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CAPITOLO I
LA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE
INTERNAZIONALE: PROFILI ECONOMICO-
GIURIDICI SOTTESI
Sommario: 1.1 Profili economici della distribuzione commerciale. - 1.2 Modalità di ingresso e
presenza nei mercati stranieri per l’esportatore. - 1.2.1 Distribuire all’estero attraverso un canale
diretto. - 1.2.2 Distribuire all’estero attraverso un canale indiretto. - 1.2.3 Distribuire all’estero
attraverso un canale indiretto integrato. - 1.3 Strumenti contrattuali della distribuzione integrata. -
1.4 La cessione di licenze di fabbricazione come modalità di penetrazione alternativa dei mercati.
1.1 Profili economici della distribuzione commerciale
Nel tentativo di comprendere gli elementi caratteristici e definitori dei c.d. contratti
di distribuzione è necessario dedicare qualche riflessione preliminare ai sottostanti
fattori economici.
Gli eventi intercorsi nel quadro e sulla scia della rivoluzione industriale, in
conseguenza della quale l’espansione della produzione
1
, della competizione
concorrenziale e del tenore di vita, hanno contribuito all’emergere di esigenze
quali, da un lato, l’accrescimento ulteriore del volume della produzione (in virtù
dell’estendersi dei mercati) e, dall’altro, l’esistenza di sbocchi sufficientemente
sicuri sul mercato in grado di “assicurare la massima diffusione dei prodotti nei
diversi mercati, spesso lontani e quasi estranei dal produttore”
2
.
Già a questo punto risulta chiaro il sorgere, in capo al produttore, della necessità di
creare ed organizzare una struttura distributiva in grado di consentire il
raggiungimento dell’obiettivo spiegato nei termini di “superamento del divario tra
produzione e consumo”
3
.
1
“..assegnando alla sfera produttiva il ruolo di asse portante dell’economia.”, R. Pardolesi, I
contratti di distribuzione, Napoli, 1979, p. 10
2
G. Cassano (a cura di), I contratti di distribuzione: agenzia, mediazione, promozione finanziaria,
concessione di vendita, franchising: figure classiche e new economy, Milano, 2006, pag. 6
3
Si veda R. Pardolesi, Contratti di distribuzione, Enc. Giur. Treccani IX, Roma, 1988, il quale
aggiunge anche che tale divario è frutto della circostanza per cui “la capacità, potenziale e non, della
produzione è,entro tale contesto, largamente eccedente le capacità di assorbimento del mercato”, p. 1
2
Per le unità della sfera produttiva si tratta, quindi, di individuare le modalità
organizzative attraverso cui sviluppare risposte adeguate alle necessità viste sopra.
Tali forme di organizzazione per la distribuzione di beni e/o servizi vengono
tradizionalmente ricondotte entro due ambiti equidistanti e agli estremi, cioè a dire
entro la c.d. distribuzione diretta e indiretta.
Nel primo caso è da ritenersi che la merce sia oggetto di trasferimento immediato
dal produttore all’utente finale attraverso la strutturazione di una propria rete di
distribuzione, che consente al produttore medesimo di gestire e regolare (e dunque
controllare) “direttamente tutte le fasi attinenti alla messa in commercio dei propri
prodotti”
4
.
Per quanto possa essere desiderabile il controllo di canale (che nella
summenzionata ipotesi si palesa nella sua pienezza), va rilevato come un
coordinamento proprietario di questo tipo non solo impone oneri finanziari e
gestionali molto elevati, ma può comportare, per giunta, cospicui deficit di
efficienza (molto frequenti nei casi di gestione subordinata)
5
.
In questo caso, dunque, la commercializzazione dei prodotti avverrà avvalendosi di
soggetti appartenenti alla medesima struttura dell’impresa (qualificabili così come
lavoratori dipendenti, sulla cui attività il produttore potrà esercitare pieno potere
decisionale ) e attraverso la costituzione di proprie unità di vendita (proprie filiali,
magazzini, punti vendita e negozi al dettaglio).
Di contro, il fabbricante potrebbe optare per una soluzione che presuppone il
trasferimento del bene all’utente finale attraverso “successive fasi di passaggio dal
produttore al grossista e/o dettagliante”
6
e che, posto l’abbandono di ogni pretesa di
4
F. Bacchini, Le nuove forme speciali di vendita ed il franchising: vendita self-service nei grandi
magazzini, vendita a mezzo di distributore automatico, vendita per corrispondenza, vendita porta a
porta, commercio elettronico, Padova, 1999, XI.
5
E, dunque, non solo tale soluzione può implicare “…una notevole compressione della possibilità
di rapido adeguamento della rete stessa alle mutevoli e repentine esigenze della domanda.”, E. M.
Tripodi (curr.), Guida ai contratti di distribuzione: aspetti giuridici, adempimenti fiscali, modelli
contrattuali, Rimini, 1995, p. 16, ma, inoltre, “..tale modalità…non garantisce una sufficiente
incentivazione dei soggetti che gestiscono le unità operative di commercializzazione sul mercato
non essendo questi esposti ad alcun rischio proprio.”, G. Ceridono, I contratti di distribuzione, in N.
