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Introduzione.
Le collezioni di materiale etnografico rappresentano una importante raccolta di
oggetti, più o meno comuni, preziosa testimonianza di società ormai
dimenticate, che stanno a poco a poco scomparendo o che comunque sono
ormai poco vicine alla nostra; il carro della Collezione Bosca, oggetto di questa
tesi, rappresenta un meraviglioso esempio non solo di artigianato ma è anche
testimone di una società contadina ormai scomparsa e di una serie di
dinamiche che vedono coinvolgere il culto religioso, le feste di paese e le
ricorrenze del calendario contadino.
Prima di parlare di questo carro, però, si riporteranno alcune considerazioni
sulle collezioni etnografiche e sull’importanza di preservare questi oggetti, ultimi
baluardi di antiche tradizioni.
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Le collezioni etnografiche: problemi di restauro
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.
Gli oggetti etnografici costituiscono quasi tutto ciò che non ha potuto trovare
collocazione in altre collezioni e che è stato esposto, per molto tempo, nei
gabinetti di curiosità.
Le collezioni etnografiche comprendono senza dubbio la più vasta gamma di
materiali, includendo potenzialmente tutto ciò che è stato lavorato dall’uomo:
vegetali (legno, corteccia, foglia, paglia, steli, radici, fibre, semi, noci, olio,
resina, cera, lacca, caucciù, ecc.), animali (osso, dente, avorio, corna, squame,
artigli, pelli, cuoio, pelo, piume, ecc.), minerali (pietre, metalli, vetro, smalto,
argilla cruda, ceramica, ecc.), sintetici (colori, materie plastiche). Anche le
tecniche di lavorazione, dalla costruzione alla decorazione, sono davvero
numerose. Quanto alle dimensioni degli oggetti, esse vanno da quella del
pizzico di polvere di alimento o di pigmento a quelle della casa completa.
Questi oggetti composti da materiali misti presentano quindi tutte le difficoltà
proprie delle opere d’arte contemporanea.
Le collezioni etnografiche, raramente più vecchie di due secoli, hanno pur
tuttavia un valore archeologico poiché le società che ne hanno prodotto gli
oggetti non esistono più. Gli stessi popoli sono a volte scomparsi o hanno
perduto le loro tradizioni. Le società rimaste hanno in linea di massima portato
modifiche nelle loro produzioni, che riflettono il loro dinamismo e i loro contatti
con il resto del mondo. Gli oggetti diventano quindi ben presto documenti del
passato; le tracce di usura e i piccoli resti che aderiscono alle superfici vengono
conservati, per quanto possibile, tenendo conto del loro valore documentario.
Tuttavia, spesso, questo entra in conflitto con la preoccupazione di eliminare
ogni fonte di danno futuro in funzione delle prospettive conservative.
Una reintegrazione è pensabile solo se si conoscono con certezza non solo i
motivi decorativi abituali, ma anche sotto quali influenze materiali, culturali,
storiche o individuali evolvono, il che richiede l’utilizzazione della letteratura
etnologica, nonostante le sue lacune in materia di descrizione tecnologica.
I materiali etnologici sono spesso effimeri, con combinazioni insolite. La loro
interazione è poco studiata e non vi si possono applicare, senza riflessione,
trattamenti derivati dal campo dell’arte. Le conoscenze necessarie qui rientrano
nella sfera delle scienze naturali: fisica, chimica, biochimica.
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Estratto da “La conservazione e il restauro oggi”.
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Si deve, inoltre, considerare la funzione primaria dell’oggetto (pratica, rituale,
ornamentale) e le variazioni intervenute in seguito a un uso particolare, ad
esempio religioso, mentre è ancora attivo nella società d’origine (che l’ha
prodotto o acquisito). Bisogna, infine, distinguere le successive modificazioni
provocate dai vari proprietari, al momento di un uso forse anche diverso.
