4
Introduzione
Questo lavoro si propone di analizzare la figura di un personaggio che,
per quanto tutt’ora poco noto, ha rivestito un ruolo di fondamentale
importanza nella storia italiana della prima metà del ‘900. Ernesto Rossi,
infatti, oltre ad essere uno dei maggiori esponenti dell’antifascismo di
matrice non comunista, rappresentò nell’Italia repubblicana un esempio di
coerenza e integrità morale senza eguali e insieme uno degli “intelletti più
alti, una delle coscienze più limpide e profetiche della democrazia
italiana”
1
. Per questo si è tentato di rendere conto sia della dimensione
intellettuale che di quella umana.
Il lavoro ha inizio con un primo capitolo in cui si è cercato di tracciare
una biografia del personaggio, in modo da rendere più agevole la
successiva analisi del suo pensiero. Il quale fu profondamente
condizionato da alcune importanti esperienze compiute nel corso della
sua vita. La prima in ordine di tempo fu la partecipazione volontaria alla
prima guerra mondiale, che, oltre a radicalizzare il suo antimilitarismo,
mettendolo a stretto contatto con le classi popolari, gli fece maturare la
consapevolezza di essere un privilegiato e per ciò stesso investito del
compito di meritare coi fatti questo privilegio. Poi le tragedie familiari, le
oscillazioni politiche del primo dopoguerra, l’avvicinamento ai fasci di
combattimento, fino ad arrivare all'incontro con Salvemini che segna la
svolta verso la cospirazione antifascista.
1
N. Ajello, Ernesto Rossi scriveva in codice messaggi dal carcere, “La Repubblica”, 25 maggio
2001.
5
Arrestato dalla polizia fascista nel 1930, trascorre in carcere nove anni,
sopportando le restrizioni e la censura con lo spirito battagliero di chi ha
la certezza di aver fatto la scelta giusta. Durante questi anni si dedica
soprattutto agli studi economici e il suo pensiero, influenzato
particolarmente dalla lettura del Wicksteed, come egli stesso scriverà a
Salvemini nel 1944, si arricchisce di venature socialiste e giacobine: “pur
conservando le mie opinioni liberali – confessò – sono diventato molto
più socialista, ed anche molto più giacobino”
2
. Nel 1939 iniziano i quattro
anni di confino, durante i quali, insieme ad Altiero Spinelli ed Eugenio
Colorni, scriverà il celebre Manifesto di Ventotene.
All’indomani della Liberazione fu nominato, in rappresentanza del Partito
d’Azione, sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo Parri e
presidente dell’Arar (Azienda Rilievo e Alienazione Residuati), che diresse
fino al 1958. Dal 1949 al 1962 collabora a “Il Mondo” di Pannunzio, con
inchieste che vengono poi raccolte in alcuni libri dai titoli tanto famosi da
diventare espressioni del linguaggio comune: Aria Fritta (1955)e I padroni
del vapore (1956), per fare solo due esempi. È questa la stagione d’oro di
Ernesto Rossi, durante la quale, attraverso gli articoli e l’organizzazione
dei Convegni de “Gli amici del Mondo”, egli poté esprimere al meglio il
suo genio profondo, denunciando le malefatte e le falsità dei “padroni del
vapore”, della Chiesa, dei dirigenti comunisti e di quelli liberali, senza
timori reverenziali nei riguardi di nessuna autorità. Quando, nel 1962, gli
eventi legati al caso Piccardi lo costrinsero a lasciare il giornale, fondò
insieme a Ferruccio Parri “L’astrolabio”. Il tentativo era quello di ricreare
un’esperienza simile a quella vissuta con “Il Mondo”, ma fallì perché
l’atteggiamento diplomatico di Parri non poteva certo soddisfare lo spirito
intransigente di un uomo, come Rossi, abituato ad una schiettezza a tratti
irriverente.
2
E. Rossi e G. Salvemini, Dall’esilio alla Repubblica. Lettere 1944-1957, a cura di M.
Franzinelli, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 11.
6
Nel 1966, a pochi mesi dalla morte avvenuta nel febbraio del 1967, gli fu
conferito il premio “Francesco Saverio Nitti”, che in parte lo ripagò di
una vita avara di riconoscimenti accademici. Questi i principali eventi che
ne scandirono la vita e ne condizionarono il pensiero.
Il secondo capitolo, invece, è dedicato all’analisi dei rapporti con i due
uomini che maggiormente questo pensiero contribuirono ad orientare, su
coloro che sono stati da lui stesso definiti come i suoi maestri: Luigi
Einaudi e Gaetano Salvemini.
