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INTRODUZIONE 
 
 
La psicomotricità è una dimensione trasversale a tutto lo sviluppo del bambino. 
Ecco perché è giusto affermare che, accanto ad una psicomotricità progettata in 
tempi e spazi specifici, esiste un’altra psicomotricità, quella “del gesto 
quotidiano, delle attività che andrebbero fatte tutti i giorni e che implicano il 
coordinamento dei movimenti, delle rappresentazioni mentali, di adeguamento al 
contesto, ma anche del contesto alle proprie azioni” (Romano, 1993, p.5). 
La prima legge della Psicomotricità è stata enunciata da Duprè e afferma che: 
“certi disturbi mentali e i disturbi motori corrispondenti sono fra loro in un 
rapporto così stretto e presentano tali somiglianze da costituire delle vere coppie 
psicomotorie” (Duprè, 1925, cit. in Picq, Vayer, 1968; tr. it. 1968, p. 15). 
Vi è uno stretto parallelismo fra lo sviluppo delle funzioni motorie, del 
movimento, dell’azione e lo sviluppo delle funzioni psichiche anche quando la 
sintomatologia apparente è motoria, intellettuale o affettiva. 
È proprio questo che intendo affrontare in questo lavoro di tesi: come le 
correlazioni tra lo psichismo e il fisico possano rafforzarsi e migliorarsi l’un 
l’altro quando l’intervento non è mirato, bensì combinato, coinvolgendo entrambi 
i fronti e come questo possa comportare delle trasformazioni significative in 
soggetti in età evolutiva. 
Se la costruzione della personalità del bambino passa attraverso la 
rappresentazione che questi ha del suo corpo, è necessario agire sul corpo per 
ottenere cambiamenti significativi anche a livello mentale, senza che nessuno dei 
due elementi prenda il sopravvento o che vi sia una totale identità tra i due. 
Citando Cartacci: “Se l’attività psichica è la pianta, il movimento non è uno 
strumento come la zappa, neanche un elemento indispensabile come la terra o 
l’acqua, ma è il seme stesso di quella pianta”(2002, p. V).
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Una delle prerogative dell’educazione psicomotoria è la possibilità di 
valorizzare l’originalità di ciascuno, attraverso uno spazio e un tempo che possono 
essere vissuti come un’occasione polisemica, che contiene e offre vari significati. 
Questo lavoro nasce, dunque, con l’obiettivo di sintetizzare le conoscenze e le 
nozioni tipiche di questa Pratica e di sottolineare come, attraverso il corpo, si 
possa intervenire su una pluralità di patologie. 
Prima di esplicare la mia esperienza personale mi è sembrato giusto porre 
l’accento sulla Pratica Psicomotoria. Non è stato facile individuare le origini della 
Psicomotricità, poiché è una disciplina che ha progressivamente costruito e 
definito il suo campo d’azione, dilatando e contraendo i suoi confini sotto 
l’influsso di pratiche terapeutiche, fenomeni culturali ed approcci teorici diversi.  
Sin dalle sue origini, però, la Pratica Psicomotoria si è svolta sia in ambito 
educativo-pedagogico che terapeutico-riabilitativo.  
La Psicomotricità ha preso su di sé il compito, un po’ ambizioso, di riunificare 
ciò che la scienza aveva frammentato e diviso, ponendosi l’obiettivo di connettere 
la corporeità, l’affettività, l’intelligenza e la socialità della persona; aspetti che 
erano e sono, in gran parte ancora oggi, domini separati di discipline diverse. 
Essa è sia una disciplina educativa, rieducativa e terapeutica, che una pratica 
educativa e di aiuto che, attraverso la relazione e un’attività concreta, motoria, si 
modella sul gioco spontaneo e sull’espressività dei bambini che sperimentano 
direttamente situazioni e relazioni. 
È soprattutto durante l’infanzia che la globalità dell’essere umano risulta 
evidente, sotto forma di un’unione tra la struttura somatica, affettiva e cognitiva; 