Molti oggetti etnografici sono destinati al funzionamento: se si tratta di armi, di
attrezzi o di strumenti da caccia, per esempio, le difficoltà che si presentano
sono paragonabili a quelle provocate dal restauro di strumenti scientifici:
bisogna poterne comprendere il meccanismo, con o senza l’aiuto di documenti,
e bisogna scegliere tra rimetterli in funzione o farne una copia.
I musei e le collezioni di oggetti etnografici raccolgono tutti quegli oggetti che
documentano le culture e le risposte elaborate da singole culture a tradizione
orale ai problemi economici, sociali e religiosi che da sempre si pongono a ogni
gruppo umano: capi di abbigliamento, ornamenti personali, oggetti d’uso
domestico, mezzi di trasporto, strumenti di lavoro, insegne di comando,
strumenti e supporti del rituale magico religioso.
La conservazione e il restauro di questi manufatti pongono essenzialmente due
origini di problemi: da un lato la lontananza geografico-culturale del contentato
di provenienza può rendere problematiche l’identificazione dei materiali
costituenti, delle tracce d’uso, delle patine, gli eventuali impieghi o reimpieghi;
dall’altro la presenza su uno stesso oggetto di una grande quantità di materiali
inorganici ed organici (sia di natura animale che vegetale) richiede trattamenti
conservativi spesso diametralmente opposti. La mancanza di documentazione
funzionale e tecnologica relativa ai processi di fabbricazione di questi oggetti è
un paradosso; essi sono stati, in un passato recente o lontano, prelevati da un
contesto culturale ancora vivente che offriva la possibilità di registrare dal vivo
funzione, uso, simbologia e tecnica di fabbricazione di quanto veniva acquisito.
Eppure la documentazione che accompagna i materiali etnografici è laconica o
inesatta; molto raramente vengono riportate notazioni tecnologiche. Si tace
sull’impiego di sostanze utilizzate nel corso delle lavorazioni o per la
colorazione del prodotto finito; poco o nulla si sa sulla composizione dei
pigmenti, ancor meno su quella dei leganti, colle, resine, ecc.
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A questo si aggiunga la presenza sulla superficie di una patina d’uso che può
risultare oltre che dall’usura prodotta dalla manipolazione dell’oggetto (residui
alimentari, depositi da contatto corporeo, ecc.), anche da aspersioni sacrificali;
l’individuazione di tutte queste sostanze è praticamente impossibile (anche
facendo ricorso a sofisticate analisi chimiche).
Dal momento della musealizzazione il conservatore dovrebbe far sì che gli
oggetti subiscano solo un processo di regolare invecchiamento, eliminando
innanzitutto le cause esogene di degrado (fattori climatici, elevati livelli di
illuminazione, inquinamento atmosferico, depositi di polveri, stress meccanici,
ecc.) spesso favorite dall’ambiente di conservazione. L’elevato tasso di umidità
relativa può favorire i processi di metabolizzazione microbiologica, la
corrosione dei metalli e il degrado delle sostanze proteiche; gli sbalzi di
temperatura possono alterare le proprietà meccaniche dei materiali (perdita di
elasticità, fratture, solidificazione di sostanze grasse, ecc.). L’alto livello di
illuminazione può causare alterazioni cromatiche, ecc.
Inoltre sugli oggetti etnografici sono frequenti le cause di degrado endogene:
ad esempio i processi di corrosione dei metalli possono essere innescati dalla
contiguità con materiali organici che durante i loro processi di invecchiamento
possono produrre sostanze chimicamente aggressive nei loro confronti.
L’intervento conservativo che si andrà ad eseguire, quindi, non può prescindere
dalla struttura composita e polimaterica dei manufatti, né tanto meno dalla
assoluta necessità di conservare quanto più possibile le tracce d’uso, nonché
l’integrità chimico-fisica dei materiali. Ancora, la necessità di conservare
inalterate le tracce d’uso richiede all’operatore la capacità di individuare un
livello di pulitura delle superfici assolutamente minimale e di predisporre
schermature e protezioni selettive sia nel corso dei lavori che al termine di essi.
