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Capitolo 1
Se puoi sognarlo puoi farlo: Walt Disney, l’uomo dei sogni
1.1 Introduzione
L’animazione nasce con Walt Disney così come la letteratura nasce con Omero. Con
Walt Disney il cinema d’animazione ha smesso di essere la spalla dei film dal vero.
È negli anni Trenta che si fa coincidere il periodo aureo della produzione disneyana,
sebbene Walt Disney avesse iniziato a occuparsi di animazione già a partire dagli
anni Venti con la Laugh-O-Gram e con le Alice Comedies; del 1928 è Steamboat
Willie, il primo cortometraggio della serie Mickey Mouse (conosciuto in Italia come
Topolino); The Skeleton Dance (1929) è il primo corto della serie Silly Symphonies,
produzione parallela a quella di Mickey Mouse, ma è negli anni Trenta che Roosvelt
sceglierà Three Little Pigs (1933) come metafora del New Deal (con il lupo che,
secondo Ejzenštein, rappresenta la disoccupazione)
1
; è negli anni Trenta che The Old
Mill (1937) segnerà l’introduzione della multiplane camera, che consente di dare
profondità all’immagine; Flowers and Threes (1932) sarà il primo cartone animato a
colori – e tutto questo senza dimenticare Snow White and the Seven Dwarfs (1937, in
Italia Biancaneve e i sette nani), primo lungometraggio animato della storia
2
.
1
È diventata celebre la frase di Roosvelt, pronunciata nel 1932 appena dopo l’elezione a presidente: “L’unica cosa di
cui dobbiamo avere paura è la paura”. Nel 1933 due dei tre porcellini cantavano: “Who’s afraid to the Big Bad Wolf?”.
Il testo del motivetto fu scritto da Frank Churchill e divenne l’inno del New Deal durante la Grande Depressione. Frank
Capra, in Accadde una notte (1934), lo omaggia facendolo canticchiare da Clarke Gable: “C’era una volta un lupo
mannaro che mangiò una pecorella.” Capra era amico di Walt Disney.
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Il primo lungometraggio animato, in realtà, è El Apóstol (1917) di Quirino Cristiani, cineasta argentino di origine
italiana. Ma questo film, così come tutti gli altri di Cristiani, a eccezione di El Mono relojero (1938), è andato perduto
in due incendi (1957 e 1961). The Adventures of Prince Achmed (1926) di Lotte Reiniger è il secondo lungometraggio
animato, realizzato con le silhouettes. Sebbene avesse avuto successo di pubblico e di critica, la fama di questo film non
è paragonabile a quella di Biancaneve e i sette nani, che è stato tramandato da intere generazioni per il suo stampo più
hollywoodiano e per la maggiore semplicità di fruizione.
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A queste innovazioni tecniche si aggiungano gli altri meriti di Walt Disney: investire
nel cinema d’animazione; credere nella possibilità che un surrogato del cinema dal
vero potesse competere con quello hollywoodiano; scoprire i gusti popolari; dare al
proprio marchio un preciso significato: divertimento; creare Disneyland, parco dei
divertimenti per tutte le età. Le scommesse di Disney sono state vinte. I suoi progetti
avevano un tocco di follia unito a un indiscusso talento creativo.
Disney sapeva che il pubblico ama sognare a occhi aperti e che spesso questi sogni
devono avere un lieto fine, cosicché ha mostrato – soprattutto nei lungomentraggi –
una realtà idealizzata in cui predominano sentimenti come l’amore e l’amicizia (che
rappresentano il Bene), mentre il Male (odio, gelosia, vendetta) è destinato a
soccombere, prima o poi.
D’altronde la netta distinzione tra il Bene e il Male è una peculiarità della narrativa
popolare, come spiega Umberto Eco nel Superuomo di massa; al contrario, di fronte a
sfumature caratteriali e a caratterizzazioni psicologiche più complesse nonché a finali
aperti o problematici, ci troveremmo innanzi al cosiddetto romanzo impegnato.