ed è soprattutto a questa fascia di età che ho rivolto la mia attenzione. 
Quello che provo ad evidenziare è come, grazie all’azione, il corpo possa 
diventare cosciente del mondo che lo circonda e di se stesso. 
Ho cercato di delineare gli approcci più significativi nell’ambito della Pratica 
Psicomotoria, per poi concentrarmi maggiormente sulle sue nozioni chiave, sui 
principi teorici e pratici, sul concetto di “corpo” e su quanto il corpo stesso del 
terapeuta venga messo in gioco in tale tipo di intervento.
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Ho approfondito i vari ambiti di applicazione, per poi delineare 
sommariamente l’osservazione in ambito psicomotorio e il setting, il luogo che 
vede mettere in pratica quei principi precedentemente delineati. 
Quella stessa stanza, presso il Centro di Riabilitazione “Piccolo Cottolengo di 
Don Orione” di Napoli ha visto me osservatrice, ospitandomi per circa sei mesi, 
con un successivo ritorno dopo tre mesi di assenza. 
Ho osservato una decina di bambini e ho toccato con mano le particolarità di 
una pratica così recente: tutto ciò che si svolgeva nella stanza di terapia si 
muoveva su un piano corporeo ed uno simbolico. 
Le difficoltà del bambino, le sue esigenze e i suoi desideri vengono ascoltati e 
trasformati, prendono vita sotto forma di attività funzionali ad un miglioramento 
del bambino stesso e della sua patologia. 
Occuparsi di un soggetto in terapia vuol dire occuparsi del corpo e della mente 
in un’ottica globale. Questo risulta particolarmente importante nell’approccio 
terapeutico in età evolutiva, in cui ogni processo è strettamente collegato con lo 
sviluppo mentale e corporeo.  
Quello che cerco di mostrare, attraverso questo lavoro, è come effettivamente 
un approccio improntato sul corpo, sul gioco, possa provocare dei cambiamenti 
rilevanti e significativi nei soggetti in età evolutiva.  
Le osservazioni mi hanno consentito di toccare con mano le difficoltà 
riscontrate con soggetti affetti da autismo ma mi hanno anche insegnato a  
“leggere tra le righe”: a vedere attraverso il gioco il mondo interiore del bambino, 
le sue proiezioni cariche positivamente o negativamente, che vengono poi 
elaborate sul piano simbolico. 
Ho imparato a guardare oltre un disegno, un gioco di costruzioni ed ho 
osservato come la lettura affettiva di questi gesti innescasse immediatamente delle 
trasformazioni: tranquillizzava, elaborava, trasformava persino il dolore connesso 
ad un lutto in un’esperienza digeribile, nuova, gestibile. 
L’ultima parte della tesi è dedicata alle conclusioni che sono riuscita a trarre a 
seguito di un mio ritorno, dopo tre mesi, presso il centro: ho deciso di osservare
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gli stessi soggetti a distanza di tempo, affinché potessi notare cambiamenti 
evidenti che, con osservazioni costanti, mi sfuggivano. 
Effettivamente il lavoro condotto con quei bambini ha portato a dei risultati 
positivi: i miglioramenti sono notevoli, sebbene qualche difficoltà continui a 
persistere.  
La Pratica Psicomotoria lavora sul corpo poiché esso è al tempo stesso spazio 
espressivo e unico modo di essere possibile per l’uomo. 
Essa è il ponte tra il corpo e la mente e, nella clinica con i bambini, si sa quanto 
sia pregnante e presente il corpo con tutti i suoi messaggi. 
Nell’esperienza della psicomotricità il pilastro centrale è il corpo, con il suo 
linguaggio non verbale, fatto di movimenti, gesti, sguardi, posture, uso e non uso 
di oggetti nello spazio e nel tempo. 
Linguaggio corporeo che avvia un legame tra l’azione e il movimento, 
sollecitando sintonie, passioni ed emozioni profonde tese ad alimentare spinte 
trasformative.
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CAPITOLO 1  
 