Lipari (a cura di), Tratt. di Dir. Priv. Eur., Vol. IV, Padova, 2003, p. 394
6
A. Baldassari, I contratti di distribuzione: agenzia, mediazione, concessione di vendita,
franchising, Padova, 1989, pag. 473
3
controllo sull’attività di vendita dei propri prodotti, gli consentirebbe di concentrare
le proprie energie unicamente sull’attività produttiva.
In questo modo tuttavia, la ricerca di efficienza in quella che rimane l’attività
principale del produttore comporterebbe un deciso svantaggio in termini di perdita
di controllo sulla fase distributiva, relegata ad operatori commerciali indipendenti,
esterni all’impresa ed operanti su diversi livelli.
È possibile, tuttavia, individuare una terza possibilità
7
che va a collocarsi tra le
soluzioni descritte finora.
Il produttore, alla ricerca di un contemperamento tra l’esigenza di limitare rischi e
oneri connessi alla commercializzazione dei propri prodotti e l’esigenza di non
rinunciare al controllo di suddetta attività, potrà fare ricorso alla stipulazione di una
serie di accordi con operatori formalmente indipendenti, che permettono di saltare
uno o più stadi della commercializzazione dei prodotti, contrapponendosi così al
circuito classico della grande distribuzione.
Il configurarsi di siffatta circostanza dà luogo alla raffigurazione di un diverso tipo,
quello della c.d. distribuzione indiretta integrata, che sintetizza i vantaggi e supera i
limiti dei tipi visti in precedenza.
In questo modo, infatti, il produttore potrà costruire la propria rete distributiva
(dove propria sta ad indicare la capacità dell’esercizio di ingerenza nell’attività
della controparte) alleggerendone il peso attraverso il trasferimento dei rischi a
soggetti indipendenti mediante l’istituzione di rapporti privilegiati con essi.
Per mezzo di schemi di aggregazione aziendale di questo tipo
8
, il produttore
consegue la facoltà di incidere sulla fase di commercializzazione dei prodotti
mediante accordi che “garantiscono uno sbocco fisso per la sua produzione e una
migliore programmazione delle vendite e delle altre attività di marketing”
9
.
Questo aspetto è centrale. È sempre più vero, infatti, che l’affermazione sul
mercato non dipende unicamente dalla produzione di beni “meramente”
concorrenziali in termini di qualità e prezzo.
7
Indicata come “tertium genus” , G. Ceridono, Op. ult. cit., p. 394
8
“ …caratterizzate per il fatto di operare uno spostamento dalla sfera del distributore a quella del
produttore, degli svariati poteri decisori e gestori che spettano normalmente al primo.”, M. Bussani,
I contratti moderni: factoring, franchising, leasing, 2004 , p. 166
9
G. Santini, Commercio e servizi, Bologna, 1988, p. 160, ed anche V. Roppo, I contratti della
distribuzione integrata, Economia e diritto del terziario, 1994, p. 178
4
Piuttosto, l’impresa produttrice deve trovarsi nella condizione di poter sviluppare e
attuare concretamente le proprie strategie di mercato.
Questo implica un collegamento con i consumatori che, seppur mediato dagli
operatori della distribuzione, deve mantenersi intatto garantendo un flusso
informativo privo di distorsioni sofferte lungo il canale.
Ma sperare in una assenza di interferenze di questo tipo laddove sia lecito
presupporre la capacità, da parte della distribuzione, di esprimere indipendenza di
comportamento, è velleitario.
La distribuzione è invece in grado, oggi, di “perseguire e porsi obiettivi che non
coincidono necessariamente con quelli della produzione, esprimendo una
soggettività di comportamento che si traduce in propri obiettivi di marketing nei
confronti del consumatore”
10
.
Ne discende una situazione di potenziali rivalità e conflitto
11
che spingono
inesorabilmente il produttore a ricondurre le imprese commerciali sotto il proprio
controllo, portandolo a forme di integrazione di carattere contrattuale, con
l’intenzione di vincolarne i comportamenti ai propri obiettivi.
Non bisogna poi dimenticare come tale conclusione sia incentivata pure da un’altra
necessità in capo all’impresa produttrice, cioè a dire, la raccolta di informazioni sul
consumatore; poiché il distributore è in grado di disporre di tale prezioso elemento
(essendone, senza dubbio, centro di raccolta), elemento la cui conoscenza è
indispensabile per l’impresa produttrice al fine di porre in essere le proprie
strategie di marketing, procedere verso integrazioni sempre più marcate permette,
in questo modo, di “conoscere le caratteristiche della domanda e di orientare
tempestivamente la propria attività”
12
.
10
L. Pellegrini, Le trasformazioni in corso nella distribuzione: implicazioni settoriali e
intersettoriali, in (curr.) Draetta-Vaccà, I contratti della distribuzione commerciale: ordinamento
comunitario e ordinamento interno, Milano, 1993, p. 144-145 : “…al tentativo dei produttori di
costruire una brand loyalty si affianca il tentativo dei distributori di costruire una store loyalty.”
11
O come altrimenti detto, “ di concorrenza verticale”, L. Pellegrini, Economia della distribuzione
commerciale, Milano, 1990, p. 21
12
G. Ceridono, Op. cit., pag. 399; è stato perciò notato in proposito che “…le scelte di integrazione
e quindi di lunghezza dei canali sono state guidate principalmente dalle esigenze di controllo
dell’attività di marketing e sono, infatti, i vantaggi di marketing ad essere perseguiti..ecc”, in E.