Da Einaudi Rossi impara a cimentarsi negli studi economico-finanziari e
nell’elaborazione dei progetti europeisti. Ad accomunarli è l’adesione ad
una visione liberale, della vita come dell’economia, ma con una sostanziale
differenza: l’atteggiamento di Einaudi era quello del liberale puro che
concentra la sua attenzione soprattutto sulla difesa del sistema di libero
mercato; mentre quello di Rossi era di ispirazione radicale e riformatrice,
sempre pronto a evidenziarne storture e contraddizioni. L’indirizzo
economico di Einaudi, pertanto, fu sempre giudicato dal suo allievo come
troppo conservatore, ma Rossi riconosceva in lui non solo un maestro per
lo studio dell’economia, ma anche un esempio di coerenza e rigore
morale.
L’influenza di Salvemini, invece, lo spinge verso gli studi storico-politici e
ne condiziona la visione liberale in senso socialista. Quello tra Salvemini e
Rossi fu un sodalizio duraturo perché, nel condividere l’ispirazione a
promuovere lo stesso tipo di liberalismo partivano dalle medesime
premesse di fondo. Intanto l’empirismo, che nulla concedeva alle
astrazioni degli idealisti e dei comunisti, e quindi nessun accenno al
Popolo, alla Borghesia, al Progresso, (tutte per carità con la lettera
maiuscola) ma soltanto l’interesse per i problemi concreti. La virtù della
tolleranza che ne animava lo spirito, e che ne ispirò l’opposizione al
comunismo non meno che al fascismo. Quindi il rigore sui principi, che
non permise a nessuno dei due di trovarsi a proprio agio all’interno dei
7
meccanismi di partito. E infine la chiarezza che informa i loro scritti,
sempre composti dopo una lunga e puntigliosa ricerca documentaria, e
che mai si abbandonano alla retorica o indugiano in intenti celebrativi. Per
questo, con gli anni, il rapporto tra i due si trasformò in molto di più di
un’amicizia, potremmo dire in un rapporto tra un padre ed un figlio.
Il terzo capitolo è dedicato all’analisi del pensiero di Rossi e alle sue
proposte di riforma del sistema politico-economico dell’Italia
repubblicana. Dall’analisi delle sue delle sorgenti morali e dei suoi
presupposti teorici, abbiamo derivato il tipo di liberalismo che Rossi
intendeva promuovere. Un liberalismo sicuramente incentrato sulla difesa
delle libertà personali, ma solcato da venature giacobine e attento alle
esigenze di giustizia sociale. Il liberale alla Ernesto Rossi, infatti, è, e non
può non essere, giacobino perché è disposto ad attuare tutte quelle
riforme, anche le più radicali, utili a educare la popolazione alla libertà e a
promuovere una maggiore giustizia sociale.
Date queste premesse si è passati poi ad illustrare le motivazioni del suo
anticomunismo, che costituisce la più nitida testimonianza dell’acutezza
intellettuale di Rossi e del rigore scientifico di tutti i suoi studi, perché,
nonostante siano stati elaborati nella solitudine del carcere fascista,
giungono alle medesime conclusioni di tanti più famosi testi pubblicati
sull’argomento in quello stesso periodo. Dall’anticomunismo, però, Rossi
non ricavò mai un’esaltazione del capitalismo in quanto tale, ma anzi, ne
criticò ferocemente alcune delle storture che ancora oggi lo affliggono. La
critica è rivolta sia a dimostrare gli errori teorici in cui incorrono gli
economisti della scuola classica quando sostengono l’assoluta bontà del
mercato in concorrenza perfetta, sia, dal punto di vista empirico, a
evidenziare le ingiustizie create dal libero gioco degli interessi individuali.
Infine si è passati ad analizzare la pars costruens del pensiero di Rossi,
ovvero le proposte di riforma utili a fare dell’Italia “un paese più civile”.
L’abolizione della miseria innanzi tutto, argomento al quale Rossi teneva
8
particolarmente, tanto da considerare il saggio in cui lo trattava, Abolire la
miseria appunto, come il suo lavoro più importante. Poi lotta contro i
“padroni del vapore”, in quanto forza illiberale dotata di un forte potere
di condizionamento su tutta la vita politico economica dell’Italia. E infine,
la lotta al clericalismo dilagante nell’Italia dominata dal potere
democristiano.
