Introduzione Lingua, società e comunicazione: questo il titolo del mio corso di Laurea magistrale e
punto di partenza da cui ho sviluppato questo lavoro di tesi. Mi sono proposta di trovare un punto
di unione fra i tre elementi sopracitati che li racchiudesse e mostrasse la loro inestricabile
connessione e interrelazione. Comunicare è un bisogno e una priorità crescente nel mondo
globalizzato contemporaneo; l’informazione e la sua trasmissione stanno alla base di ogni società
così come della moderna economia. Ma la comunicazione è un sistema complesso, e diversi fattori
ne determinano il suo successo o il suo fallimento; i manuali di linguistica sono pieni di teorie e
modelli per una comunicazione corretta ed efficace (Austin, 1974; Chomsky, 1989; Grice, 1975;
Jakobson, 1966; Saussure, 1916; Halliday, 1973; Searle, 1973) e tutti sono d’accordo nell’affermare
che, in cui qualsiasi atto comunicativo, il contesto è una componente fondamentale per decifrare il
significato dei messaggi scambiati.
Quando si parla di contesto, nella dimensione più ampia in cui un messaggio può essere
inviato e ricostruito, ci si riferisce al contesto sociale, fatto di norme, convezioni e aspettative
comunicative, linguistiche e comportamentali. Fintanto che un messaggio viene trasmesso
all’interno di una società che conosce e condivide tali norme, non dovrebbero esserci problemi per
una sua corretta ed esaustiva comprensione; ma quando uno stesso messaggio deve essere
veicolato al di fuori della società che lo ha generato, tutto si complica poiché ogni società ha
costruito le proprie regole e comportamenti sociali. La lingua, che è l’elemento più immediato e
facilmente riconoscibile di una società, ne è in realtà solo un tassello.
Sebbene sia in atto un processo di crescente globalizzazione nelle economie sviluppate di
tutto il mondo, l’allineamento culturale non segue lo stesso ritmo frenetico e incalzante.
Si è soliti credere che basta tradurre da un codice linguistico a un altro perché avvenga una
comunicazione interculturale; in realtà quello che avviene è semplicemente uno scambio tra codici
linguistici: ciò che Jakobson (1966) chiama traduzione interlinguistica. Quando siamo di fronte a
società diverse, e quindi culture differenti, la traduzione interlinguistica non basta a garantire una
comunicazione efficace e di successo; quello che serve è un adeguamento alle convenzioni,
aspettative, consuetudini sociali e linguistiche della cultura target.
Esiste un terreno estremamente interessante per analizzare le numerose contraddizioni e
opportunità della comunicazione interculturale della moderna società contemporanea ed è il
campo della pubblicità. L’economia si fa internazionale, le così dette multinazionali occupano
porzioni di mondo sempre più vaste e si dirigono a pubblici eterogenei e di culture diverse.
Mettendo insieme tutto quello detto finora, appare che la comunicazione pubblicitaria da
parte delle aziende contemporanee si trovi di fronte a una sfida complessa: da una parte
adempiere alla sua funzione principale, quella di comunicare uno stesso messaggio (ad esempio il
lancio di un nuovo prodotto sul mercato o di nuove promozioni in arrivo), dall’altra, quello di
veicolarlo con i mezzi e le modalità proprie di ogni cultura target. La comunicazione, quindi, sarà
efficace solo se saprà, da un lato, essere coerente con i messaggi lanciati, dall’altro, se sarà in
grado di rispettare e adeguarsi ai bisogni linguistici e culturali della società cui si rivolge.
Al giorno d’oggi, questa sfida è resa più complicata da una nuova tendenza: le aziende non
devono saper comunicare e trasmettere un’informazione (come ad esempio le qualità tecniche di
un prodotto o la convenienza di una promozione), ma devono essere in grado di parlare di sé,
veicolare valori più profondi e sottili riguardo la marca e il mondo che le ruota attorno. Aplle
quindi non si limita a vendere oggetti elettronici, ma innovazione ( Think Different ) ; Nokia non si
promuove come l’azienda che costruisce telefonini, ma come quella che è in grado di far unire le
persone ( Connecting People ); Benetton non vende vestiti ma un modo diverso di concepire la
convivenza tra i popoli, sereno e pacifico ( United Colors of Benetton ) (Lombardi, 2000).
