Oggi, alla teoria che solo le grandi imprese possano
coprire un ruolo fondamentale nell’economia, si è sostituita quella
per la quale tanto le piccole quanto le grandi attività possono
risultare economicamente importanti, seppure con diversi ruoli. Per
di più, la nascita di nuove imprese agisce come creatrice di
occupazione anche nei periodi di crisi. Molti disoccupati tentano,
infatti, di avviare nuove iniziative autonome come via di uscita da
una situazione di difficoltà occupazionale. In proposito si diffonde
sempre più la consapevolezza delle ridotte possibilità legate alle
attese, spesso contrassegnate da fatalistica rassegnazione, del
cosiddetto “posto fisso”. Di conseguenza, la nuova via al lavoro è
soprattutto è rappresentata da attività autonome da svolgere con
creatività. Ciò contribuirà a contrastare la disoccupazione, in quanto
non solo il mercato offre al momento opportunità di nuovi lavori,
ma vi sono le condizioni perché anche negli anni a venire nuove
attività si possano sviluppare.
Inoltre nella fase iniziale, durante la quale i rischi sono
sicuramente superiori ai potenziali ricavi di un’attività ancora
incerta, le imprese nascono con strutture estremamente ridotte. Gli
imprenditori sono spesso professionisti che agiscono sotto la forma
giuridica di impresa. Ma nonostante questo, il self-employment non
è più visto come in passato come un’attività residuale, bensì come
un’alternativa reale al lavoro dipendente cui prima o poi la persona
si può dedicare avendone adeguate soddisfazioni.
Il terreno della piccola e media impresa e della
imprenditorialità diffusa, tra l’altro, è meritevole di attenzione in
quanto particolarmente fertile per la creazione d’impresa. Infatti,
coloro che gestiscono imprese di dimensioni minori, hanno, per
forza di cose, familiarità con tutte le funzioni aziendali, sono
conseguentemente in continuo contatto diretto con tutti gli aspetti
del business, e sanno esattamente cosa sta accadendo in ogni area
della gestione aziendale.
Per questa ragione, essi si trovano in un’ottima posizione
per individuare direttamente nuove idee imprenditoriali da
valorizzare con una nuova impresa o con una differenziazione del
loro business. Nei prossimi anni il dedicarsi ad attività di carattere
autonomo diverrà quindi l’obiettivo di tutti coloro che espulsi dalle
aziende non potranno far leva su prospettive di reinserimento come
dipendenti. Tuttavia tale processo non sarà immediato né garantito,
e per facilitarlo sarà indispensabile focalizzare l’interesse sulle
capacità personali e sulle vocazioni dei singoli aspiranti
imprenditori. Per tale motivo acquisteranno una sempre maggiore
importanza tutte le attività di autorientamento e di servizio alla
nuova imprenditorialità. Lo scopo dei servizi a favore della piccola
e media impresa sarà dunque quello di consentirle di posizionarsi
in breve tempo nell’area centrale, quella del successo.
Oltre al tramontare del mito del posto fisso, bisogna
sottolineare che l’economia sta sempre più passando da un sistema
fortemente incentrato sull’attività industriale alla cosiddetta
economia postindustriale, cioè tendenzialmente basata su un
sistema di servizi, aiutando l’imprenditorialità autonoma e diffusa a
svilupparsi.
Il sistema di servizi ha avuto negli ultimi decenni, tanto
negli Stati Uniti quanto nell’insieme di paesi industrializzati, una
fortissima diffusione. È sicuramente quello che si adatta di più ad
attività imprenditoriali diffuse, alla creazione di piccole e medie
imprese o al self-employment. Inoltre solo in questo sistema è
possibile avviare imprese without capital cioè senza capitale o con
capitale minimo. Ciò grazie alla maggiore importanza che si ripone,
per il funzionamento dell’impresa stessa, nel cervello delle persone,
quindi nella loro capacità di tradurre conoscenze in validi prodotti e
servizi, più che nei beni strumentali. Il sistema dei servizi si è
inoltre prestato negli ultimi anni a una forte innovazione e
differenziazione.
