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CAPITOLO 1
IL FIGLICIDIO MITICO
… poi Abramo stese la mano e impugnò il coltello per scannare il figliolo. Ma
l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “ Abramo, Abramo!”.
Rispose: “ Eccomi!”. Riprese: “ Non stendere la mano contro il ragazzo e non
fargli alcun male! Ora so che rispetti Dio e non mi hai risparmiato il tuo
figliolo, l’unico tuo!”. Allora Abramo alzò gli occhi e guardò; ed ecco: un
ariete ardente, ghermito dal fuoco, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e l’offrì in olocausto al posto del suo figliolo.
Genesi 22, 10-13)
FIGLI: AHI, ahimè!
CORO: Senti, senti il grido dei figli?
Ahi, o sventurata, infelice donna!
1°FIGLIO: Ahimè, che fare? Come sfuggire alle mani della madre?
2°FIGLIO: Non so, o fratello carissimo, siamo perduti.
CORO: Devo entrare in casa? Mi par bene stornare la strage ai figli.
1°FIGLIO: Si, per gli dei, soccorreteci; è necessario.
2°FIGLIO: Siamo ormai vicini al cappio di questa spada.
( Euripide, Medea, 1271 – 1278)
Sono, questi, due estratti indicativi dei miti più noti nella cultura dell’uomo
occidentale: entrambi propongono rappresentazioni di genitori che uccidono o
sono pronti a uccidere i loro figli.
Il primo esempio, tratto dal testo biblico, propone un modello di padre pronto a
sacrificare il proprio figlio unigenito e amatissimo come prova di massima
devozione religiosa; l’altro, mette in scena il modello di una madre che compie
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l’assassinio brutale dei suoi figli per soddisfare una vendetta nei confronti del
marito. Secondo lo psicoanalista argentino Rascovsky, autore del più famoso
testo sul figlicidio, “ è probabile che attraverso il mito possa spiegarsi lo
sviluppo filogenetico ed ontogenetico dei popoli e dell’individuo
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”.
I casi di uccisione dei propri figli da parte di un genitore sono ampiamente
attestati. I due casi sopra citati, simili ma allo stesso tempo divergenti, mettono
in scena due genitori disposti ad uccidere il loro figlio. Tuttavia nel primo caso
l’uccisione del figlio appare come un sacrificio sofferto da parte del padre;
mentre nel secondo caso si assiste al compimento dell’atto sanguinario di una
madre in una cornice che non ha nulla di rituale, ma solo un modello che
evidenzia la barbarie di tale atto.
1.1 “L’altra madre”: madri assassine nella mitologia
Nel mondo greco antico, alla donna, relegata ai margini dello spazio politico,
le era precluso di praticare personalmente dei sacrifici e di maneggiare il
coltello sacrificale. Questa precauzione testimonierebbe una certa “angoscia”
nei confronti del mondo femminile e la necessità di stabilire il ruolo centrale
maschile.
Pertanto, la donna che si macchia personalmente del sangue della propria
prole, rifiuta la funzione cui la società la destina – quella di allevare e generare
i figli – e attacca la struttura fondamentale della società : la famiglia. Per
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RASCOVSKY A., Il Figlicidio, tr. Ital. M. B. Franceschelli, Roma, Astrolabio, 1974
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questo, nel mito, la madre assassina o è impazzita, o è una straniera, come
Medea che è straniera, barbara, orientale, oltre che donna. Il suo è il caso più
significativo di una donna che non è impazzita o inconsapevole, anzi è
totalmente lucida e descritta come una donna con particolare sapienza. La sua
diversità consiste nell’essere la “ donna – maga”, guaritrice e avvelenatrice,
che proviene da un paese agli estremi confini del mondo.
È Euripide che nel V secolo sceglie di rappresentare Medea come la donna che
uccide i propri figli per vendicarsi del marito Giasone che la abbandona per
sposare una principessa greca. Medea è figlia di Eete, re della Colchide, nipote
della maga Circe, per questo dotata di un sapere pericoloso, la pharmakeia, un
sapere magico di farmaci che può guarire o uccidere. Quando Gisone arriva in
Colchide alla ricerca del vello d’oro, Medea se ne innamora perdutamente, e
pur di aiutarlo nel suo scopo, uccide il fratello spargendone i resti in mare dopo
essersi imbarcata con il suo sposo Giasone. Il padre di Medea si trovò costretto
a recuperare i resti del figlio e non riuscì a contrastare la spedizione. Dopo
dieci anni, il re di Corinto volle dare sua figlia in sposa a Giasone, con la
possibilità di successione al trono. Giasone accetta e abbandona sua moglie
Medea, che medita vendetta. Manda in dono un mantello alla giovane sposa, la
quale non sapendo che fosse pieno di veleno, lo indossa per poi morire tra
dolori strazianti; morirà anche il padre Creonte che, corso in aiuto, tocca il
mantello e muore. Secondo Euripide, Medea, per assicurarsi che Giasone non
abbia discendenza, uccide i suoi figli avuti con lui. Tale dolore porta Giasone
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al suicidio. L’ omicidio di Medea è volontario e ampiamente premeditato,
nonostante era cosciente che la sua opera era la più crudele, ma non sopportava
d’essere derisa e umiliata e per questo dopo l’omicidio lascerà Corinto.