Sabbadin, Evoluzione dei rapporti Industria-Distribuzione e sviluppo dei sistemi di franchising, in
(curr.) Draetta-Vaccà, I contratti della distribuzione commerciale: ordinamento comunitario e
ordinamento interno, Milano, 1993, p. 175 ; e ancora, nel tentativo di individuare ulteriori ragioni
5
Da qui, anche, la tendenza a optare per l’accorciamento del canale, arrivando ad
evidenziarsi un “declino dei canali lunghi, che disperdono informazione, a
vantaggio di canali brevi, con conseguente riduzione dei costi del controllo e di
ricerca dell’informazione”
13
.
Ciò premesso, sembra opportuno soffermarsi sulla riflessione vertente attorno
all’eventuale possibilità di collocare le tradizionali figure della distribuzione entro
un’unica categoria, arrivando ad individuare, sulla base di presupposti e
funzionamento dei diversi schemi negoziali, una traiettoria convergente verso il
medesimo insieme giuridico.
Infatti, se è possibile inquadrare (sintetizzando) il fenomeno della distribuzione
commerciale come quella situazione in cui l’impresa produttrice, non volendo o
non avendo la possibilità di sobbarcarsi l’onere di organizzare da sé una rete di
distribuzione proprietaria, decide di trasferire ad altri la responsabilità delle attività
afferenti alla distribuzione di merci e/o servizi attraverso la realizzazione di trame
pattizie con operatori commerciali autonomi, bisogna chiedersi se un eventuale
tentativo classificatorio di tali pattuizioni possa considerarsi mero esercizio teorico,
oppure se ciò possa ricondurre l’insieme altresì isolato ad un razionale tipo ideale.
Si tratterebbe dunque di verificare se la distribuzione, identificata come quella
“gamma di pattuizioni che si collocano tra la distribuzione indiretta e la
distribuzione diretta, e che permettono di coordinare la fase produttiva con quella
distributiva senza per questo elidere l’autonomia dei partners, venendosi così a
definire un’area contrassegnata dalla integrazione verticale convenzionale”
14
, possa
plausibili che spieghino il tentativo della produzione di riprendere il controllo dell’intero insieme
delle funzioni di marketing, ci si rivolge alla sempre maggiore importanza che hanno via via
acquisito le politiche di marca, cfr. L. Pellegrini, Op. ult. Cit., p. 24
13
L. Pilotti, R. Pozzana, Sistemi di incentivo nei contratti di franchising, p. 200, in L. Pilotti, R.
Pozzana ( curr.), I contratti di franchising: organizzazione e controllo di rete, Milano, 1990; quindi
l’accorciamento del canale (e il suo controllo) rispondendo all’ulteriore “esigenza dell’impresa
produttrice di non disperdere, lungo tutti i passaggi materiali e giuridici che compongono il canale
distributivo, le indicazioni che essa ha stabilito debbano raggiungere il consumatore ecc..”, E. M.
Tripodi, Op.ult. cit., p. 17, realizza una protezione del flusso informativo sia ascendente che
discendente.
14
R.Pardolesi, Contratti di distribuzione, cit., p. 1
6
ingenerare schemi contrattuali riconducibili ad un principio di unità giuridica sulla
base del comune obiettivo perseguito, ovvero l’integrazione distributiva.
Seppure il tentativo possa condividersi, esso risulta in realtà un compito piuttosto
complesso data la variegata tipologia formatasi nel tempo: ci si trova infatti
costretti a racchiudere nel medesimo insieme figure contrattuali profondamente
diverse, talune assimilabili alla categoria dei contratti finalizzati alla promozione
di affari, e strutturabili come sotto-tipi del mandato (agenzia, commissione), altre
mediante le quali si giunge a realizzare il trasferimento giuridico del bene, aventi la
matrice nel contratto di vendita (somministrazione, vendita con esclusiva,
concessione di vendita, franchising)
15
.
Tuttavia, seppure sia possibile individuare elementi ricorrenti e punti di
congiunzione fra i vari accordi utilizzabili in questi frangenti, rimangono differenze
sostanziali tendenzialmente riguardanti il grado di integrazione che ciascuno
schema può realizzare (il cui considerevole grado di variabilità è conosciuto),
pertanto ravvisandosi l’emergere di una certa discordia in dottrina circa la natura
giuridica di questi contratti, giungendo ad una enucleazione nuova, che porta a
distinguere tra contratti di distribuzione e contratti in materia di distribuzione.
Riguardo al primo gruppo soccorre la definizione per la quale essi “sono quei
contratti quadro in forza dei quali un operatore economico assume, verso
contropartita che consiste nelle opportunità di guadagno che si legano alla
commercializzazione delle merci contrattuali, l’obbligo di promuovere la rivendita
dei prodotti forniti dalla controparte; obbligo il cui adempimento postula la
stipulazione di singoli contratti per l’acquisto di prodotti da rivendere”
16
.
