Oggi ormai vi è la consapevolezza, da parte dei giuristi più attenti
ai problemi ambientali, che il quadro normativo a livello internazionale,
sovranazionale e dei singoli ordinamenti statali, deve essere adattato
alle esigenze ed alle emergenze che si verificano, purtroppo, con
sempre maggiore frequenza, quasi sempre legate a decisioni politiche
ed economiche di cui si discute la sostenibilità; la sensibilità ambientale
è notevolmente aumentata: l’ambiente è ormai considerato un valore
della società moderna.
La complessa rete normativa, che caratterizza in Italia le
problematiche ambientali, si è sviluppata a vari livelli: sovranazionale e
nazionale; nell’ambito dell’ordinamento statale, la rete si arricchisce di
ulteriori maglie che attengono ai criteri di gerarchia e di competenza tra
le diverse fonti normative del centro e della periferia, soprattutto in
riferimento all’apporto che sarà dato dal d. lgs. 112/1998.
La tutela internazionale dell’ambiente può essere esaminata
considerando quattro periodi distinti; una prima fase è caratterizzata da
trattati e convenzioni che riguardano perlopiù la fauna e la flora a partire
dalla metà del secolo scorso; non mancano tuttavia misure
internazionali destinate a combattere l’inquinamento dei fiumi e dei mari;
nel 1945, con l’istituzione delle Nazioni Unite le problematiche
ambientali assumono una nuova dimensione.
Con la seconda fase, tra il 1945 e il 1972, la tutela dell’ambiente
entra nei programmi delle organizzazioni internazionali di nuova
formazione; la Carta dell’ONU non ne fa menzione, ma viene
ricompresa tra i problemi economici, sociali, culturali e umanitari
affrontati da quel documento; vi sono poi disposizioni nella Carta
istitutiva della FAO che riguardano la conservazione delle risorse
naturali; la tutela dell’ambiente rientra anche nei programmi
dell’UNESCO: i risultati sono però modesti; si è tuttavia ormai radicata la
consapevolezza, espressa in occasione della conferenza promossa
dall’UNESCO nel 1968 e dedicata alla biosfera, che l’uomo ha la
capacità e la responsabilità di determinare e guidare il futuro
dell’ambiente in cui vive e di dare quindi inizio ad azioni correttive e
protettive a livello nazionale ed internazionale; vi è un richiamo alla
libertà, all’uguaglianza ed a condizioni di vita soddisfacenti in un
ambiente che garantisca dignità e benessere quali diritti fondamentali
dell’uomo.
La terza fase copre vent’anni e si conclude con la conferenza
delle Nazioni Unite tenutasi a Rio nel 1992; alcuni dei principi del
documento di Rio sono molto importanti per il prosieguo della tutela
ambientale, non solo per il loro carattere programmatico, ma anche
perché incidono su problemi di grande attualità anche per l’ordinamento
giuridico italiano, pensiamo al principio “chi inquina paga”; in secondo
luogo, il riconoscimento dell’importanza di effettuare preventivamente la
“valutazione d’impatto ambientale”, nel caso di opere che siano
suscettibili di avere effetti negativi sull’ambiente
1
; in terzo luogo,
l’impegno degli Stati di notificare immediatamente agli altri Stati, ogni
catastrofe naturale od ogni altra situazione di emergenza che possa
produrre effetti nocivi improvvisi sull’ambiente di codesti Stati. Dalla
conferenza di Rio si definiscono ulteriori documenti settoriali, che
confermano l’impulso dato allo sviluppo sostenibile e la volontà di
manifestare, attraverso la Dichiarazione, la generale consapevolezza
che esistono esigenze ed emergenze ambientali alle quali occorre porre
rimedio (pur mancando un accordo sui rimedi). Da segnalare anche
l’agenda 21
2
, programma d’azione a livello internazionale, che pur non
essendo giuridicamente vincolante, dà forma articolata alle misure da
seguire.
Nell’ultima fase, gli atti della conferenza vengono poi presi in
considerazione a distanza di cinque anni: i principi dello sviluppo
sostenibile, ancorché ampiamente condivisi sul piano delle buone
intenzioni, non appaiono tuttavia sufficienti per far fronte a quella
crescita dell’economia mondiale, che risulta sempre più insostenibile,
così come emerso dalla Conferenza di Kyoto del dicembre 1997 che,
pur ravvisando nell’inquinamento atmosferico e nella riduzione dello
strato di ozono, problemi dei quali la Comunità internazionale ha ben
ragione di preoccuparsi, costituisce un momento importante ma non
conclusivo per la loro soluzione e per individuare, in termini più generali,
la sostenibilità dello sviluppo.
L’importanza della tutela ambientale nel diritto europeo è data dal
fatto che i problemi ambientali che si considerano hanno spesso
carattere globale o comunque sovranazionale e, quindi, non possono
essere affrontati dal solo ordinamento statale: non a caso la maggior
parte della normativa ambientale dell’Italia dipende dal recepimento di
normative comunitarie.