CENNI STORICI SULLE PRINCIPALI TERAPIE 
CORPOREE  
 
 
                                                                                                            “L’uomo è il suo corpo 
 e non l’uomo e il suo corpo,  
afferma la psicomotricità” 
(Coste, 1981, p.3) 
 
 
 
Tutta la nostra cultura ha le sue origini nelle grandi civiltà greche. E l’uomo 
greco sapeva dare al corpo un posto di rilievo, agli stadi o nei luoghi di culto, nel 
marmo o nei colori. 
Platone professa una concezione assai classica del corpo, intendendolo come 
luogo transitorio dell’esistenza nel mondo di un’anima immortale. 
La salute e il pieno sviluppo fisico sono delle virtù nella misura in cui sono al 
servizio dello sviluppo e dell’attualizzazione dei valori morali ed intellettuali. Il 
corpo è alle dipendenze dell’anima. 
Nel “De Anima”, Aristotele rifiuta il dualismo platonico di corpo e anima e 
afferma l’unione delle due sostanze. 
Anima e corpo non sono più intese come due sostanze separate ma sono 
elementi inseparabili di un’unica sostanza.  
Il corpo è la materia organica dell’uomo; pertanto, è vivente solo in potenza; a 
determinare in esso la vita è l’anima. Questa concezione lascia intendere una 
interdipendenza fra fenomeni fisici e fenomeni psichici, una reciprocità di 
influenze fra corpo e pensiero, corpo e desiderio.
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Con Cartesio il dualismo mente-corpo si ripristina, poiché egli distingue “una 
sostanza pensata”, appartenente alla sfera intellettuale, intellegibile, spirituale; ed 
una “sostanza estesa”, la sfera delle cose materiale, della natura. 
Nell’uomo si realizza l’articolazione delle due sostanze, sotto forma di anima e 
corpo, e, attraverso la ghiandola pineale, l’anima entra in contatto con il corpo, lo 
comanda e, quindi, lo muove. Questo non impedisce al corpo di avere una vita 
propria: sogno, reazione di fuga, rossore, sudorazione attestano l’influsso delle 
passioni sul corpo.  
 
 
 
1.1  Le interpretazioni contemporanee della nozione di corpo 
 
La riflessione sulla motricità, quindi, risale alla più remota antichità.  
Aristotele fa della locomozione una delle funzioni dell’anima, quella che 
caratterizza il mondo animale, distinto così da quello vegetale. Per Cartesio il 
movimento umano è sottomesso alla coscienza volontaria.  
Fu Maine de Biran (1819), però, il primo a fare del movimento una 
componente essenziale della struttura psicologica dell’io. L’io costituisce una 
realtà in atto che non si può definire, ma solamente cogliere intimamente. L’io 
non si pensa, si vive nella sua interiorità. L’io si afferma attraverso e nello sforzo: 
è nell’azione che prende coscienza di sé e del mondo.  
Bergson (1896), sulle orme di Maine de Biran, concepisce l’io come un dato 
immediatamente ed intuitivamente comprensibile: “il cervello imprime al corpo 
quei movimenti e quegli atteggiamenti che rappresentano ciò che lo spirito 
pensa”.  
La considerazione del ruolo della dimensione  corporea nella pratica 
psicologica ha avuto un aumento esponenziale a partire dalle considerazioni in 
“L’Io e l’Es” in cui Freud afferma il tema della corporeità nei seguenti termini: 
“L'Io è prima di tutto un'entità corporea; non è soltanto un'entità tutta in
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superficie, ma è lui stesso la proiezione di una superficie” (Freud, 1922; tr. it. 
1977, p. 488).  
Il corpo è la fonte di tutte le pulsioni, è il centro delle relazioni infantili con la 
madre, è infine il luogo dove si registrano le pulsioni che non hanno accesso alla 
coscienza e alla parola.  
L’istanza determinante della vita psichica non è più la volontà, e l’uomo non è 
più un essere che sceglie liberamente; è un essere che vuole prima di tutto vivere, 
anche se questo volesse dire inoltrarsi nella via dell’immaginario (delirio), della 
malattia (somatizzazione) o del rifiuto delle regole sociali (disadattamento). 
L'attenzione degli psicoanalisti prima, e in generale degli psicoterapeuti, si 
sposta lentamente e gradualmente da una visione prettamente intrapsichica delle 
dinamiche psicologiche verso l'esterno e prende in considerazione anche altri 
fondamentali aspetti quali le relazioni oggettuali, le funzioni dell' Io, l'adattamento 
dell'individuo all' ambiente etc.  
A questo ampliamento degli orizzonti teorici corrisponde un esponenziale 
arricchimento degli strumenti tecnici a disposizione degli psicologi. Il corpo entra 
in gioco nella relazione terapeutica in maniera totale, sia come soggetto da 
osservare/studiare sia come strumento veicolo di espressione e cura di aspetti 
patologici. 
Esistono diversi metodi o tipi di psicoterapia corporea, proprio come troviamo 
diversi tipi di terapia della famiglia o di terapia del comportamento.  
Tutte le forme di psicoterapia corporea hanno in comune un tratto essenziale: il 
terapeuta si avvale di un repertorio di interventi sia di tipo verbale che fisico.  
Durante una seduta si realizza, quindi, sia uno scambio verbale che un amalgama 
che unisce ad esso sperimentazioni che approfondiscono l’esperienza del proprio 
corpo.  
In linea generale la psicoterapia ad orientamento corporeo contempla una 
specifica teoria del funzionamento mente-corpo che prende in considerazione la 
complessità delle intersezioni ed interazioni tra la psiche e il soma.
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La comune assunzione di base è quella secondo cui il corpo rappresenta l'intera 
persona ed esiste una funzionalità comune tra corpo e mente: il corpo non è 
solamente soma e la mente non è esclusivamente cervello.  
La condivisione di questa prospettiva implica l'assunzione di un modello 
evolutivo, di una teoria della personalità, di una eziopatologia dei disturbi e delle 
alterazioni comuni che si concretizza in una ricca varietà di tecniche terapeutiche 
e in una cornice relazionale terapeutica caratteristica.  
Non esiste alcuna organizzazione gerarchica tra psiche e soma, tra mente e 
corpo, sono entrambi aspetti funzionali ed interagenti di un tutto.  
Il lavoro del terapeuta si caratterizza per un intervento simultaneamente rivolto 
alla persona intesa come un insieme di manifestazioni di vita emotiva, sociale, 
mentale e spirituale, incoraggiando processi autoregolativi e di equilibrata 
percezione della realtà esterna.  
 