Si capisce bene che i messaggi pubblicitari che le aziende sono chiamate a creare devono
essere estremamente sofisticati e raffinati, nonché coerenti e specifici per ogni cultura target.
Ho deciso di analizzare il linguaggio pubblicitario perché mi permette di prendere in
considerazione tutti gli aspetti sopracitati, le loro relazioni reciproche e i loro effetti su quelle
società chiamate a decifrare tali messaggi. Il mio proposito con questo lavoro di tesi è dunque
quello di studiare il modo in cui una grande multinazionale italiana, Barilla, ha creato il proprio
discorso pubblicitario nell’era della globalizzazione, e come è stata capace di declinarlo secondo le
esigenze linguistiche e culturali del target cui si rivolgeva. Mi sono basata sugli annunci stampa
creati da Barilla per pubblicizzare il suo prodotto di punta, la pasta, in patria e negli Stati Uniti,
cercando di capire come il linguaggio pubblicitario veniva costruito per veicolare determinati
messaggi riguardo l’identità dell’azienda e i suoi valori, attraverso la struttura compositiva
dell’annuncio, e quindi attraverso gli elementi iconici e verbali e la loro reciproca interrelazione.
Ho scelto di studiare il linguaggio di Barilla poiché è un’azienda che ha sempre dato larga
importanza alla comunicazione, intendendo da subito che la buona comunicazione le avrebbe
garantito un enorme successo. Mi è sembrato quindi opportuno capire per primo, cosa
effettivamente Barilla promuoveva nelle sue campagne e secondo, quale tipo di discorso ha deciso
di sviluppare per il mercato estero, americano nel dettaglio.
Il primo capitolo illustra brevemente la storia della pubblicità e i suoi sviluppi sui diversi
media, a partire dall’apparizione sui giornali fino ai moderni sistemi di comunicazione; si illustra
inoltre il processo di creazione di una campagna pubblicitaria nelle sue tappe più importanti e si
analizzano i rapporti che la pubblicità sta intessendo con le moderne società a partire dall’avvento
della mass communication nella seconda metà del diciannovesimo secolo. A conclusione del
capitolo si offre un modello di lettura dell’annuncio pubblicitario proposto da Kress e VanLeeuwen
(1996) secondo cui ogni annuncio va letto come un multimodal text capace di attivare e veicolari
numerosi significati a seconda della struttura compositiva con cui è stato creato.
Nel secondo capitolo si cerca di definire le strategie che le aziende multinazionali hanno a
disposizione per lanciare delle campagne pubblicitarie su mercati, e quindi culture, diversi. Si
forniranno inoltre alcuni esempi per meglio comprendere come viene affrontata la sfida della
comunicazione interculturale sui mercati internazionali.
Il terzo capitolo analizza da vicino il discorso marca, ovvero si incarica di spiegare perché al
giorno d’oggi legare il nome d’azienda a una marca riconoscibile è un processo fondamentale per
comunicare la propria identità aziendale e i valori connessi. Inoltre si indaga il modo in cui la
pubblicità può essere utilizzata per moltiplicare e diffondere tali valori su larga scala e in diverse
culture. Il capitolo si chiude cercando di capre se il Made in può rafforzare o meno una marca,
conferendole valore o meno; per fare questo si analizzeranno le percezioni che i consumatori
stranieri hanno di fronte alla marca Italia, e se quindi il paese di origine influenza o meno nelle
scelte all’acquisto.
A partire dal capitolo quattro si introduce l’azienda Barilla, illustrandone la storia dalle
origini fino al suo recente sviluppo internazionale. Si cercherà inoltre di valutare quali valori essa
veicola attraverso le sue iniziative culturali e sociali in Italia e all’estero.