Questi a grandi linee gli argomenti trattati nel presente lavoro, che, ben
lungi dal potersi considerare esaustivo rispetto alla figura di un
intellettuale eclettico, in grado di intervenire su temi differenti senza mai
scivolare nel dilettantismo, ci auguriamo riesca almeno a suscitare nel
lettore l’interesse alla lettura delle opere di Rossi, convinti che lo
conquisterebbero come è successo a chi scrive.
9
Capitolo I: La vita
“Io sono,credo, ancor più pessimista di te sulla natura degli
uomini. Ma non sono un misantropo e non trovo giustificato
il disprezzo per l’umanità in generale. L’uomo è pur sempre,
per me, l’oggetto del mio interessamento più vivo, e la
sorgente delle più pure e più alte soddisfazioni. Anche quando
studio una qualsiasi scienza, è lo spirito umano che
m’interessa innanzi tutto, e che ammiro nei suoi sforzi per
elaborare strumenti sempre più perfetti di conoscenza, e per
abbracciare con un’interpretazione razionale campi sempre
più vasti dell’universo. Basterebbe anche la sola mia
conoscenza elementare della matematica per impedirmi di
disprezzare gli uomini. […] E cosa sono i milioni di molluschi
e d’imbecilli che formano le folle plaudenti e schiamazzanti a
comando, in confronto a un solo uomo, a un Tolstoi? Tolstoi
parla, e tu dimentichi i milioni d’imbecilli e di molluschi –
quei milioni che facevan tanto baccano svaniscono, non
esistono più – e ti senti contento d’esser uomo, d’aver un
anima in cui risuona la sua parola d’amore. […] Che importa
che gl’imbecilli, i molluschi, i farabutti sian tanti e tanti, e
prevalgano nella vita ed abbian successo? Gli uomini non si
contan per capi come il bestiame da vendere, ed il successo
niente prova nel mondo del pensiero. E non solo ci possiamo
sempre consolare guardando a quel che lo spirito umano ha
creato nel campo delle scienze e delle arti, e guardando i
nostri eroi nel passato, ma si è sicuri, quando non si viva solo
una vita gretta, priva d’ogni luce ideale, d’incontrare sulla
nostra stessa strada, alla ricerca del giusto e del vero, altri
uomini di carne come noi, mossi della nostra stessa ansia, in
cui ci è possibile riconoscere dei fratelli in senso molto
diverso, molto più profondo, di quanto ci sia possibile con le
altre creature. Ed anche se, dopo l’incontro, ci si divide e non
ci si ritrova mai più, il ricordo di quando ci siamo guardati
negli occhi, di quando ci siamo stretta la mano con fiducia
completa, ci sostiene, ci dà forza e coraggio, quando ci
sentiremmo troppo disgustati e stanchi per la malvagità e la
bestialità e la malvagità trionfante”.
(Lettera di Rossi alla madre, Casa penale di Roma, 30 maggio
1938, in E. Rossi, Elogio della galera. Lettere 1930-43, a cura di
M. Magini, Laterza, Bari 1968, pp. 419-420).
10
1. Giovinezza e guerra
“Mi ricordo quand’ero studente liceale e abitavo
dall’Aida, che la sera camminavo sui Lungarni fino a
notte tarda, agitando in me stesso le idee essenziali sui
miei rapporti con gli altri uomini e su quel ch’era
possibile fare per diminuire l’ingiustizia e la miseria nel
mondo. Ed anche allora non capivo come tanta gente
potesse divertirsi e far carriera, senza preoccuparsi della
vita degli altri uomini, senza neppure porsi i problemi
che mi tormentavano”.
(Lettera alla madre, carcere di “Regina Coeli”, 2
dicembre 1930, in E. Rossi, Elogio della galera. Lettere
1930-43, a cura di M. Magini, Laterza, Bari 1968, pp.
17-18).
Ernesto Rossi nasce a Caserta nel 1897, quarto dei sette figli di don
Antonio Rossi della Manta, ufficiale dell’esercito di aristocratica famiglia
piemontese, e Elide Verardi, bolognese. Nel 1899 la famiglia Rossi si
trasferisce in quella che, da quel momento in poi, sarà la loro città
adottiva, Firenze. Qui Ernesto frequenta il primo anno del Regio Liceo
Classico Galileo quando, il 16 giugno 1913, il padre sorprende la madre
nella stanza del dozzinante Giacomo Spagnoletti, ed esplode sei
revolverate contro i due amanti, ferendoli gravemente. La vicenda finisce
sui giornali costringendo Elide a trasferirsi con i suoi figli, che non
avevano esitato a schierarsi dalla sua parte ripudiando il padre, a Bologna.
Da quel momento in poi sarà Elide a rappresentare l’unico punto di
riferimento affettivo per tutta la famiglia, e per Ernesto in particolare.