Si tratta, dunque, di una definizione che pone enfasi sul principio della rivendita,
connettendo la distribuzione a quell’attività che prevede l’acquisto di beni di un
concedente da parte di un soggetto economico indipendente, al quale esso è legato
contrattualmente e nei confronti del quale è obbligato a rivendere tali prodotti
oggetto di trasferimento a determinate condizioni e conformemente (almeno in
molti casi) a determinate modalità, evidenziandosi, conseguentemente, la spiccata
riconducibilità del contratto di distribuzione a quella fattispecie che deriva la
propria matrice proprio dal contratto di vendita.
15
Cfr. E. M. Tripodi, Op.ult. cit. p. 16
16
R. Pardolesi, I contratti di distribuzione, cit., p. 297
7
A contrapporsi al gruppo sopra individuato, si affianca quello contenente contratti
in materia di distribuzione i quali, nonostante siano centrati sulla
commercializzazione dei prodotti, non realizzano l’integrazione tra i soggetti, i
quali si assumono in proprio i relativi rischi
17
.
Questa è comunque una proposizione alquanto discutibile, nel senso che il concetto
di commercializzazione qui non viene espresso con chiarezza: si tratta di
contribuire alla commercializzazione fisica dei prodotti, attraverso la vendita e
trasmissione della proprietà degli stessi? Oppure il concetto di
commercializzazione è da intendersi associato a quello di generica attività
promozionale della vendita, ovvero un’attività di persuasione esercitata
direttamente nei confronti del potenziale cliente?.
Questa linea interpretativa non facilita la chiara enucleazione e la comprensione del
problema, contribuendo per giunta ad aumentare la confusione classificatoria,
collocando entro questo gruppo fattispecie quali la mediazione, la commissione,
l’agenzia e, a sorpresa, il franchising
18
, motivando la mancata realizzazione, da
parte di queste figure negoziali, dell’integrazione tra i soggetti tra i quali intercorre
la pattuizione.
In realtà, nonostante la consapevolezza di una certa dose di pretenziosità nel voler
tracciare una linea discretiva tra il distributore (quello integrato in particolare) e gli
altri operatori economici attinenti alla distribuzione, la linea di demarcazione più
opportuna sembra essere quella definita dal principio enfatizzante la realizzazione,
attraverso lo schema distributivo, di una dissociazione essenziale che interviene, da
un lato, sul piano dell’assunzione di rischio e, dall’altro, sul piano
dell’organizzazione e della direzione dell’impresa.
Prendendo in riferimento la figura dell’agente, ad esempio, si noterà che questo,
operando come vero e proprio intermediario (dunque, favorendo la conclusione di
contratti di vendita tra preponente e cliente), al di là del rischio derivante dalla
mancata conclusione di contratti, da cui deriva la propria remunerazione calcolata
in percentuale sul valore dell’affare concluso, non assume rischi diretti derivanti
17
Cfr. G. Cassano (a cura di), cit., p. 10, 11
18
La motivazione rimane tuttavia oscura, tanto più che se non fosse per l’inserimento della figura
del franchising entro tale gruppo, la distinzione tracciata sopra apparirebbe persino plausibile.
8
dalla mancata rivendita
19
; sotto il profilo della struttura e dei rapporti d’impresa,
invece, l’agente viene considerato soggetto integrato nella rete di vendita del
fabbricante, il quale sarà nella posizione di imporre strategie e politiche di
marketing
20
, raccogliendo nelle proprie mani un potere unilaterale di vincolare
l’attività dell’agente che si manifesta appunto nel potere di dare istruzioni e nel
corrispondente obbligo di obbedienza dell’intermediario.
Se a questa osservazione può essere accostata sicuramente, persino con maggiore
intensità, la figura del distributore/concessionario, il cui rapporto con il concedente
comporta l’assicurazione a quest’ultimo di una posizione dominante sull’impresa
del rivenditore, tale da consentirgli il comando della rete distributiva entro cui il
concessionario viene inserito, il rapporto in parola si differenzia fortemente
dall’intermediazione tramite agenti proprio in relazione all’organizzazione della
propria attività (gestione di un’attività di rivendita) e dunque per il fatto che questo
assume l’intero rischio derivante dalla commercializzazione dei prodotti.
19
Fermo restando il fatto che, in quanto soggetto in genere formalmente indipendente sul piano
giuridico ed economico, esso svolge la propria attività con organizzazione di mezzi propri,
sopportando effettivamente il rischio del risultato del proprio lavoro, consistente piuttosto nel
mancato successo nella promozione di affari e, nel caso di godimento di potere di rappresentanza,
della mancata conclusione di contratti, cfr. in F. Bortolotti, La distribuzione internazionale:
contratti con agenti, distributori ed altri intermediari, Padova, 2002, p. 76, 77; riguardo alla
suddivisione dei rischi commerciali, l’eventuale insolvenza ricade nella generalità dei casi sul
fabbricante. Nel vigore della disciplina anteriore alle modifiche introdotte tramite D.Lgs. n. 65 del
1999 (recante adeguamento della disciplina relativa agli agenti commerciali indipendenti, ed in
attuazione della direttiva 86/653/CEE), e della legge comunitaria per il 1999, in forza dei quali sono
state apportate modifiche sostanziali alla materia delle obbligazioni dei contraenti (a deciso
vantaggio dell’agente), il fabbricante stesso poteva fare ricorso alla clausola dello star del credere,
da cui sarebbe disceso l’obbligo, per l’agente, di rispondere personalmente del conforme
adempimento del contratto da lui concluso.