Il capitolo cinque ci permetterà di seguire l’evoluzione della comunicazione pubblicitaria di
Barilla sia in Italia che all’estero, concentrandosi soprattutto su quali valori ha voluto costruire
attorno al proprio marchio e attraverso le sue campagne pubblicitarie. Ci sarà quindi un’analisi
dettagliata degli annunci pubblicati in Italia e negli Stati Uniti, e si cercherà di capire quali
similitudini e differenze ci sono nei due linguaggi utilizzati e quali conseguenze portano tali scelte
nella percezione dell’azienda da parte del consumatore.
CAPITOLO 1
ORIGINE E SVILUPPI DELLA PUBBLICITÀ Il termine pubblicità deriva dal francese publicitè , che, a sua volta, deriva dal latino
publicare e originariamente significava “rendere di proprietà o d'uso pubblico”, “svelare”,
“rendere noto”. Anche i termini in lingua straniera, come il francese réclame o l’inglese
advertising, hanno un’origine latina, rispettivamente reclamare (“reclamare”, “chiamare ad
alta voce”) e advertere (“guardare verso”, “ascoltare”, “volgere lo sguardo”, “fare
attenzione”), (Dizionario italiano-latino Calonghi).
Al giorno d’oggi, la definizione di pubblicità che ne dà il vocabolario della lingua
italiana Zingarelli è: “attività aziendale diretta a far conoscere l’esistenza di un bene o di un
servizio e a incrementare il consumo e l’uso” , “qualsiasi forma di annuncio diretto al
pubblico per scopi commerciali” (Dizionario italiano-latino Calonghi).
Negli ultimi decenni, però, il termine ha acquisito ruoli e funzioni molto diversi a
seconda del target cui la pubblicità era destinata e della funzione che le si assegnava di volta
in volta. Il più delle volte si pensa alla pubblicità come a un annuncio commerciale, ed
effettivamente la maggior parte degli investimenti pubblicitari sono destinati proprio a tali
scopi (Leech, 1966: 25), ma, in realtà, essa può avere altri fini. Per prima cosa è possibile
distinguere tra pubblicità commerciale, destinata alla commercializzazione di beni, e
pubblicità non commerciale, o così detta sociale, come quella promossa dai governi per
toccare temi importanti per tutta la comunità (come l’abuso di droghe o alcol, o come
l’attenzione all’ambiente) (Vestergaard, 1989).
La pubblicità è composta da molteplici aspetti che si sono andati a sommare, si sono
modificati, trasformati, evoluti dal momento della sua nascita fino ad arrivare ai nostri
giorni; e insieme ai suoi significati sono cresciuti e si sono moltiplicati gli usi che se ne sono
fatti, gli studi sui contenuti, le rilevazioni sulla diffusione, e, come ovvia conseguenza, si sono
diversificate le percezioni che i soggetti hanno di essa.
Come si è detto, la pubblicità si è evoluta. Si è adattata ai bisogni dei tempi, si è
modellata al mezzo attraverso cui veniva veicolata. Si è fatta portavoce di una cultura, di
modi di vivere e di concepire le cose. È diventata molto più di una fotografia su un giornale o
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di un video in televisione. Si è elevata a strumento privilegiato della comunicazione non solo
commerciale e politica, ma anche e soprattutto sociale. Anche gli Stati, si è detto, hanno
approfittato delle immense potenzialità che riserva il linguaggio pubblicitario: immediatezza,
ironia, genialità, creatività, simpatia per inviare messaggi persuasivi al pubblico (Gadotti,
1999: 22).
Al concetto di pubblicità si associa di frequente quello di comunicazione , anch’esso
fortemente poliedrico: è stato declinato in mille significati diversi (condivisione,
partecipazione, persuasione, coinvolgimento, scambio, inganno) per mille usi differenti
(commerciali, politici, religiosi, sociali) con mille strumenti distinti (pubblicità, discorsi,
ricerche, saggi, convegni, spot).
