società commerciale, qualunque sia la forma
giuridica, o lo scopo economico, è sempre una unione di forze economiche, una riunione di gente
che esercita collettivamente, e soltanto per conto proprio, qualsiasi funzioni economica che essa si
è prefissa”.
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oggi esistente sulle cooperative degli economisti. Ward contraddì quanto aveva
affermato Pantaleoni argomentando nel 1958, che, mentre l‟impresa capitalistica
era tesa a massimizzare il profitto totale (o il tasso di profitto), l‟impresa
cooperativa o autogestita tendeva a massimizzare il reddito medio per lavoratore.
Da allora nacque quella che è definita la teoria economica delle cooperative di
produzione.
Un contributo molto recente alla teoria economica delle cooperative è quella di
Zamagni, nei suoi saggi del 2005 e del 2006. Zamagni è del parere che esistono
due filoni di teoria economica delle cooperative: il primo è quello che viene
chiamato “di Ward, Vanek e Meade”. Questo filone – egli dice – “vede la
cooperativa come la risposta ad uno specifico fallimento della forma capitalistica
di impresa, come cioè una sorta di rimedio a ciò che quest‟ultima non riesce a
ottenere ovvero a garantire”. Esso conclude che le cooperative di produzione, in
particolare, sono destinate ad occupare una posizione di nicchia e ad essere,
rispetto alle imprese capitalistiche, l‟eccezione alla regola. Il secondo filone vede,
invece, la cooperativa come forma d‟impresa non solo alternativa, ma migliore
dell‟impresa capitalistica, destinata col tempo ad affermarsi sempre più. Questo
filone ritiene che le cooperative nascano dalla opposizione al capitalismo e dalla
convinzione che il lavoro non è solo un fattore della produzione, ma l‟attività
fondamentale mediante la quale l‟uomo e la donna si realizzano. Esso “porta a
vedere nella cooperativa la forma d‟impresa verso la quale potrebbe tendere a
convergere sul lungo periodo, in economie avanzate di mercato, la forma
capitalistica d‟impresa”. Questa è la visione della cooperativa di Mill, Marshall e
Marx e Zamagni accetta questo secondo approccio alla teoria della cooperazione.
Attualmente gli economisti si occupano quasi esclusivamente di cooperative di
produzione e sostengono l‟idea – che ai cooperatori per lo più non piace – che
l‟impresa cooperativa, se vuol vincere la concorrenza con le imprese rivali ed
essere appieno efficiente, deve agire secondo il principio economico del massimo
utile personale. Ciò comporta che il principio-guida su cui costituire una teoria del
comportamento economico dell‟impresa cooperativa è il principio del massimo
vantaggio medio dei soci che compongono la cooperativa. Le cooperative degli
economisti sono imprese gestite dai lavoratori dove il sovrappiù è appropriato dai
lavoratori soci dell‟impresa. Queste operano liberamente nel mercato, perseguono
il massimo utile dei soci e non hanno vincoli sorta, tranne quello di non poter
assumere lavoro salariato.