Disney rientra di sicuro nella prima categoria, quella del romanzo popolare.
Eppure il cinema d’animazione americano degli anni Trenta non si riduce a Walt
Disney e ai suoi cartoni animati. Esiste infatti una produzione vastissima (Paul Terry,
Pat Sullivan, Walter Lantz ma soprattutto i fratelli Fleischer) che cerca di essere
un’alternativa al mondo zuccheroso e fiabesco di Walt Disney.
1.2 Gli anti-disneyani negli anni Trenta
I cartoni animati e i fumetti ( cartoon e comics) erano rivolti, alle origini, a un
pubblico attento essenzialmente al consumo, che badava poco alla qualità del
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prodotto. La loro caratteristica principale è l’iterazione
3
, ovvero la ripetizione
costante di situazioni e di azioni.
Ad esempio, nei cartoni animati di Popeye (conosciuto in Italia come Braccio di
Ferro), personaggio dei fratelli Fleischer, troveremo un conflitto tra Braccio di Ferro
e il suo rivale Bruto (fisicamente molto simile a Pietro Gambadilegno, storico rivale
di Topolino) che rapisce Olivia, fidanzata di Braccio di Ferro. A questo punto lo
spettatore è già consapevole che il deus ex machina sarà la scatoletta di spinaci
4
,
cosicché Braccio di Ferro potrà vendicarsi di Bruto e liberare Olivia. L’unica variante
è lo scenario ma lo schema conflitto-rapimento-spinaci -vendetta è stabile.
Nei cartoni animati di Topolino variano solo i personaggi ma il meccanismo è lo
stesso, con Bruto che sarà sostituito da Pietro Gambadilegno e Olivia da Minnie. Però
qui non ci sarà il deus ex machina, come in Braccio di Ferro, poiché Topolino non ha
poteri, non diventa invincibile grazie agli spinaci ma riesce a risolvere il conflitto
usando l’arguzia e la furbizia che gli sono propri.
Questo meccanismo lo si ritrova anche nei cartoon della serie Felix the Cat,
personaggio di Pat Sullivan. Anche qui troviamo l’antagonista (variabile, però, a
differenza dei cartoon disneyani e dei Fleischer, ove gli antagonisti sono sempre
Pietro Gambadilegno e Bruto) che va a turbare l’equilibrio iniziale, ripristinato dopo
varie vicissitudini dall’eroe.
Insomma, tutti gli episodi possono essere fruiti singolarmente. Nessuno è legato
all’altro. Non c’è la sequenzialità temporale
5
.
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Cfr. Barbieri 1992a. Il saggio di Barbieri si occupa della serialità e del meccanismo iterativo nei fumetti americani
della DC e della Marvel. Questo e tutti gli altri articoli di Barbieri a cui si farà riferimento sono in formato eBook,
scaricabili dal sito www.danielebarbieri.it.
4
Nei fumetti e nei film di Superman, e anche nella serie televisiva sulla sua giovinezza, Smallville, il deus ex machina è
la kriptonite. Ma in Apocalittici e integrati Umberto Eco fa notare, giustamente, che questo espediente per rendere
vulnerabile Superman è così abusato e prevedibile che ormai lo spettatore non si sorprende più di trovare la kriptonite
ovunque, anche nei luoghi più impensabili. Lo stesso dicasi per la scatoletta di spinaci per Braccio di Ferro, che però ha
una valenza positiva, a differenza della kriptonite.