CAPITOLO I:
L’IMPRESA
1.1 IL CONCETTO DI
IMPRENDITORIALITA’ PER L’IMPRESA
ITALIANA
Il termine “imprenditorialità”, per l’ampiezza dei
possibili significati che possono essergli attribuiti e per valenza
ideologica che in parte lo caratterizza, è esposto al rischio
dell’obsolescenza. Può conoscere mode improvvise o cadute, le cui
scansioni saranno certo facili da ricordare per chiunque abbia
memoria delle vicende italiane degli ultimi vent’anni. Senza
volerne fornire un’esposizione dettagliata ed esaustiva, possiamo
tracciarne i punti di snodo principali.
Sino agli anni Settanta l’impresa minore era considerata
come una fase transitoria nel ciclo di vita dell’impresa o come una
realtà marginale all’interno di sistemi industriali dominati da
processi di concentrazione, che investivano sia la produzione sia le
funzioni commerciali e terziarie.
A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, con la
grande crescita del numero e del peso delle piccole e medie
imprese, il tema dell’imprenditorialità ha assunto un ruolo centrale
nel dibattito economico italiano. La diffusione dei processi di
produzione basati sulla tecnologia dell’automazione flessibile
hanno offerto alle piccole imprese nuove prospettive. I grandi
processi di decentramento produttivo e di esternalizzazione di
alcune funzioni terziarie da parte delle grandi imprese
manifatturiere hanno portato a una enorme proliferazione di piccole
e medie imprese, che hanno costituito un modello di sviluppo
economico tipico della realtà italiana. Il carattere dicotomico della
struttura industriale italiana, costituita da una stragrande
maggioranza di microimprese e da un ristretto nucleo di medie e
grandi imprese, è diventato oggetto di analisi da parte di grandi
economisti internazionali, fino a portarlo come modello di sviluppo
compatibile e auspicabile anche per altre realtà. Era il periodo del
piccolo è bello quando al significato economico del proliferare di
microimprese si aggiungeva anche una valenza politica in termini di
libertà individuali e sociali, attraverso l’interpretazione di
imprenditorialità come elemento di creatività nell’agire economico.
Basti pensare agli studi di Sabel e Priore e al grande interesse
riscosso dal fenomeno dei “distretti industriali” e dal modello della
specializzazione flessibile.
Nell’ambito di un sistema produttivo caratterizzato dal
decentramento delle varie fasi del processo produttivo, le piccole
imprese hanno saputo creare un circolo virtuoso che dalla scelta di
posizionamento sul mercato e di specializzazione nella produzione
di alcune fasi dei processi di lavorazione di più beni porta alla
capacità di adattamento e di relazione con il cliente, alle capacità
innovative e organizzative interne, fino alla flessibilità e al
raggiungimento di economie di scopo. Si riconoscevano cioè
percorsi di sviluppo economico alternativi o complementari a quello
dominante incentrato sulla grande impresa e sulla produzione di
massa di articoli standardizzati, fino a individuare la manifestazione
di nuove regole di organizzazione del lavoro e di una radicale
trasformazione del nesso tra dimensione e profittabilità.
Durante tutti gli anni Ottanta, poi, anche il processo di
terziarizzazione dell’economia è passato attraverso la nascita e
proliferazione di imprese minori, più che attraverso la costituzione
di grandi gruppi terziari, confermando la tesi del ruolo insostituibile
giocato dall’imprenditore diffusa nei processi di trasformazione e
sviluppo economico.
Ma a partire dagli anni Novanta la crisi economica ha
colpito anche le piccole e medie imprese, che hanno visto ridursi
notevolmente il proprio vantaggio competitivo rispetto alle imprese
di grandi dimensioni. Parallelamente nello stesso periodo entrano in
discussione alcune aree che erano state definite distretti industriali e
indicate come modello di sviluppo economico alternativo alla
grande dimensione.
Si è così tornati a mettere in discussione la rilevanza del
fenomeno della piccola e media impresa, attribuendone la genesi
ancora una volta alle politiche e alle scelte della grande impresa: la
crescita numerica delle piccole imprese sarebbe da vedersi come il
risultato “anticiclico” di assorbimento della manodopera, espulsa
dalla grande impresa, in fasi del ciclo produttivo a bassa efficienza,
concesso o imposto dalle politiche restrittive delle grandi imprese.
In questa tendenza giocherebbe poi un ruolo decisivo la possibilità
per la piccola e media impresa di accedere a risorse lavorative al di
fuori della contrattazione sindacale e quindi a un più basso livello di
retribuzione e con una più elevata flessibilità del lavoro.