Anche la parola comunicazione ha un’origine latina, precisamente deriva dal verbo
communicare ovvero “condividere”, “partecipare”, “essere in relazione con” (Dizionario
Calonghi). A sua volta il verbo communicare deriva da communis , il cui significato è “comune
a molti, pubblico ”, “bene, patrimonio comune”, “a disposizione di tutti, pubblicamente ”.
Notiamo come la radice latina dei due termini ci aiuta a capire la stretta relazione semantica
tra la parola pubblicità e comunicazione : la pubblicità non è nient’altro che uno dei tanti
modi che la società ha per comunicare, uno strumento per rendere noto un qualcosa al
maggior numero di persone possibile.
Ma, come vedremo in seguito, pubblicizzare non significa comunicare pure e semplici
informazioni; al contrario il consumatore si aspetta dalla pubblicità informazione,
comunicazione interessante, e fiducia:
Come ogni atto di comunicazione, la forza e il valore della pubblicità dipendono dal suo
destinatario. Deve essere rivolta a lui, pensata per lui, interessante per lui. Come? Dedicando
molta attenzione alle tre cose fondamentali che i consumatori si aspettano dalla pubblicità:
informazione , divertimento e fiducia . (Bassat, 2001: 19)
È interessante a questo punto tracciare brevemente la trasmigrazione semantica del
concetto di comunicazione, giacché ci aiuterà nello sviluppo del discorso successivamente.
Viganò (2003: 18-25) mette in luce il percorso semantico che la parola ha subito nell’Europa
occidentale, spostando l’attenzione dall’atto del condividere, al mezzo attraverso il quale
avviene la comunicazione stessa. Si presenta dunque un curioso paradosso: da una parte
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l’epoca contemporanea è pervasa dall’ossessione per la comunicazione; dall’altra i suoi
mezzi privilegiati (stampa, radio, televisione, web) non sono adeguati a ricostruire
l’originario bisogno di condivisione e partecipazione. Sembra dunque che «l’eccesso di
comunicazione contemporanea possa essere colto come una copertura all’assenza di un
senso unitario, di una realtà condivisa» (Viganò, 2003: 24). Ed è quindi su questo terreno
frammentato che si inserisce la pubblicità, veicolo principale e centrale della comunicazione
commerciale e sociale. La maggiore attenzione posta sugli strumenti della comunicazione ha
portato le aziende e gli Stati a concentrarsi sulla velocità di trasmissione dei mezzi e sulla
rapidità di ricezione dei messaggi, ovvero renderli il più efficaci e completi possibile nel
minor lasso di tempo.
1.1. Breve storia della pubblicità Non è del tutto corretto intendere “pubblicità” e “comunicazione” come due concetti
che nascono e si evolvono in parallelo, quasi come un binomio indissolubile. Primo perché la
comunicazione, intesa come scambio di informazioni, emozioni, conoscenze, vicissitudini, è
un bisogno primario dell’uomo. Fin dalle origini, difatti, l’uomo ha avvertito la necessità di
comunicare con i suoi simili, così come qualsiasi altra specie animale. Comunicare il pericolo,
la presenza di cibo, esprimere paura, affetto, rabbia. Ogni manifestazione di stato d’animo,
ogni intenzione volontaria di scambio d’informazioni porta con sé il proposito di comunicare.
Molti studiosi hanno sostenuto che l’uomo è un “animale sociale”, fatto per vivere assieme
ad altri uomini. E questo sarebbe impossibile senza una forma condivisa di comunicazione.
Ecco dunque che comunicare diviene una proprietà intrinseca dell’uomo in quanto individuo
all’interno di una società fatta di relazioni fra molti altri individui che hanno bisogno di
scambiarsi informazioni per sopravvivere.
Se analizziamo la comunicazione sotto questo punto di vista non sarà difficile notare che
la nozione si allontana molto da ciò che noi intendiamo con il termine “pubblicità”. La
pubblicità non è in nessun modo un bisogno primario dell’uomo, non nasce per creare
relazioni, diffondere saperi, condividere emozioni.
Questa premessa è fondamentale perché, se vogliamo indagare le origini della
pubblicità, non possiamo confonderle con le origini della comunicazione.