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Medea è l’immagine dell’alterità per eccellenza, veicolo ideale per definire
l’identità del sé. A Medea sono attribuiti in modo mirato, regole e costumi
opposti a quelli che definivano il comportamento greco. È una madre
generatrice ma che può usare il proprio amore come strumento di potere e
dominio. Medea sembra voler delineare quel quadro nel quale il genitore di
sesso femminile, posto in situazioni di stress con il partner, utilizza il proprio
figlio per scaricare la propria frustrazione e compie l’omicidio come rivalsa sul
coniuge.
In moltissimi altri esempi mitici, dei genitori - e specialmente delle madri –
uccidono i figli per follia. La follia per eccellenza è quella di Dioniso, nato da
una relazione tra Zeus e Semele, figlia del re di Tebe. Zeus lo nascose nella sua
coscia per farlo sfuggire alla gelosia di Era e alla sua nascita lo fece allevare
dalla zia materna e dalle ninfe della valle di Nisa. Divenuto adulto, fu
riconosciuto da Era, che lo volle punire facendolo divenire pazzo. Il suo
“furore” fu però inteso come uno stato di possessione divina. Cosi diffuse il
suo “ culto delle menadi”, le invasate, che svolgevano cerimonie sui monti
cercando di unirsi al dio divorando carne cruda di animali dilaniati,in preda al
“ morbo della follia”. Giunto a Tebe, suo cugino Penteo, figlio di Agave,
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EURIPIDES, Medea, tr. Ital. Raffaele Cantarella, Milano, A. Mondadori, 1990
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sorella di Semele, ostacolò il culto dionisaco, non riconoscendone la natura
divina. Il dio, per vendetta, usò Agave, con le sue sorelle, Ino e Semele, per
uccidere il sovrano. Dioniso convinse Penteo a spiare la madre e le zie sul
monte, nella celebrazione del suo rito. Penteo, nascosto dietro un pino, fu
scoperto da sua madre Agave, che in preda alla follia dionisiaca, scambiò il
figlio per un cinghiale e ne dilaniò il corpo. Volle esibire la sua testa come un
trofeo, ma al suo ritorno in città, Agave, recuperò la lucidità e si accorse del
terribile gesto.
Qui il figlicidio si compie nella logica di uno stato alterato e la pena è
l’obbligo d’esilio per riprendere coscienza.
In moltissimi casi, le donne, nel mito, uccidono i loro figli in stati di trance, o
per effetto della mania dionisiaca scambiando inconsapevolmente i propri figli
per animali, o per errore, gelosia o vendetta.
1.2: Il figlicidio paterno nel mito.
Di frequente nel mito si incontrano casi di figlie punite dal loro padre. La
punizione può essere costituita dall’espulsione e allontanamento della “ figlia
impura” colpevole di aver avuto rapporti illeciti extra-matrimoniali
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. Tuttavia
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Il mito più famoso è quello di Danae, figlia del re d’Ardo Acrisio e di Euridice. Acrisio era stato informato da
un oracolo che sua figlia avrebbe generato un erede che l’avrebbe ucciso. Per timore di ciò, l’uomo fece
costruire una stanza di bronzo sotterranea, dove teneva rinchiusa Danae; tuttavia secondo alcuni, la fanciulla
fu violata dallo zio Preto, secondo altri dallo stesso Zeus, che penetrò nella stanza trasformandosi in una
pioggia d’oro. Quando Acrisio venne a sapere che dalla figlia era nato Perseo, non volle crederlo figlio di Zeus;
quindi rinchiuse la figlia ed il neonato in un’ arca e la gettò in mare. Zeus, tuttavia, fece giungere l’arca a
Serifo, dove i due furono tratti in salvo da Ditti, fratello del tiranno Polidette.
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il principale motivo che “costringe” il padre a rinunciare ai propri figli è quello
del bene pubblico superiore.
Eracle, il più eccezionale degli eroi greci, impazzito per la gelosia di Era, getta
nel fuoco i suoi stessi figli. Eracle è un melanconico: i melanconici per
Aristotele devono la loro natura, il loro stato al fatto di avere la “bile nera”,
sono degli “eccessivi”, uomini di genio nel bene come nel male. Il figlicidio di
Eracle è dovuto alla natura eccezionale dell’eroe, che lo porta a realizzare gesta
straordinarie nel bene e nel male; il suo gesto è perciò inevitabile poiché deriva
dalla natura stessa dell’assassino ed è un caso eccezionale giacché non ha
corrispondenza in nessun personaggio mitico.
Molti dei padri uccidono per rituale: evitare calamità, gratificare gli dei,
ottenere da essi qualche beneficio. Tali padri sacrificatori agiscono per la
necessità di un bene pubblico superiore o per imposizione divina.
Il caso di Ifigenia, sacrificata dal padre Agamennone per assicurare una
partenza favorevole alla flotta greca per la guerra di Troia, è certamente il caso
più celebre.
Nel quadro religioso sacrificale, si ricorda il complesso rituale dell’ arkteia,
che prevedeva la reclusione di giovanissime ateniesi nel tempio di Artemide.
Qui le fanciulle comparivano vestite da “orse” ( arktos in greco) durante una
festa. Tale rituale si fonda sul fatto che un’ epidemia colpì la città di Brauron e
l’oracolo ordinò di istituire tale rito. Un uomo offrì sua figlia, ma la nascose
nel tempio di Artemide e sacrificò al suo posto una capra vestita da ragazza.