20
Potendosi evidenziare nel rapporto alcuni elementi tipici della subordinazione (mancanza di piena
autonomia decisionale, assenza di rischio, inserimento nell’organizzazione dell’impresa principale),
la cui presenza tuttavia non esclude aprioristicamente il carattere autonomo del rapporto; e fino al
punto in cui, in virtù dell’obbligo in capo all’agente di dare esecuzione alle istruzione ricevute dal
preponente (ai sensi dell’art. 1746 c.c. dell’ordinamento nostrano) è persino individuabile la
possibilità di congiungere la figura al franchising, nella misura in cui elemento essenziale del
rapporto è rappresentato parimenti dall’obbligo del franchisee di seguire le indicazioni/direttive del
franchisor, cfr., Fauceglia, Il Franchising: profili sistematici e aspetti contrattuali, in Quad. Giur.
Comm., 1988, p. 146
9
Da questa prospettiva, la dissociazione cui si fa riferimento addietro, appare più
evidente: se sotto l’aspetto del rischio d’impresa, “produzione e distribuzione si
presentano come oggetto di separate imprese, sotto l’aspetto della direzione
dell’impresa, le fasi della produzione e della distribuzione tendono a presentarsi
come elementi interni ad una medesima unità economica, guidata dal produttore”
21
.
In forza di queste osservazioni, è possibile eseguire un pervicace tentativo, optando
per considerare “di distribuzione” accordi quali la c.d. concessione di vendita
22
e
l’affiliazione commerciale (franchising), quest’ultimo sviluppatosi accanto alla
contratto di concessione e considerato espressione, in alcuni casi, di una sua
evoluzione naturale, confermando un trend lungo il percorso di sviluppo delle varie
tecniche distributive che ha tracciato uno spostamento progressivo “del punto di
gravità delle figure in uso, caratterizzate inizialmente dal patto di esclusiva, in
seguito dalla clausola che pone a carico del distributore non solo l’impegno di
acquistare le merci, ma anche quello di promuoverne la commercializzazione
secondo modalità che gli vengono indicate dalla controparte”
23
.
Il franchising in particolare, al termine di una traiettoria insidiosa
24
che lo ha
condotto verso la conquista, in primis, della qualifica di tipo sociale autonomo
dagli altri contratti di distribuzione (soprattutto dalla concessione di vendita),
ovvero un rapporto atipico e innominato non disciplinato dal Legislatore, ma
ricorrente e individuabile nella prassi degli affari, e soprattutto verso l’ingresso,
con l’entrata in vigore della legge n. 129 del 6 maggio 2004, “Norme per la
disciplina dell’affiliazione commerciale”, nel novero delle figure contrattuali
tipiche, viene considerato in grado di riassumere (anche grazie alla poliedricità
21
F. Galgano, Diritto privato , Padova, 2004, p. 547
22
Anche alla luce del fatto (o proprio per questo) che in dottrina vi si riferisce spesso sotto la
denominazione di «contratto di distribuzione», si veda in F. Bortolotti, Concessione di vendita,
franchising e altri contratti di distribuzione, normativa antitrust, contratti internazionali di
distribuzione, Padova , 2007, p. 2
23
G. Zuddas, Somministrazione, concessione di vendita, franchising, Torino, 2003, p. 174; una linea
di sviluppo indicativa del fatto che queste, meglio di altre figure contrattuali, si sono mostrate
idonee a soddisfare gli interessi delle imprese in vista di una migliore efficienza distributiva.
24
Il dubbio, legittimo, si trova in G. De Nova, Franchising (voce), Digesto delle discipline
privatistiche, Torino, 1991, p. 300, 301, il quale sottolinea che il franchising, trasferendosi dal
sistema statunitense, ha trovato il terreno già largamente presidiato da un tipo sociale risalente, cioè
proprio la concessione di vendita, incontrando perciò difficoltà a conseguire una propria
emancipazione sul piano giuridico.
10
espressiva dell’autonomia contrattuale entro tale schema) “l’evoluzione delle
necessità pratiche e negoziali della distribuzione..incarnando l’essenza del contratto
di distribuzione”
25
.
Tuttavia, convenendo con quanto detto finora, ma riconoscendo le difficoltà
teoriche connesse all’intera vicenda nel senso che si assiste ad una gradazione
progressiva di figure che variano l’una rispetto all’altra per una pluralità di
elementi che rendono difficile una rigida classificazione, nonostante possa
considerarsi legittimo utilizzare la “categoria” dei contratti di distribuzione per
indicare quei determinati strumenti giuridici adoperati per dare attuazione al
fenomeno dell’integrazione distributiva, è più opportuno limitare la portata delle
proprie ambizioni, rinunciando ad una vera e propria classificazione, e rimettendosi
alla semplificazione offerta da un’opinione giurisprudenziale tuttora valida,
secondo la quale sarebbe più indicato pensare alla distribuzione come ad “un
genus complessivo sotto il quale andrebbero riunite le fattispecie negoziali attinenti
in qualche modo al processo di distribuzione commerciale, cioè ai complessi
meccanismi che colmano la distanza tra produzione e consumo”
26
.