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Trattasi di un meccanismo che ritroviamo in serial televisivi come La signora in giallo, Colombo o Poirot. La
sospensione del continuum temporale dà allo spettatore la possibilità di legarsi occasionalmente alla serie, di guardarla
di tanto in tanto. Talvolta nei serial televisivi si usa il meccanismo iterativo per evitare che una trama troppo complessa
scoraggi lo spettatore distratto. È il caso della prima stagione di Smallville: gli episodi prescindono l’uno dall’altro (ad
eccezione del pilot). Anche nei fumetti bonelliani ritroviamo il meccanismo iterativo: se le prime avventure di Tex, ad
esempio, presentano una sequenzialità temporale – ma perché funzionali alla genesi del personaggio – in seguito ogni
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Questa produzione – sia che si tratti di cartoon sia di comics – risponde alle attese
dello spettatore comune, già consapevole circa gli sviluppi narrativi, facilmente
prevedibili. Proprio perché il meccanismo è sempre lo stesso, lo spettatore o il lettore
si sentirà rassicurato e troverà conforto in questa ridondanza. Eco (1964) ritiene che
questo meccanismo richiami il desiderio infantile di ascoltare di nuovo la stessa
storia, anziché una nuova di cui non si conosce il finale.
È tipico dei generi popolari non deludere le attese dello spettatore. L’esempio più
classico è il romanzo giallo: il lettore sa che ci sarà un omicidio, che il detective
avvierà delle indagini e che troverà il colpevole. Nei romanzi di Agatha Christie
questo schema si ripete, così come nei film del tenente Colombo: qui però non è la
scoperta dell’assassino a generare il piacere della fruizione bensì la ricostruzione da
parte del detective, che in ogni puntata tempesta di domande proprio l’assassino,
come se fosse già consapevole della sua colpevolezza.
Tornando ai cartoon, un caso a parte, in tutta questa produzione pressoché simile per i
contenuti, è rappresentato dai fratelli Fleischer, i soli che abbiano cercato di
contrastare l’impero disneyano, realizzando anche un lungometraggio, I viaggi di
Gulliver (1939), che doveva essere una valida alternativa al successo di Biancaneve e
i sette nani ma che non raggiunse i risultati sperati, né sotto un profilo commerciale
né sotto quello artistico.
Ben diverso da Braccio di Ferro è un altro personaggio dei Fleischer: trattasi di Betty
Boop, ragazzina dalle labbra rosse e sensuali e dalla femminilità piuttosto marcata. Il
personaggio di Betty Boop è ciò che la Minnie disneyana non può essere: provocante
ma soprattutto umana. Negli anni Trenta, Betty Boop suscitò clamore per il suo
anticonformismo, essendo un personaggio con un sex appeal notevole. A Betty Boop
fu affiancato il clown Ko-Ko, già protagonista di una serie dei Fleischer.
Nei cartoon di Betty Boop manca il meccanismo iterativo: prova ne è il fatto che i
personaggi sembrano avere una vita autonoma e decidere essi stessi come muoversi.
albo è indipendente dall’altro (salvo che un’avventura sia ripartita in albi contigui). Però possono esserci dei riferimenti
ad albi precedenti, con richiami puntuali da parte degli sceneggiatori (ad es.: “vedi Tex num. tot.”).
9
Ciò accade, ad esempio, in un cartone con Betty Boop e Ko-Ko, Ha! Ha! Ha! (1934).
Non c’è alcuna gag che susciti l’ilarità dello spettatore. Se questi ride è solo perché
tutti i pesonaggi, così come il mondo a essi circostante – che non è solo quello
animato ma anche quello degli umani – scoppia in una risata isterica provocata dal
Laughing Gas (Gas della risata) che Betty Boop aveva aperto per curare il mal di
denti di Ko-Ko, reo di aver mangiato una barretta di cioccolata. Il desiderio di
autonomia dei personaggi è legato alla loro creazione in diretta da parte del
disegnatore: entrambi sbucano dall’inchiostro, ove poi ritornano alla conclusione del
film.
Nel panorama della produzione animata degli anni Trenta, i Fleischer sono tra i pochi
a mostrare una certa originalità; e si pongono altresì in netta antitesi con le coeve
serie disneyane, caratterizzate da intenti didascalici e da toni molto più mielosi.