11
Con la ripresa dell’anno scolastico Ernesto si trasferisce a Firenze da sua
sorella Aida e suo marito Lorenzo Ferrero per frequentare la seconda
liceo; la scarsa applicazione allo studio gli costerà però la bocciatura.
Decide di non re iscriversi alla seconda liceo, ma di prepararsi a Bologna
da privatista per sostenere direttamente la licenza liceale.
Intanto spirano sull’Europa venti di guerra, l’Italia dichiara la sua
neutralità e Ernesto ne condivide la scelta svelando un profondo
disinteresse per le motivazioni ideali dell’interventismo e allineandosi alle
tesi fondamentali dell’internazionalismo proletario, come testimonia una
lettera dei primi mesi del 1915 indirizzata all’amico ed ex compagno di
liceo a Firenze, Onofrio Molea.
“È questione che siamo stati montati troppo e da discorsi e da ciò
che abbiamo letto. Io non mi sento punto patriota e mi sono
proposto di disertare piuttosto di andare alla guerra. Io mi domando
quale interesse possa avere, non un azionista di una banca qualsiasi,
ma il coltivatore della terra, l’operaio che veramente lavora tutto il
giorno per comprarsi di che mangiare, dall’ingrandimento dell’Italia,
dalla rivendicazione delle terre irredente. La polenta resterà per lui
sempre polenta né più nessuno alla sua morte penserà, caso mai, a
sostentare la sua famiglia. Mi pare impossibile che il popolo sia
ancora tanto ignorante da non rivoltarsi contro questo ordine
sociale che gli impone di andarsi a far martoriare, ad abbruttirsi in
una guerra, lasciando la pace domestica, il paese, quel po’ di cose
alle quali si è affezionato, per fare l’interesse magari di una banca di
Roma”
3
.
3
E. Rossi, Guerra e dopoguerra. Lettere 1915-1930, a cura di G. Armani, La Nuova Italia,
Firenze 1978, p. 3.
12
Nel frattempo l’Italia abbandona la neutralità per entrare in guerra a
fianco delle forze dell’Intesa.
Il 26 ottobre del 1915 gli vengono comunicati gli esiti degli esami di
riparazione. È riuscito ad ottenere la licenza.
Si iscrive all’università di Bologna in medicina. Ma la città non gli piace,
ha nostalgia della sua Firenze e gli studi non lo appassionano. Vive un
periodo di apatia, di assoluta incertezza sull’orientamento da dare alla
propria vita, di insicurezza sulle proprie capacità. Scrive a Onofrio Molea
l’11 febbraio 1916:
“Voglio anch’io muovermi per conoscermi ma sono in una tale
sonnolenza che ho bisogno di un brusco cambiamento per
svegliarmi, e solo quando sarò ben sveglio vedrò ciò che son buono
a fare. Ho bevuto tanta e tanta tiepida camomilla domestica! […]
Tante volte credo di essere una cosa, tante volte un'altra, benché
mai sappia se vorrei essere questa o quella”
4
.
E il brusco cambiamento lo trova nella decisione di partire come
volontario:
“Ho la convinzione netta di essere un vigliacco, di mancar di forza
per agire nel momento del pericolo, ma ho però il coraggio di voler
appunto provocare questo momento, per studiarmi, sorprendermi
nella mia paura”
5
.
4
Ivi, p. 9.
5
Ibidem.
13
Una decisione dettata principalmente da motivazioni personali quindi,
dall’esigenza di trovare una spinta verso l’autoaffermazione, ma non solo.
Dal carcere nel 1930 scriverà alla madre:
“Noi (che) nella guerra vedevamo una terribile necessità per la
difesa del nostro patrimonio ideale, (che) volevamo abbattere
l’assolutismo e il militarismo degli imperi centrali per creare le
condizioni ad una vita più umana, in cui ciascun individuo potesse
più liberamente essere quello che si sentiva di essere”
6
.
Anche una giustificazione ideologica quindi.
Nonostante la ferma convinzione di aver operato la scelta giusta
decidendo di partire, la ripugnanza che provava al solo pensiero di dover
uccidere altri uomini, lo spinge inizialmente a chiedere di essere ammesso
in sanità. Una scelta subito riconsiderata. Come scriverà in una lettera alla
moglie nove anni dopo:
“Come portaferiti, avrei preso il posto di un altro che sarebbe
andato a combattere: tanto valeva, allora, prender la mia
responsabilità direttamente”
7
.