1.2 Modalità di ingresso e presenza nei mercati stranieri per l’esportatore
Seppur possa risultare naturale essere indotti a ricondurre i ragionamenti fin qui
svolti entro un contesto meramente nazionale, va osservato, in realtà, che le trame
finora seguite acquisiscono ulteriore fondamento proprio nel momento e nella
misura in cui vengono applicate al contesto degli scambi internazionali
27
.
Se è vero che rientra nell’interesse di chi produce garantire la massima diffusione
dei propri prodotti, è inevitabile, ed essenziale, per tale soggetto economico,
adoperarsi affinché tale diffusione venga estesa oltre i confini nazionali.
25
E. M. Tripodi, Op.ult. cit. p. 19
26
Trib. Catania 29.2.88, Nuova giur. civ. comm., 1989, I, 14
27
A maggior ragione, essendo oggetto di questa trattazione proprio la disciplina giuridica di una
specifica figura negoziale attinente alla distribuzione internazionale e come ciò influisca sulla
contrattazione con una controparte straniera (nel nostro caso, come si avrà modo di vedere,
appartenente ad un determinato ordinamento, cioè quello russo), sarà scontato dare privilegio alla
dimensione internazionale degli affari, e, di conseguenza, ai fenomeni che si manifestano nella prassi
entro la medesima sfera.
11
Ed è ancora più vero che, in virtù di tale attività, presupponendo che l’esportatore
possa trovarsi di fronte a situazioni e realtà di mercato scarsamente esplorate o del
tutto sconosciute, l’esigenza di prendersi cura della fase distributiva, in capo ad
esso, si faccia ancor più stringente
28
.
In tali frangenti, dunque, assume maggiore probabilità il ricorso a forme organizzate
di distribuzione, “stabilendo rapporti di collaborazione con soggetti terzi ed
indipendenti , avvalendosi dell’organizzazione e dell’attività di questi ultimi per
promuovere la vendita e la diffusione dei propri prodotti entro un mercato”
29
.
In realtà, quella vista appena sopra, è un’accezione che non può essere interpretata
in senso esteso (e cioè, tale da comprendere l’intera gamma di rapporti distributivi a
cui si faceva cenno più indietro) essendo semplicemente una delle possibilità (o
tecniche) che rientrano nell’ampio spettro di alternative di cui dispone il fabbricante
intenzionato a commercializzare i propri prodotti in mercati stranieri
30
.
Come si vedrà, la scelta di una tra queste opzioni costituisce una mossa decisiva e
fondamentale per una impresa ai fini del conseguimento del successo, mettendo alla
prova la professionalità dei “decision-makers” aziendali
31
.
28
Confermando, con maggior fermezza, il principio per cui “si può parlare di un vero e proprio
spostamento dei problemi della gestione imprenditoriale dal campo della produzione a quello della
distribuzione”, F. Bortolotti, La distribuzione internazionale : contratti con agenti, distributori ed
altri intermediari, Padova, 2002 p. 8
29
A. Frignani, Il diritto del commercio internazionale: manuale teorico- pratico per la redazione
dei contratti, 2. ed., Milano, 1990, p. 193
30
Tuttavia, come viene fatto notare, (A. Frignani, Op. ult. cit., p. 193) alcuni tra questi casi,
individuabili nella prassi degli affari, non possono essere fatti rientrare nello schema dei contratti
della distribuzione (internazionale), ad esempio perché il rapporto giuridico posto in essere non
presenta alcun carattere di internazionalità (come per la vendita diretta della merce ad una società
di export con sede nel paese del produttore), o quando la disciplina del rapporto in oggetto verrà
ricavata dalla normativa lavoristica (nel caso in cui i soggetti incaricati della promozione e vendita
all’estero siano figure inquadrate come lavoratori dipendenti entro l’organizzazione della impresa
produttrice), e, ancora, nella ipotesi in cui le problematiche emergenti vengano fatte rientrare
nell’ambito dei rapporti fra imprese appartenenti ad un medesimo gruppo (con l’istituzione di una
filiale all’estero a cui siano delegati compiti di commercializzazione entro tale paese).