Questo è dovuto a un pubblico diverso: se i film di Walt Disney sono pensati e
realizzati per un pubblico infantile – o, come direbbe Disney, per il bambino che è in
ognuno di noi – ma fruibili e apprezzabili anche da uno più maturo (e anzi è difficile
pensare che i bambini possano cogliere pienamente la comicità e i profondi intenti
moralistici di Disney senza il supporto di un adulto) i Fleischer sono gli
anticonformisti per eccellenza. Così Betty Boop diviene il simbolo di una femminilità
più adulta, più matura, più trasgressiva nonché più consapevole delle proprie capacità
di seduzione, mentre associare Disney all’infanzia diventa un meccanismo inconscio
ma al contempo errato senza un’approfondita conoscenza di tutta l’opera disneyana,
come vedremo in seguito.
Così ciò che contraddistingue i film dei Fleischer, rispetto alla coeva produzione in
serie, è la capacità di sorprendere gli spettatori e di riempire con una carica surreale
delle situazioni che altrimenti sarebbero vuote e prive di suspense o di interesse.
Il mondo fiabesco, idilliaco e idealizzato che Walt Disney rappresenta soprattutto
nella serie delle Silly Symphonies è del tutto sovvertito da Tex Avery, che si colloca
sempre sulla scia degli anti-disneyani, però con uno stile più aggressivo e ancora più
anticonformista dei Fleischer – ma soprattutto con gag che oramai non sono più
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adatte ai bambini. Il meta-cartoon inventato dai Fleischer raggiunge l’apoteosi
proprio con il cinema di Tex Avery. Anche nei suoi film, come in alcuni di quelli dei
Fleischer, i personaggi si ribellano al loro disegnatore e rivendicano di agire
autonomamente, quasi fossero delle personalità pre-esistenti alla creazione artistica.
Avery utilizza i personaggi di fiabe note – come ad esempio Cappuccetto Rosso, che
ritroviamo in due film, Little Red Hot Hiding Hood (1943) e Little Rural Hiding
Hood (1949). Qui l’antropomorfismo del lupo è funzionale al suo carattere: il lupo è
più uomo che animale, è allupato poiché cerca una femmina. C’è un’evidente
allusione sessuale e un’ambivalenza del termine “allupato” (maschio che cerca una
femmina, ma anche maschio diventato lupo) che pare difficile possa essere compresa
da un pubblico infantile. Le allusioni sessuali di questi due film sono esplicite come
non mai – e impensabili nei film disneyani. La stessa Cappuccetto Rosso è
rappresentata come una cantante sensuale dalle gambe belle e lisce, il trucco marcato
e le labbra rosse.
I contenuti della favola di Cappuccetto Rosso sono ben noti al pubblico di Avery. Il
lavoro del cartoonist – e quindi la sua bravura – risiede nell’aver saputo stravolgere i
canoni fiabeschi, privi di qualsiasi allusione sessuale. E anche l’ambientazione non è
più il bosco, dunque un luogo comune della fiaba, ma la città, i locali notturni. Ecco
perché i film di Tex Avery danno un’interpretazione diversa di una storia ben nota,
che ora si sposta in un contesto non solo differente ma che lo spettatore comune non
si aspetterebbe mai. Così l’imprevedibilità dell’ambientazione stupisce e carica già di
una verve comica il film, che diviene l’opposto di ciò che in realtà dovrebbe essere.
La lezione di Tex Avery ha portato altri cartoonist ad approfondire questi tratti
antidisneyani, tant’è vero che si può parlare di una scuola di Tex Avery,
comprendente artisti come Friz Freleng, Robert McKimpson e Chuck Jones.
Altra tendenza anticonformistica e in netta antitesi con la produzione disneyana è
rappresentata dai cartoni della serie Looney Tunes, con personaggi di grande successo
come Bugs Bunny, Daffy Duck, Titti e Silvestro, Willie E. Coyote eccetera.