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1.1.1 La nascita È molto difficile determinare con certezza il momento in cui nasce la pubblicità. Alcuni
autori hanno addirittura individuato alcune forme primordiali di pubblicità nell’antichità,
come ad esempio le numerose insegne utilizzate dai commercianti per attirare i clienti, a
partire dalle iscrizioni trovate a Babilonia e che, oltre cinquemila anni fa, vantavano
pubblicamente le qualità di un artigiano. Numerose sono anche le insegne di epoca romana,
di cui Pompei ne è la testimonianza più ricca, che i commercianti esponevano con iscrizioni
per il passante in grado di leggere, arricchite con immagini simboliche facilmente
comprensibili per la maggior parte della popolazione come il fiasco per l’osteria, le forbici per
il sarto, ecc… Successivamente nel Medioevo nacque l’usanza di dare alle insegne dei negozi
una forma sporgente per ottenere maggiore visibilità, ma l’uso delle insegne sfociò in abuso,
così le autorità dovettero regolamentarne e limitarne l’impiego. Per questo motivo molti
commercianti cominciarono ad abbellire e rendere attraenti intere facciate o fiancate dei loro
negozi dipingendo sul muro o su pannelli figure piacevoli o riproduzioni suggestive dei
prodotti venduti, spesso eseguiti da artisti importanti (Codeluppi, 1997)
Fu soprattutto nel Rinascimento, con lo sviluppo dei traffici commerciali internazionali che
si manifestò l’esigenza di valorizzare le virtù di un prodotto, atteggiamento che è alla base del
funzionamento della pubblicità contemporanea. A quel tempo i giornali non erano ancora
stati inventati e la forma pubblicitaria più diffusa era quella dei venditori ambulanti, i quali
nei mercati e nelle fiere descrivevano ad alta voce le merci ai clienti che sostavano dinanzi le
loro bancarelle. Dalla metà del XV secolo, dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili,
fu possibile affiggere nelle strade delle città europee i primi manifesti stampati, anche se fino
all’Ottocento i manifesti furono per lo più avvisi ufficiali (Viganò, 2003: 74).
Falabrino (2000: 15), nella sua imponente opera “ Effimera e bella ”, avverte il lettore con un
monito riguardo la nascita della pubblicità che non lascia spazio a repliche:
Se aprite una storia della pubblicità e, all’inizio, leggete che i primi a scrivere messaggi
commerciali sono stati i soliti Cinesi, gli Egizi o i Romani di Pompei, chiudetela subito e passate a
più proficue letture. […] Questo è il punto: che la pubblicità nasce con la stampa e con l’industria.
La pubblicità nasce quando le industrie si sostituiscono all’artigianato, quando le vendite di un
prodotto non avvengono più nella bottega dove è stato fatto, o nelle fiere dove il mercante si
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sposta di volta in volta. […] allora non basta più la scritta pompeiana sui muri, e non possono più
bastare le grida e le insegne medievali.
Falabrino quindi pone l’attenzione sulla moltiplicazione dell’offerta, e fa della pubblicità
non più uno strumento per vendere, ma uno strumento per aumentare il numero dei clienti e
il mercato stesso. Queste le sue parole (2000: 16):
La pubblicità nasce quando produttore e compratore non sono più in contatto diretto, quando
i beni di consumo prodotti in grandi quantità vengono fatti conoscere dai mezzi di
informazione che stampano migliaia di copie, e sono trasportati dai mezzi di comunicazione
che riforniscono con regolarità i mercati più lontani. Senza l’industria e senza la stampa,
l’informazione sarebbe rimasta al graffito, all’insegna, al grido dell’imbonitore sulla piazza del
mercato.