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Il concetto di patina
Niente è immutabile nel cielo dell’eterna rovina: il marmo si sbriciola,
il granito stesso di frantuma, la pietra arenaria si trasforma in sabbia
e tutto diviene nuova roccia. Gli affreschi, gli arazzi e le tarsie si
sbiadiscono, i mobili e le pitture ad olio diventano più scure e lo
splendore delle icone ha vita breve. I minerali cambiano in metalli e
di nuovo in minerali, poiché “niente resta della stessa forma e la
trasformazione crea grandiosamente una natura sempre nuova
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”.
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La parola patina ridesta innanzitutto il ricordo di bronzi ricoperti da uno strato
bruno o verde, dato dal trascorrere del tempo. Essa fu per la prima volta usata
già con l’accezione di strato storicamente ed artisticamente pregevole.
Con patina si intende, però, non solo il prodotto di alterazioni conseguenti
l’interazione di un materiale con un determinato ambiente; questa parola, infatti,
racchiude in sé anche tutti i processi di invecchiamento dei materiali e tutti i
depositi, i prodotti di corrosione ed interazione, creatisi nel corso della storia di
tale oggetto.
Ogni materiale, a contatto con un ambiente, tende a mettersi in equilibrio con
questo, reagendo in relazione alle caratteristiche dell’ambiente in cui si trova e
creando una propria protezione; la patina protettiva, appunto.
Questo strato di alterazione prodotto dal materiale si interfaccia con l’ambiente
e si modifica ogni qual volta l’ambiente in cui si trova cambia le proprie
caratteristiche. Il materiale, quindi, assume una natura stratificata dando
informazioni sia sull’ambiente che sulle reazioni che questo provoca per quel
dato materiale.
Può quindi definirsi patina uno strato di alterazione omogeneo che si forma
spontaneamente sulla superficie di un manufatto esposto ad agenti esterni
(all’aperto o al chiuso). Una patina ha come caratteristiche l’essere omogenea,
compatta, chimicamente stabile, aderente alla superficie e preferibilmente
insolubile in acqua.
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Ovidio, Le Metamorfosi.
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Tratto da “La patina nel restauro delle opere d’arte” di Thomas Brachert.
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Visto che, come si è già detto in precedenza, ogni materiale forma strati di
alterazione, si chiameranno patine quegli strati alterati che, oltre ad avere le già
dette caratteristiche, risultino pregevoli dal punto di vista storico-artistico e che
non modifichino la percezione dell’originale.
Il concetto di patina in relazione a materiale etnografico
Come si può valutare cosa conservare e cosa rimuovere degli strati di
alterazione quando si parla di materiale di tipo etnografico? Come si è già
detto, a differenza di quei manufatti che rientrano nelle opere d’arte, molto del
materiale etnografico che oggi conserviamo, restauriamo e proteggiamo come
testimonianza e memoria di un passato che ci appartiene, presenta non solo
una serie piuttosto complessa di strati di alterazione, ma spesso presenta
anche strati che hanno origine dall’uso di tali oggetti nella vita quotidiana a cui
sono stati destinati.
Pensiamo ad esempio a tutti quegli oggetti relativi al mondo contadino, ai mobili
rustici o anche solo alle armi, usati giorno dopo giorno e logorati non solo dai
normali processi di degrado, ma anche dall’esposizione ad ambienti molto
variabili, dal contatto con i prodotti organici della terra e dall’esposizione
continua ad agenti atmosferici. Questi oggetti creeranno patine stratificate a
seconda delle diverse reazioni con questi ambienti; patine che verranno anche
rimosse naturalmente dall’uso dell’oggetto o dalla sua pulizia.