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In questa produzione manca ogni intento didascalico o moralistico. I personaggi non
si distinguono nettamente in buoni e cattivi come accadeva nei film di Walt Disney. I
loro difetti sono estremizzati; le gag sono più violente e il pubblico a cui ci si rivolge
non è solo infantile. Il disegno è essenziale, cosicché è privato di quella dimensione
realistica che fornivano i particolari e la cura dei film disneyani.
Oramai il mondo idilliaco delle Silly Simphonies è tramontato e si è lasciato spazio a
personaggi che non hanno lo scopo di celebrare il mito americano, così come faceva
Topolino negli anni Trenta: essi sono disinteressati e alienati del tutto dal contesto
storico e sociale, il che pone questi film in una dimensione di atemporalità.
Se Bugs Bunny appare il corrispettivo di Topolino – ma è ben più dispettoso e
vendicativo – per la centralità occupata nella serie, gli altri personaggi non possono
mai essere definiti dei veri buoni: non lo è Daffy Duck, attaccato al denaro e spesso
geloso per la fortuna e l’intelligenza di Bugs Bunny; Silvestro insegue Titti così come
Willie E. Coyote insegue Road Runner (il nutrimento è l’obiettivo comune. Ma
trattasi di un rapporto conflittuale che ritroveremo anche nei Tom e Jerry di Hanna e
Barbera); Yosemite Sam è un pistolero violento e aggressivo.
La serie Looney Tunes, trasmessa dal 1930 al 1969, è stata seguita da quella delle
Merry Melodies, che richiama le Silly Simphonies e che voleva essere una risposta a
questa produzione disneyana, così come la Looney Tunes era una risposta a Mickey
Mouse
6
.
Per concludere questa rassegna sulla produzione degli anni Trenta e Quaranta, non
vanno trascurati cartoonist come Paul Terry e Walter Lantz. Quest’ultimo è noto
soprattutto per la serie di Oswald the Lucky Rabbit, il cui personaggio fu inventato da
Walt Disney, che però non era detentore del marchio commerciale, gestito dalla
Universal. Dopo la perdita di Oswald, Disney creò Topolino, personaggio simile che,
inaspettatamente, bissò il successo di Oswald.
6
Una delle Merry Melodies censurate, Hittin' the Trail for Hallelujah Land (1931), è una parodia disneyana. Il
protagonista ricorda Topolino (è nero e ha i suoi stessi pantaloncini). La sola diversità è rappresentata dal muso, più da
suino che da topo. È ambientato in un battello, il che ricorda Steamboat Willie; e ci sono perfino degli scheletri che
escono dalle tombe e iniziano a ballare (il richiamo a The Skeleton Dance è fin troppo evidente).
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Per quanto riguarda Paul Terry, invece, Rondolino ritiene che la sua produzione,
ovvero la serie dei Terrytoons, vada considerata in blocco, come quantità e non come
qualità. Questo significa che non ci sono delle finalità artistiche in questi cartoni ma
solo finalità consumistiche. Si tratta, insomma, di una produzione in massa che bada
non tanto ai contenuti quanto alla fruizione in senso stretto.
In conclusione, la differenza fondamentale tra tutti questi cartoonist (i più conformisti
Paul Terry e Walter Lantz e gli anticonformisti Fleischer e Tex Avery nonché Fritz
Freleng e i creatori della serie Looney Toones) e Walt Disney sta nella capacità, da
parte di quest’ultimo, di suscitare emozioni: il pubblico ama i melodrammi; il
pubblico vuole che le corde delle emozioni vibrino come non mai. Ed è per questo
che si commuoverà vedendo il Brutto Anattrocolo allontanato dalla madre; ed è per
questo che farà altrettanto vedendo Topolino che salva Minnie o i due topi che si
riappacificano dopo un litigio. La realtà di Walt Disney, il mondo che egli
rappresenta, è rassicurante, incantato e avvolto da un’aura magica e quasi onirica.