Viene arruolato in fanteria l’11 marzo 1916 e inizia l’apprendistato come
soldato semplice in un accampamento vicino a Benevento. È questo un
periodo fondamentale per la formazione della sua personalità perché è qui
che si ritrova per la prima volta nella sua vita a vivere a stretto contatto
con gli “ultimi”, con quelle masse formate per la maggior parte di
6
E. Rossi, “Nove anni sono molti”. Lettere dal carcere 1930-39, a cura di M. Franzinelli,
Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 17.
7
E. Rossi, Elogio della galera. Lettere 1930-43, a cura di M. Magini, Laterza, Bari 1968, p.
280.
14
contadini analfabeti
8
che gli faranno maturare la consapevolezza di essere
un privilegiato. Ed è proprio la maturazione di questa consapevolezza a
segnare un punto di svolta cruciale per comprenderne future scelte e
posizioni.
“Pensa sempre – scriverà alla moglie durante il periodo di
carcerazione – che noi siamo dei privilegiati, perché non abbiamo
avuto la preoccupazione del pane e abbiamo potuto educare il
nostro spirito, mentre la maggioranza dei nostri simili era costretta a
lavori che mortificavano o annullavano la loro stessa vita spirituale.
[…] E per non sentire la vergogna di questo privilegio in confronto
alle masse occorre che ci meritiamo la nostra posizione, occorre che
ognuno di noi affermi in ogni momento la sua qualità d’intellettuale,
ricercando disinteressatamente la verità e proclamandola qualunque
essa sia”
9
.
Il 28 ottobre 1916 arriva sulla linea del Basso Isonzo come aspirante
ufficiale. Nonostante alcune momentanee parentesi “patriottiche”
10
, riuscì
a non perdere la sua autonomia di giudizio e, anzi, il suo antimilitarismo
uscì radicalizzato dall’esperienza della guerra.
8
“Ho incominciato a dar qualche lezione agli analfabeti, ma senza libri, quaderni e
banchi son dolori. Tutti hanno una gran voglia di imparare e ce n’è qualcuno che
farebbe anche presto […] Ma c’è poco tempo e pochi mezzi. In tutti i modi ho
scarabocchiato le pareti con tutte le lettere dell’alfabeto e farò quel che potrò.” E. Rossi,
Guerra e dopoguerra cit., p. 42.
9
Ivi, pp. 211-212.
10
Come quando si compiace dello “sforzo di una nazione che si rivela più grande di
quella che era da immaginarsi, nella vera volontà di vincere”, o come quando afferma:
“Quando ero borghese capivo la necessità della guerra per l’Italia, se voleva esistere
come grande nazione, ma non mi sentivo parte di essa e me ne fregavo, ora invece
capisco la necessità che l’Italia esista e non mi posso più mostrare indifferente”. E.
Rossi, Guerra e dopoguerra cit., p. 88 e p. 50.
15
Nell’aprile del 1917, in una lettera indirizzata a Giuseppina Molea
11
, sua
madrina di guerra, descrive la guerra come una pazzia collettiva:
“Noi stavamo a vedere come uno spettacolo rallegrandoci dei tiri
ben aggiustati, senza che nessuno sentisse compassione per quei
poveri austriaci che dovevan subire quel po’ po’ di inferno. Certo
che la guerra è una forma di pazzia collettiva in cui nessuno ha vera
coscienza di quello che fa. Si va di pattuglia con la stessa emozione
con la quale si va a caccia […] Non è un uomo come noi, che ha le
stesse nostre passioni e commozioni, che è atteso con ansia dalla
famiglia che sarà messa in lutto dalla sua perdita che ognuno di noi
insidia […] Si ha la vaga concezione di andar contro ad una forza,
una forza a noi nemica che cerchiamo distruggere acciocché non ci
distrugga.”
12
A indignarlo maggiormente sono il disinteresse per il sacrificio anche
inutile dei soldati, la disorganizzazione dei comandi, la precarietà delle
attrezzature e la condizione dei soldati semplici.
“Non si può avere una idea di questa vita senza averla passata, ed
uno che volesse levare qualcosa di brutto dalla società dovrebbe
cominciare a spazzare nelle porcherie del militarismo. Non ho mai
visto delle bestie trattate così male”
13
.
Dimostra spesso insofferenza per l’inettitudine degli ufficiali, e il giudizio
su quasi tutti gli appartenenti alla categoria con cui entra in contatto è
lapidario: “la maggioranza non ha dell’ufficiale che il tono autoritario
11
Zia di Onofrio Molea.
12
E. Rossi, Guerra e dopoguerra cit., p. 86.
13
Ivi, p. 17.