 
 
1.2  La vegetoterapia di Reich 
 
Il precursore di un approccio corporeo e olistico alla terapia è senza dubbio 
Wilhelm Reich. Questi portò la dimensione corporea al centro della sua indagine 
intuendo che “ non tanto è importante quello che il paziente dice quanto come lo 
dice”(Reich W., 1927; tr. it 1978). il come non è altro che quello che oggi 
chiamiamo comunicazione non verbale, ossia i messaggi che inviamo tramite la 
nostra postura, il tono della voce, la prossemica, l'interazione oculare.  
In un secondo tempo Reich (1933) osservò che il corpo era essenziale nel 
processo dello sviluppo psichico, nella strutturazione della personalità e del 
carattere, concludendo che non era possibile definire il corpo e la psiche come due 
entità separate, bensì occorreva pensarli come una identità funzionale, come due 
aspetti della stessa realtà.
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Il carattere, ovvero le modalità tipiche con cui un individuo agisce e reagisce, 
non è per Reich un concetto esclusivamente psicologico, esso si configura anche a 
livello somatico attraverso la postura, la mimica, il tono della voce.  
Reich, introducendo il concetto di “identità funzionale” psicosomatica, 
definisce che “gli atteggiamenti muscolari e caratteriali nell'ingranaggio 
psichico hanno la stessa funzione; possono influenzarsi reciprocamente e 
sostituirsi vicendevolmente. In fondo sono inseparabili e nella loro funzione sono 
identici” (Reich W., 1927; tr. it 1978). Emozioni, carattere e atteggiamenti 
muscolari non sono dunque separati ma costituiscono un insieme unitario.  
Il corpo in particolare è coinvolto nelle emozioni: non esiste un’emozione che 
non abbia degli aspetti somatici, che vanno dal ritmo della respirazione e dal 
battito cardiaco, a fenomeni di apertura e chiusura dei capillari, con conseguente 
sensazione di caldo e freddo, ecc. Soprattutto, Reich intuisce l'importanza del 
movimento nell’espressione delle emozioni.  
Esprimere, da ex-premere, è evidentemente il contrario di re-primere. La 
psicoanalisi lavora con i ricordi, le immagini, e solo accidentalmente con le 
emozioni. Eppure gli stessi psicoanalisti sanno che se l'affioramento di un ricordo 
rimosso non è accompagnato dalla relativa emozione, la cosa non ha una grande 
efficacia terapeutica. Ciò significa che non basta ricordare, ma è necessario 
riuscire ad esprimere quello che è stato represso.  
L'aspetto terapeutico è quindi considerato sotto nuova e diversa luce, l'analisi 
del paziente non passa più esclusivamente dalle tecniche classiche, ma procede 
secondo un percorso specifico che dipende dalla struttura che costituisce ogni 
singolo paziente (quella che Reich chiama “analisi del carattere” ), non esiste 
quindi una tecnica stabilita a priori e valida per tutti.  
Le difese del carattere costruiscono delle barriere contro tutte le emozioni 
classificate come pericolose; queste difese vengono chiamate “corazze 
caratteriali”, esse rappresentano delle resistenze con cui l’organismo blocca, non 
solo gli impulsi interiori, ma anche gli stimoli esterni avvertiti come nocivi.