Mentre Walt Disney punta alla catarsi aristotelica, gli anti-disneyani puntano alla
comicità delle gag e alla forza dirompente della trasgressione. Una volta fruiti, però,
questi film lasciano nello spettatore un divertimento fugace, effimero, quasi illusorio,
che non sorprende più e che viene meno a una seconda visione. Così si può spiegare,
al contrario, l’incredibile successo planetario dei film disneyani e perché essi siano
simbolo di un’educazione esemplare e condivisibile: c’è sempre qualcosa in più da
scoprire, c’è sempre un messaggio nascosto che durante la prima visione non era
stato colto. Il significato e il messaggio del cartone disneyano è insomma molto più
ampio e vasto di quanto si possa immaginare e offre molteplici vie interpretative.
Sarà soprattutto nei lungometraggi successivi a Bianceve e i sette n ani che Walt
Disney cercherà di rendere più esplicita la sua poetica, trattando generi popolari e,
come Shakespeare, sfruttando trame già note – le fiabe – per avere un successo
commerciale assicurato.
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Da tutto questo quadro risulta evidente quanto la personalità e le ambizioni sia
artistiche sia commerciali di Walt Disney avessero suscitato da un lato ammirazione
ed entusiasmo, dall’altro sdegno e opposizione tra i suoi contemporanei.
C’è, però, dell’altro: accanto ai suoi intenti moralistici e pedagogici e a un
divertimento senza precedenti nonché a un impensabile successo commerciale, Walt
Disney ha fatto parlare di sé anche come uomo. Una figura dal doppio volto e piena
di lati oscuri.
1.3 Il lato oscuro di Walt Disney
Walt Disney non era un bravo disegnatore: disegnò solo in gioventù, il che ha
addirittura messo in discussione la paternità di Topolino, che secondo alcuni sarebbe
stato inventato da Ub Iwerks, uno dei suoi collaboratori più stretti
7
. Disney si sarebbe
preso il merito solo per il suo forte individualismo. Ma aveva uno spiccato amore per
la famiglia. E così considerava il suo staff: la sua famiglia (i suoi collaboratori li
chiamava “ragazzi”)
8
.
La cura maniacale per i particolari, per ogni minimo dettaglio, è riscontrabile in ogni
suo film, di cui lui stesso interpretava i personaggi; seguiva gli animatori,
incoraggiandoli nel loro lavoro; oppure utilizzava attori in carne e ossa come modelli
per permettere ai disegnatori di essere più realistici. Dunque, nello studio Disney,
Walt era il c oordinatore finale, colui il quale approvava il film. Senza la sua
supervisione, ogni lavoro sarebbe stato bloccato. Disney si era paragonato a un
direttore d’orchestra
9
, ma al New Yorker, nel 1941, si definì come un’ape che porta il
polline
10
.
7
Il figlio di Ub Iwerks, Dave, ha smentito la leggenda di Topolino inventato da Disney in un treno che avrebbe riportato
lui e sua moglie Lillian a Hollywood. Dave Iwerks ha attribuito le bozze a Disney e il disegno rifinito a suo padre.
8
Barrier 2009, p. 174.
9
Ivi, p. 160.
10
Ivi, p. 261. Il paragone con l’ape fu riutilizzato da Disney tempo dopo, quando un bambino gli chiese quale fosse il
suo ruolo nei film d’animazione: Disney gli rispose che, così come l’ape porta il polline, lui porta le idee. “E quando ho
trovato le idee, le porto agli altri perché ci facciano il miele”, aggiunse (Fallaci 1966).
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Disney non poteva fare film solo come appassionato di cinema o come bambino
eterno che nei suoi cartoon riassapora la madeleine proustiana per rievocare l’infanzia
perduta: doveva anche considerare il suo ruolo da capo di un’azienda, il suo studio.