31
Seppur ai limiti del pleonasmo, più di una volta ci si imbatte nel concetto, per es. in E. Anderson,
A.T. Coughlan,“International market entry and expansion via independent or integrated channels
of distribution”, Journal of Marketing, vol. 51, n.4, 1987, secondo cui la scelta tra distribuzione
“via company-owned distribution channel or through an independent organization” o, in altri
12
La preferibilità di una tecnica piuttosto di un’altra è collegata a considerazioni ed
elementi diversi (dei quali non interessa in questa sede fornire un’analisi completa
ed esaustiva) tra cui rilevano gli obiettivi dell’impresa (vi è, per esempio,
l’intenzione di avviare una strategia di penetrazione stabile e su larga scala ed esiste
la disponibilità di sostenere gli oneri conseguenti?. Oppure lo sviluppo di un
mercato estero è solo marginale nella strategia complessiva della impresa?); il tipo
di prodotto (i prodotti deperibili, i prodotti ad alto prezzo unitario, i beni industriali
che necessitano comunicazioni strette tra venditore e acquirente, i beni strumentali
che richiedono accurati servizi post-vendita, per esempio, tendono a venire
distribuiti attraverso un canale diretto); i compratori ( è necessario valutarne
comportamenti, abitudini di acquisto, reazione di fronte ad una particolare modalità
di distribuzione, per non dimenticare il numero dei potenziali acquirenti, laddove
tanto esso è più alto e più alta è l’esigenza di una presenza diretta); la concorrenza
(molto meglio, per fronteggiarla efficacemente, presentarsi con forme distributive
simili, anche se ciò può non essere strettamente conveniente sul piano economico);
la legislazione locale (nella misura in cui sono posti limiti all’ingresso e alla
presenza di imprese straniere o in caso di sussistenza di una normativa specifica e
particolarmente protettiva nei confronti dei soggetti locali coinvolti in attività di
intermediazione); il grado di sviluppo del mercato e le caratteristiche del sistema
distributivo (dove la distribuzione realizzata da intermediari è più efficiente
l’impresa straniera si appoggerà ad essi, mentre in caso di inefficienza di tale
strumento si ricorrerà alla presenza diretta); i benefici che possono ottenersi
attraverso una o l’altra forma di penetrazione commerciale (ricavati ponendoli a
confronto con i relativi costi iniziali e di esercizio, con gli utili potenziali che ne
derivano e i rischi che si corrono)
32
.
Le alternative cui si sta facendo riferimento e che si presentano a coloro intenzionati
ad organizzare la vendita di prodotti all’estero sono riconducibili a categorie ben
precise, realizzando, dunque, quella tripartizione di canale desumibile dalle
osservazioni effettuate al paragrafo precedente, tripartizione altrimenti qualificabile
in canale di distribuzione diretto, indiretto e indiretto integrato.
termini, il “..make-or-buy issue, the company system being the “make” option and the independent
channel the “buy” alternative..” costituisce “..one of the most debated and critical areas in
international business”, p. 71
32
A tale proposito, G. Pellicelli, Il marketing internazionale: fattori di successo nei mercati esteri,
2. ed., Milano, 1990, pp. 231-267
13
1.2.1 Distribuire all’estero attraverso un canale diretto
Com’è noto, questa soluzione può configurarsi diversamente, implicando in primis
il trasferimento diretto della merce dal produttore all’utente finale; questo può
avvenire, data per presupposto l’assunzione dell’iniziativa da parte del fabbricante,
sia attraverso la presa di contatto tra impresa e compratore, sia per mezzo di una
organizzazione appositamente predisposta all’estero:
a) nel primo caso, qualificabile come vendita diretta a clienti stranieri
33
,
l’impresa entra in contatto con il compratore, il che può avvenire “quando si crei un
contatto attraverso una richiesta diretta o in occasione di una fiera o di una
esposizione”
34
. Si tratta di una soluzione poco impegnativa e che, proprio rispetto a
questo, si differenzia in modo sostanziale dalla seconda soluzione, in cui l’iniziativa
dell’impresa corrisponde all’assunzione di tutta una serie di oneri e rischi connessi
alla commercializzazione (investimento iniziale e costi di esercizio), che in questo
caso, al contrario, vengono meno.
Tuttavia, questa è una alternativa che può essere adottata solamente in casi
circostanziati, connessi, per esempio, alla vendita di beni con determinate
caratteristiche (beni strumentali, beni industriali, materie prime) e, pertanto, quando
non vi sia l’esigenza di creare una stabile organizzazione sul territorio
35
, dato che
gli affari in questione possono essere trattati singolarmente dal personale
commerciale del venditore da questi inviato.
b) La seconda opzione, quella a cui principalmente si fa riferimento nel
caso di distribuzione diretta, consiste, come è già stato accennato, nel predisporre
una apposita struttura di vendita finalizzata alla commercializzazione dei prodotti
33
Va ribadito che il riferimento va ad una particolare modalità rientrante in una determinata tecnica
con cui può avvenire la penetrazione di mercati stranieri, dunque non attenendosi rigidamente alle
prescrizioni ,come quella vista più sopra [ nota 18], che pongono l’accento sullo sfruttamento di una
organizzazione di distribuzione, a prescindere che sia propria o altrui.
34
F. Bortolotti, La distribuzione internazionale: contratti con agenti, distributori ed altri
intermediari, Padova, 2002, p. 10
35
F. Bortolotti, La redazione dei contratti internazionali: modelli di contratto, schede paese ed
altri materiali, Padova, 2002, “…si tratterà di regola di rapporti episodici che non implicano una
vera presenza sul territorio e in cui è normale che la trattativa contrattuale avvenga direttamente tra
il produttore e il cliente finale…ecc”, p. 363
14
in un dato mercato, la cui gestione rientra nel novero delle responsabilità
convergenti sul produttore, il quale perciò si fa carico di tutti gli oneri, costi e rischi
connessi alla strutturazione di una rete di distribuzione proprietaria, della quale è
lecito attendersi una maggiore onerosità proprio quando sarà realizzata in un paese
straniero
36
.
A questa scelta sottende l’esigenza di presentare e proteggere il proprio marchio,
stabilire una presenza ed una penetrazione stabili, gestire direttamente una rete di
vendita dedicata, garantire una assistenza post-vendita
37
; finalità più agevolmente
perseguibili operando sulla base di una presenza diretta nel mercato selezionato,
cosa che può adottare forme diverse a seconda delle strategie di lungo periodo
adottate, delle specifiche politiche di marketing di cui si mira l’implementazione,
del volume di vendita, del tipo di prodotto e così via
38
.