Vesme e Brigida (2004: 38) propongono di inquadrare la nascita della pubblicità a partire
dalla società stessa da cui ha preso vita, sottolineando come lo sviluppo dei mezzi di
comunicazione e delle possibilità espressive vadano di pari passo con la crescita e
l’espansione delle strutture sociali, dei processi economici e industriali:
Indubbiamente la pubblicità intesa come progetto coerente, come fatto organizzativo
pianificato, è il prodotto naturale di fenomeni appartenenti alle società moderne, quali sono, ad
esempio, l’infoltirsi e il diffondersi del tessuto urbano, la crescita e l’infiltrazione capillare nella
quotidianità dei mezzi di comunicazione, la specializzazione delle conoscenze e il moltiplicarsi
delle informazioni, la divaricazione sempre più ampia tra il momento della produzione e quello
del consumo.
Quello che è certo è che è stata l’invenzione della stampa a segnare un punto di svolta per
l’evoluzione e la diffusione della pubblicità. Nel Seicento iniziò infatti la diffusione nei
principali Paesi europei delle gazzette , che uscivano una volta alla settimana e contenevano
informazioni provenienti dall’estero e informazioni utili. È con le gazzette che nacque la
réclame , quella che possiamo considerare la prima vera forma di pubblicità seppur ancora
priva di illustrazioni e basata su un testo simile a quello degli articoli giornalistici (Baldini,
2003: 71-72). Vari autori concordano poi nel sostenere che le prime réclame comparse sui
giornali siano quelle uscite nel 1625 sul Mercurius Britannicus in forma di piccoli annunci.
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Qualche anno dopo, nel 1629, nacque a Parigi il Feuille du Bureau d’Adresse creato da
Théophraste Renaudot costituito da soli annunci pubblicitari e creato per offrire a privati o
società spazi pubblicitari. Questi giornali non furono i primi in assoluto a essere pubblicati,
ma furono sicuramente i primi a contenere annunci non solo d’affari e compravendite, ma
anche relativi a libri, profumi, medicinali. Fu verso la fine del Settecento che questi annunci
pubblicitari cominciarono a essere fatti pagare agli inserzionisti (Viganò, 2003: 103).
Anche in Italia, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, si svilupparono queste
prime forme di giornali contenenti delle réclame . Il più vecchio annuncio apparso in Italia
sembra essere quello uscito nel 1691 a Venezia sul Protogiornale Veneto Perpetuo ,
contenente informazioni sulle feste religiose e civili, indulgenze, mercati, fiere, elenco dei
traghetti e delle barche (Falabrino, 2000: 25). L’annuncio è molto interessante perché oltre a
essere il primo apparso, è anche il primo (e di certo non ultimo) che utilizza la figura di un
testimonial per dare valore e prestigio al prodotto pubblicizzato. L’inserzione riguardava un
profumo e, rivolgendosi alla signore più ricche di Venezia, veniva associata a due personaggi
di grande prestigio come la Regina d’Ungheria e il profumiere del Duca di Orléans, entrambi
appartenenti alla corte di Versailles, a quel tempo vista come luogo di grande prestigi, moda
e fascino. L’annuncio recitava (Falabrino, 2000: 28):
« Virtù ammirabili dell’Aqua della Regina d’Ongaria, fabbricata dal Sig. Niquaquert,
profumiere del Sig. Duca d’Orléans […] che si vende da Girolamo Albrizzi in Campo della
Guerra a S. Giuliano ».
Il Settecento è un secolo fondamentale nello sviluppo della pubblicità, non solo perché si
sviluppò notevolmente la réclame su giornali e riviste, ma soprattutto perché l’Inghilterra fu
protagonista di due eventi fondamentali: uno di questi è la prima rivoluzione industriale,
caratterizzata dalla produzione in serie dei prodotti, e il secondo evento è la nascita
dell’agente pubblicitario, cioè di quella figura che acquista spazi pubblicitari sui giornali per
conto delle aziende. Questi due fattori avrebbero dato una forte e notevole spinta in avanti
all’espansione della pubblicità. E così è stato, tant’è che nel 1712 il governo inglese si è
trovato costretto a imporre una tassa sulle inserzioni pubblicitarie sulla stampa, e la
monarchia francese creò alcuni impedimenti giuridici per evitare il sovrappopolamento
pubblicitario. Entrambi questi tentativi non portarono grandi esiti poiché oramai i mezzi
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