Per questo doveva unire la passione, la creatività e l’arte con l’intento del guadagno.
Ma se Biancaneve e i sette nani fu un successo clamoroso, i film successivi
(Pinocchio e Fantasia) non furono altrettanto remunerativi, anche a causa della
guerra, che aveva impedito l’accesso ai mercati esteri. Per questo lo sciopero del
maggio 1941 divenne non solo un evento fondamentale nella carriera e nella vita di
Disney ma anche una situazione controversa di cui si è detto e scritto molto, la cui
ricostruzione dei fatti non risulta facile per le diverse versioni delle testimonianze.
Motivo dello sciopero sarebbero stati i licenziamenti, già numerosi negli anni Trenta
e in crescente aumento a causa della crisi aziendale.
Disney si era sempre definito un democratico – suo padre Elias aveva delle idee
socialiste. Ma dopo lo sciopero, dice Diane Disney Miller, figlia di Walt, si dichiarò
repubblicano. Il cambiamento di idee politiche è legato ai difficili rapporti tra Disney
e i sindacati. È questa la radice delle accuse di anti-comunismo. E non è la sola:
Herbert Sorrell, leader del sindacato, lavorava con il partito comunista, che “cercava
di ottenere accesso a diversi media, come il cinema, per avere un più forte impatto
nella diffusione dei suoi valori e per la propaganda” (Ciotta 2005, p.259). Fu lo stesso
Sorrell a minacciare Disney di calunniarlo: e così nacque la voce dell’anti-semitismo
disneyano. Voce rafforzata da chi sosteneva che la rappresentazione del lupo nei Tre
porcellini tendesse a ridicolizzare i venditori ebrei
11
. Disney si difese dicendo di
avere molti amici ebrei e che il suo film aveva il solo scopo di divertire
12
.
Nella versione originale dei Tre porcellini, allorché bussa alla porta del porcellino
che costruisce la casa in cemento, il lupo indossa solo un paio di occhiali, mentre
nella versione censurata ha una barba nera che lo occulta del tutto. Disney disse che
11
Il lupo è un animale che compare spesso nei film di Walt Disney. Il suo ruolo di predatore è invariato ma cambia la
rappresentazione: è antropomorfo nei Tre porcellini; è famelico in Pierino e il lupo, episodio di Musica Maestro (1946),
animato sulla musica di Prokofiev; e infine, nella Spada nella roccia, ha una funzione comica.
12
Ma il lupo si chiama Ezechiele, come il profeta ebreo: l’allusione è esplicita.
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voleva solo fare una parodia di Carl Laemmle e dei suoi tentativi di radere al suolo lo
Studio Disney. Secondo Diane Disney fu Neal Gabler il padre della calunnia di
antisemitismo. Gabler è autore del libro An empire of their own. How the Jews
invented Hollywood (1988), in cui si diceva che gli ebrei controllavano Hollywood.
Tesi espressa anche da Marc Eliot in Walt Disney. Il principe nero di Hollywood. Lo
scenario descritto da Eliot vede gli ebrei diventati padroni di Hollywood: con loro al
potere, l’industria cinematografica smette di essere una forma espressiva per divenire
un business. Gli ebrei si arricchiscono contribuendo al degrado morale del cinema. La
risposta del governo americano fu la censura di molti film.
“Ciò di cui Hollywood aveva un disperato bisogno era un nuovo eroe che non solo
celebrasse i giusti valori, ma capisse anzitutto quali fossero” (Eliot 2004, p. 76).
Gli studi hollywoodiani trovano in Disney, secondo Eliot, il cantore dei valori
decaduti, che non è solo politicamente corretto ma che piace anche al pubblico. Ma le
major non distribuiscono i film di Disney, indipendente e non ebreo.