Una presenza di questo tipo può essere creata costituendo una propria unità
operativa nel mercato estero, incaricata di coordinare, controllare, svolgere l’attività
distributiva dei prodotti della casa madre, curare direttamente questioni di carattere
finanziario, amministrativo e di marketing.
Inoltre, per determinate categorie di prodotti, tale via appare non solo consigliabile,
bensì “pressoché obbligata, allorché i prodotti sono di qualità, contraddistinti da un
36
Ciò, infatti, “…presuppone di regola un fatturato rilevante, tale da giustificare le spese fisse di
una struttura dedicata alla distribuzione in un singolo paese.”, F. Bortolotti, Op.ult. cit., p. 377. I
vantaggi, in cambio, sono noti: maggiore controllo sull’attività distributiva, presenza sul territorio,
“sviluppo di politiche di lungo termine senza essere costretta a puntare su risultati di breve periodo
come è invece interesse in genere degli intermediari” (G. Pellicelli, Il marketing internazionale:
fattori di successo nei mercati esteri, cit., p. 248), contatto con la clientela, capacità di raccolta di
informazione circa l’andamento della domanda (anche se questo è controbilanciato da una perdita di
flessibilità del sistema che inibisce la capacità di adeguamento ai repentini cambiamenti della
domanda stessa) e, non meno importante, maggiore stabilità della struttura in virtù di maggiore
indipendenza rispetto a figure commerciali indipendenti intermedie.
37
Rappresentando persino “..l’unica forma possibile quando: a) i problemi della distribuzione sono
complessi, come avviene per le imprese che dispongono di un’ampia gamma di prodotti che
richiedono l’adozione di approcci distributivi differenti; b) la vendita di beni strumentali richiede la
gestione diretta di un’organizzazione di servizi postvendita; c) i prodotti sono specializzati; d) si
tratta di un mercato e prodotto di massa, per cui è indispensabile costituire una base diretta sul
mercato.”, G. Pellicelli, Il marketing internazionale : mercati globali e nuove strategie competitive,
Milano, 1999, p. 355
38
G. Pellicelli, Il marketing internazionale: fattori di successo nei mercati esteri, cit., p. 244
15
marchio affermato, la domanda è sostenuta ed esiste una forte concorrenza: in
questa situazione, il ricorso a intermediari non consente di tenere adeguatamente
sotto controllo il mercato e non garantisce il presidio dell’immagine aziendale e la
collocazione dell’intera gamma dei prodotti offerti dall’esportatore”
39
.
Il costante contatto con la clientela da parte dell’unità commerciale (attraverso
l’organizzazione che ad essa fa capo) garantisce una profonda conoscenza del
mercato, e una migliore e tempestiva attuazione delle politiche di marketing.
Tale unità può assumere principalmente, due forme giuridiche diverse: è necessario
distinguere tra filiale di vendita (branch) e consociata (subsidiary).
La filiale è una semplice divisione, una società figlia o società controllata priva di
personalità giuridica, in grado di svolgere attività commerciali finalizzate al
conseguimento di un risultato economico proprio (e come tale evidenziabile in una
contabilità separata da quella della casa madre), configurabile come “stabile
organizzazione”
40
(qualificazione che rileva in merito a valutazioni di carattere
fiscale).
La consociata, al contrario, seppur considerata “stabile organizzazione” allo stesso
modo della filiale, differisce in modo sostanziale da essa, in quanto vera e propria
entità legale separata e distinta, dotata di personalità giuridica (definita secondo il
disposto della normativa societaria locale), costituita e controllata dalla casa-madre.
In aggiunta, questa può essere diversamente definita a seconda della percentuale di
capitale sociale della stessa posseduta dalla casa-madre: in relazione “alla quota di
partecipazione detenuta da quest’ultima, la consociata è denominata società
controllata (sussidiaria), oppure società collegata (o affiliata)”
41
.
39
E. Valdani, G. Bertoli, Mercati internazionali e marketing, Milano, 2003, p. 268; scelta che,
comunque, occorre ribadirlo, “presuppone un fatturato rilevante, tale da giustificare le spese fisse di
una struttura dedicata alla distribuzione in un singolo paese.”, F. Bortolotti, La distribuzione
internazionale: contratti con agenti, distributori ed altri intermediari, cit., p. 14
40
E. Valdani, G. Bertoli, Op. cit., p. 273
41
E. Valdani, G. Bertoli, Op. cit , p. 269, dove si precisa che “l’entità della partecipazione che
consente tale diversa configurazione, di rilievo per gli effetti giuridici e fiscali connessi, differisce a
seconda degli ordinamenti nazionali…e per le imprese italiane, i criteri sono quelli dettati dagli artt.
2359 e 2359-bis c.c. ecc.”. Si osservi che tale distinzione è pertinente nella letteratura aziendalistica.
In ambito giuridico, generalmente, per filiale si possono intendere una società figlia od una società
controllata, mentre per sussidiaria si intende una sede secondaria dotata di personalità giuridica
autonoma, si veda, anche, in F. Galgano, Diritto privato, Padova, 2001, p. 741