Da più parti si è così sollevato il dubbio che
l’imprenditorialità diffusa possa prosperare solo in condizioni
congiunturali favorevoli, ma questa è una tesi sicuramente
fuorviante.
La congiuntura economica sembra giocare un ruolo
rilevante nel determinare la capacità di sopravvivenza delle nuove
imprese, ma sono invece i mutamenti strutturali del sistema
produttivo a regolare e determinare i flussi di natalità
imprenditoriale. Abbiamo già accennato al processo di
terziarizzazione dell’economia, all’affermarsi dei modelli di
specializzazione flessibile, alla nascita e al declino dei distretti
industriali, alle dinamiche strutturali indotte dall’innovazione
tecnologica, alla sempre maggiore diffusione dei rapporti di
subfornitura e di “contoterzismo”: tutti fenomeni che hanno inciso
profondamente sulle dinamiche di demografia imprenditoriale.
In ogni caso la vitalità, la flessibilità e le potenzialità di
sviluppo delle nuove imprese sono comunque generalmente
interpretate come fattori positivi del modello economico italiano.
Gli effetti positivi di una forte natalità imprenditoriale sono
riscontrabili su diversi livelli: sull’occupazione, per contrastare il
calo endemico delle grandi imprese; sull’innovazione, per
permettere in alcuni casi l’introduzione, ma più in generale per
facilitarne la diffusione; sulla concorrenza, per contrastarne la
creazione di posizioni dominanti o di vero e proprio monopolio;
sull’allocazione delle risorse, attraverso i processi di decentramento
produttivo e di esternalizzazione di numerose funzioni aziendali.
Tuttavia, non sempre una forte natalità è sinonimo di
crescita economica.
La rilevanza quantitativa dei flussi di natalità
imprenditoriale è un fatto sotto gli occhi di tutti. Ogni anno si
calcolano a livello nazionale circa 300.000 nuove iscrizioni ai
Registri Ditte delle Camere di Commercio: non tutte corrispondono
a vere e proprie nuove imprese ( cambi di forma giuridica, di
ragione sociale, trasferimenti di sede da una provincia all’altra
eccetera): lo sono circa il 60-70%. In alcune provincie d’Italia si
manifesta un curioso fenomeno: nascono più imprese che bambini.
Ma questa è solo una faccia della medaglia. Correlata alla
elevatissima natalità imprenditoriale, esiste un altrettanto elevata
mortalità di imprese, che in alcuni anni supera il numero delle
nuove. Esiste cioè una forte turbolenza che caratterizza la
“natimortalità” imprenditoriale, che si manifesta in un elevatissimo
turnover di imprese in entrata e in uscita. L’aspetto più
preoccupante, poi, è che nei flussi in uscita si manifesta
un’elevatissima percentuale di mortalità precoce.
La dimensione dei flussi demografici delle imprese non
può quindi essere letta solo in termini ottimistici per la rilevanza
delle nuove imprese, ma deve essere valutata anche con elementi di
preoccupazione per l’enorme flusso di imprese che escono dal
mercato, anche solo dopo pochissimi anni di vita. Si pensi a quante
risorse monetarie, finanziarie, materiali e umane (la maggior parte
di quelli che falliscono raramente poi ritentano) vengono bruciate in
questi tentativi di avviare un’attività imprenditoriale.
Non siamo di fronte solo a fenomeni di dinamismo e di
vitalità imprenitoriale, ma dobbiamo considerare anche i problemi
che incontrano le imprese che muoiono prima di raggiungere la fase
di consolidamento e di crescita e dei vincoli che affliggono quelle
che, pur sopravvivendo, rimangono in un’area di marginalità e
sottosviluppo. Quei casi di imprenditorialità a costo zero, cioè senza
uno specifico compenso per il fattore imprenditoriale, se da un lato
possono risolvere i problemi di autoimpiego dell’imprenditore e, al
limite, di un ristretto numero di famigliari, dall’altro non possono
fornire vitalità e innovatività al sistema delle piccole e medie
imprese.
Il problema è di ridurre i margini di improvvisazione a
favore di professionalità e competenza imprenditoriale. La nascita
di una nuova impresa nella maggioranza dei casi avviene senza che
l’imprenditore abbia preventivamente valutato la bontà della
propria idea imprenditoriale, in termini di probabilità di
sopravvivenza e di potenzialità di sviluppo. Molto spesso
prevalgono il desiderio di indipendenza, la voglia di mettersi in
proprio, l’innamoramento e la fiducia cieca nella propria idea
imprenditoriale.