Quanto allo sciopero, Disney credeva che fosse stata una manovra dei comunisti. Per
questo testimoniò, insieme a Ronald Reagan, allora attore, e a Gary Cooper, contro i
sovversivi. Siamo nel 1947: il maccartismo è alle porte, così come la Guerra Fredda,
e la minaccia comunista è diventata già una realtà, a quanto pare.
Eppure sulle idee politiche di Walt Disney ci sono delle ambiguità. Da un lato è
verosimile il suo anti-comunismo: Disney era un capo e come tale doveva agire; e
uno sciopero organizzato dai sindacati non poteva di certo esser visto di buon occhio
da chi, come lui, doveva gestire un’impresa che produceva cartoni. Non è un caso che
film come Cenerentola (1950), Alice nel paese delle meraviglie (1951) e Peter Pan
(1953) siano usciti solo negli anni Cinquanta, a conclusione di un decennio in cui, a
parte Dumbo (1941) e Bambi (1942), furono realizzati solo film a episodi, due dei
quali ( I tre caballeros e Saludos Amigos) finanziati dal governo americano.
L’apertura del nuovo decennio segna una sorta di nuovo ciclo nella produzione
disneyana, cosicché lo studio riprende la strada dei lungometraggi animati a storia
unica (accanto a quelli dal vero), abbandonati negli anni Quaranta. Lo sciopero,
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insomma, aveva impedito allo studio di proseguire lungo la linea incominciata nel
1937 con Biancaneve e i sette nani: i lungometraggi erano (e sono) ben più fruttuosi
dei cortometraggi.
Dall’altro lato, però, l’anti-comunismo, secondo diverse interpretazioni, implicava il
nazismo. Alessandro Barbera, autore di Camerata Topolino, ha scritto nel settimanale
L’Italia che Disney simpatizzò per Mussolini e che aveva frequentato il partito
nazista americano. A proposito dell’incontro tra Disney e Mussolini le biografie sono
discordanti: nell’intervista rilasciata a Mariuccia Ciotta, autrice di Walt Disney.
Prima stella a sinistra, Diane Disney dichiara che Walt e sua moglie Lillian, durante
un viaggio in Europa negli anni Trenta, non incontrarono né Hitler né Mussolini,
bensì Galeazzo Ciano (lo stesso dichiarò Lillian Disney). Ma in Vita di Walt Disney
di Michael Barrier si dice che i Disney, nel 1937, ebbero un’udienza con Mussolini e
con il papa. Roy Disney, fratello di Walt, descrive Mussolini come il personaggio
adatto per diventare un cartoon.
Incontro avvenuto o meno, l’elemento emergente dai film degli anni Quaranta è una
posizione nazionalista e filo-governativa nonché anti-nazista, con Hitler e Mussolini,
soprattutto il primo, ridicolizzati ai limiti della satira: Paperino è il protagonista di
Der Fuehrer’s Face (1942), incubo nazista con un risveglio liberatorio in cui l’ombra
della statua della libertà assomiglia a un saluto romano; Education for Death (1943) –
“The Story of One of Hitler’s Children”, dicono i titoli di testa – si apre con la
domanda “What makes a Nazi?” e mostra come l’educazione dei bambini sia
improntata a un fedele asservimento al nazismo, con il Mein Kampf che diviene il
sostituto della Bibbia; in The New Spirit (1942) Paperino – in cui il cittadino
americano si identifica – è invitato da una radio a pagare le tasse, affinché il governo
americano possa produrre armi, aeroplani, carri armati, sottomarini e quant’altro di
utile per affrontare la guerra. Il film si conclude con un’immagine a dir poco
suggestiva: delle nuvole intonate tra il bianco e il rosso, e sulla sinistra un cielo
stellato (è la bandiera degli Stati Uniti). Stesso invito è al centro di The Spirit of ’43
(1943), con Paperino ancora protagonista e conteso da due coscienze, l’una che lo