È quindi molto arduo pensare ad una graduatoria per la valutazione delle patine
quando non si tratta solo di valutare gli strati di alterazione di quadri e bronzi,
ma anche quello di armi, mobili rustici, arte decorativa o applicata, manufatti
tessili, ecc. Le aspettative legate al restauro di un quadro di Rembrandt,
insieme al rapporto di questo con la patina, col colore dorato degli antichi strati
di vernice saranno infatti notevolmente più importanti, di quanto non lo sarà il
caso del trattamento di un fucile o di un mobile rustico
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Parallelamente ad una predominanza così evidente delle esigenze degli ambiti
classici del collezionismo si nota al tempo stesso una minore sensibilità per
quanto riguarda la patina di oggetti artigianali di arte applicata.
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Tratto da Thomas Crachert “La patina nel restauro delle opere d’arte”.
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Tuttavia, le testimonianze di arte decorativa, i prodotti artigianali anche di uso
comune, i mobili rustici, ecc. sono stati poco a poco rivalutati nel nostro mondo
sempre più industrializzato e serializzato, dove gli oggetti non sono più pezzi
unici e dove gli artigiani sono macchine e non più persone.
L’atteggiamento e la cura verso la conservazione e il restauro degli oggetti,
qualunque sia il loro valore artistico in origine, viene ora, quindi, valutata in
relazione al loro maggior valore acquisito. Pensiamo ad esempio
all’inestimabile valore assunto dai reperti trovati nelle antiche tombe egizie; si
tratta a volte solo di capelli, pettini, collane, che di per sé non avrebbero valore
se non fossero testimonianza storica di un paese, di una artigianato locale, di
una cultura morta secoli or sono.
Per questo, medesima importanza bisognerebbe dare a quegli oggetti, certo
più vicini a noi nel tempo, che con il continuo svilupparsi, dalla fine del
settecento in poi, delle industrie e del prodotto seriale, sono diventati sempre
più rari ed inestimabili perché memoria e testimonianza visiva di una cultura
artigiana senza eredi.
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IL CARRO DELLA COLLEZIONE BOSCA DI CANELLI
Questo carro da vendemmia è un oggetto particolare e pregevole dal punto di
vista non solo artigianale ed artistico ma anche storico; esso rientra infatti in
quella categoria di oggetti che testimoniano usi e costumi, nonché tradizioni,
oggi scomparse, che stanno poco a poco scomparendo o che comunque non ci
appartengono più.
Su oggetti di questo tipo, la collocazione storica, la documentazione
sull’artigiano e sul committente sono difficilmente reperibili e solo raramente è
possibile risalirvi.
In questo caso si possono fare una serie di considerazioni nate dall’attenta
osservazione del carro, del suo stato conservativo e dal confronto con altri carri
ad esso simili.
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STRUTTURA DEI CARRI
I carri a quattro ruote
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Il pesante carro a quattro ruote viene trainato generalmente da bovini attaccati
ad un timone, più raramente da cavalli. Carri più leggeri con timone a due
stanghe vengono trainati da un cavallo o anche da un bovino, come per
esempio le carrette venete o in particolari carri a quattro ruote usati in
montagna, soprattutto nelle Alpi.
Il carro a quattro ruote è costituito dal telaio, cioè il carrello anteriore e il carrello
di coda, e dal piano di carico, che, tranne nel caso di carichi di legname lungo,
collega i due carrelli e sostiene i carichi.
Fronte e retro di un tipico carro emiliano.
Telaio – carrello anteriore e carrello di coda.
Il carro a quattro ruote molto maneggevole delle zone di montagna può essere
analizzato facilmente nelle sue singole parti. Solo il carrello anteriore può
essere usato anche indipendentemente, come avantreno. Nei carri più
rudimentali le ruote posteriori senza timone possono essere collegate con
l’avantreno mediante semplici stanghe o una benna. Quasi sempre il carrello
anteriore e quello di coda sono solidali e collegati in vari modi dal timone del
carrello di coda (timone di collegamento).
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La seguente descrizione dei carri emiliani e la nomenclatura usata per le loro parti sono state
tratte da “Il lavoro dei contadini” di Paul Scheuermeier.