D’altro canto è del tutto tipico del nostro spirito nazionale
la tendenza a non progettare e programmare, ma affrontare i
problemi nel momento in cui si presentano, adattando l’approccio
alla soluzione dei problemi come processo di approssimazioni
successive. Secondo questa logica le imprese nascono rimandando
al momento del contatto con il mercato la verifica della solidità
dell’idea imprenditoriale : quella che dovrebbe essere una verifica
preventiva diventa selezione sul campo. La fase di avvio
dell’attività imprenditoriale risulta essere una sorta di prenatalità,
l’incubazione dell’idea è sostituita da una gestazione all’aperto
dove opera una fortissima selezione naturale.
Tali dinamiche possono essere interpretate attraverso la
teoria della soglia “S”, secondo la quale esiste una soglia
oltrepassata la quale la nuova impresa viene a far parte del nucleo
stabile di imprese del comparto, ma al di sotto della quale è invece
soggetta a una fortissima selezione e quindi a un forte turnover in
entrata e in uscita. Si tratterebbe di una soglia che delimita una sorta
di area di prenatalità dell’impresa, dove si entra e si esce dal
mercato a costo zero. Tale soglia può essere intesa in termini di
dimensione aziendale, nel qual caso riconduce al concetto di
minimum efficient size, sebbene come abbiamo visto non operi
come barriera all’entrata (le imprese nascono lo stesso, anche se
sono di dimensione inferiore a quella minima richiesta) ma
piuttosto come spartiacque tra il nucleo stabile di imprese e l’area di
marginalità e di bassa probabilità di sopravvivenza.
Una prospettiva di indagine più feconda è però
considerare questa soglia in termini di curva di apprendimento, in
relazione al ciclo di vita dell’impresa e dell’imprenditore: possiamo
supporre che esista un livello minimo di esperienza accumulata e di
capacità di apprendimento su come produrre e su come “stare sul
mercato”, al di sotto del quale l’attività è destinata all’insuccesso.
La possibilità e la capacità di raggiungere questa soglia
nell’esperienza accumulata possiamo pensare che dipendano
essenzialmente dal contesto ambientale, dal profilo
dell’imprenditore, dalle sue precedenti esperienze lavorative e dalle
caratteristiche tecnologiche e strutturali del comparto, ma
sicuramente la formazione gioca un ruolo fondamentale nel
permettere all’imprenditore di raggiungere tale soglia.
Alla luce di queste considerazioni vanno riconsiderate
l’efficacia e l’opportunità delle tradizionali politiche per incentivare
la creazione di nuove imprese. Soprattutto in un momento come
questo, ancor prima del numero di nuove imprese sempre più
strategico risulta l’obiettivo della qualità e della probabilità di
sopravvivenza e di sviluppo delle nuove iniziative imprenditoriali.
Ciò significa riconsiderare le tradizionali politiche di
incentivazione alla nuova imprenditorialità, occupandosi delle
condizioni e dei processi di entrata nei diversi comparti produttivi e
soprattutto nelle diverse aree territoriali, offrendo un sistema di
servizi che siano fra di loro integrati e il più possibile specializzati
sui problemi dello specifico segmento o popolazione di imprese.
È indispensabile accompagnare le imprese che nascono
nello sforzo necessario per affrontare le nuove sfide che le
attendono. Lo scopo della formazione è non tanto e non solo di far
nascere più imprese, ma di farle nascere con una maggiore
possibilità di sopravvivenza e di sviluppo. È quindi necessario porsi
un duplice obiettivo: da un lato far sì che il neoimprenditore sia
preparato ai pericoli e alle sfide dei primi anni critici, in cui è in
gioco la sopravvivenza della nuova impresa, avendoli già affrontati
a livello di calcolo economico e di valutazione di businnes-plan
prima di partire, e non sia costretto, invece, a fare tali verifiche sulla
propria pelle al momento del contatto con il mercato. Dall’altro lato
far sì che chi è destinato a morire precocemente si renda conto dei
fattori economici che sconsigliano la nascita dell’impresa e quindi
non tenti nemmeno di partire oppure modifichi la propria idea
imprenditoriale.