I primi interventi comunitari mirarono a prevenire, ridurre e
sopprimere l’inquinamento e i suoi effetti sull’ambiente.
In mancanza di specifiche disposizioni del trattato CEE e
nell’attesa che la materia venisse disciplinata, si poneva il problema di
rendere utilizzabili i programmi: la soluzione adottata dalla Comunità fu
quella dell’interpretazione “evolutiva” del testo fondamentale, in
particolare gli artt. 100 e 235 del trattato, che disciplinano
l’armonizzazione delle politiche comunitarie e la possibilità per il
Consiglio di assumere, solo a determinate condizioni, decisioni su
argomenti non disciplinati dal trattato; questa modalità di intervento, pur
suscitando critiche in sede dottrinale, fu considerata legittima dalla Corte
di giustizia.
Il notevole interesse e sviluppo della tutela ambientale trovò il suo
riconoscimento nell’Atto Unico europeo, firmato a Lussemburgo il 17
febbraio 1986 ed entrato in vigore il 1° luglio 1987. Di particolare
rilevanza è l’art. 130R, che introduce il principio di sussidiarietà, nella
misura in cui gli obiettivi di interesse ambientale possono essere
realizzati a livello comunitario piuttosto che dai singoli stati membri. Il
Trattato di Maastricht riprende in larga misura la normativa dell’Atto
unico: infatti gli orientamenti in materia ambientale rimangono identici
anche se, in forza dell’art. 189C, il requisito dell’unanimità, in merito alle
azioni da intraprendere, è stato sostituito da quello della maggioranza
qualificata del Consiglio, previo parere del Parlamento europeo.
Vengono introdotti inoltre alcuni principi, tra cui il principio “chi
inquina paga” ed inoltre la possibilità, per l’attuazione delle politiche
ambientali, di assumere provvedimenti a favore degli Stati, previa
delibera del Consiglio.
I problemi dell’ambiente, della sua tutela e della sua gestione
sono ormai entrati nell’ultimo decennio a far parte, anche in Italia, del
patrimonio della coscienza collettiva in una misura sconosciuta per il
passato. Conservazione della natura, compatibilità ambientale di opere
ed insediamenti, lotta agli inquinamenti non sono più obiettivi e temi
riservati al dibattito di “pochi interessati”, ma termini correnti ed attuali
dell’elaborazione culturale e dei processi di decisione politica “entrati”
nelle istituzioni, trasformatisi sempre di più in norme, in apparati
amministrativi, in procedure.
Il progresso di questa consapevolezza non avanza così
velocemente come i rischi e la realtà di degradazione e di distruzione
che l’ambiente soffre in tutto il mondo. Però è certo che vi è oggi una
nuova e più diffusa cultura dell’ambiente della quale sono fra l’altro
partecipi, nel proprio ambito disciplinare e professionale ed in numero
sempre maggiore, giuristi, economisti, tecnici della pianificazione
territoriale, operatori delle scienze naturali, organismi pubblici e privati,
associazioni.
Soprattutto in alcuni paesi, tra cui certamente l'Italia, l’enorme
spinta della ricostruzione post-bellica, portò a confini mai visti il
processo di urbanizzazione dei suoli ed il progresso industriale. La
necessità di riparare alle condizioni di devastazione in cui il continente si
era venuto a trovare in seguito alle grandi distruzioni belliche, aveva
provocato un tale impulso di energie, di entusiasmi e di realizzazioni, da
mettere in disparte le valutazioni sulle conseguenze delle azioni che
incidono sull’ambiente.
In quel periodo, il suolo, l’acqua e l’aria erano considerate risorse
inesauribili, capaci di estendersi e riprodursi all’infinito. Si era lontani da
una “valutazione bilanciata” fra i vantaggi del processo di sviluppo e i
danni arrecati ai valori naturali della terra, intesa come sistema globale
di risorse.
I conservazionisti in quegli anni erano un piccolo numero, ma
rapidamente riuscirono a convincere l’opinione pubblica dei vari paesi
d’Europa che era necessaria una nuova strategia per anticipare,
controllare e combattere l’inquinamento della terra, dell’aria e
dell’acqua, la distruzione degli animali rari, la proliferazione abnorme
degli insediamenti umani. Furono capaci di proporre la costituzione,
anche in Europa, di una rete di parchi e riserve naturali per
salvaguardare gli aspetti botanici, faunistici, paesistici di eccezionale
importanza. Riuscirono ad organizzare intorno ad alcuni obiettivi ben
determinati i primi movimenti di opinione ambientale con carattere di
massa.
La acquisizione dei nuovi valori collettivi si espresse non soltanto
in azioni di protesta e nella proposizione delle prime grandi proposte,
ma anche - e questo fu l’aspetto decisivo - nella formazione di una
nuova etica, destinata ad incidere sulla stessa concezione dello sviluppo
e del consumo delle risorse esistenti. Si scoprì sotto un certo aspetto il
significato del messaggio dei pionieri americani quando, già alla fine
dell’ottocento, concepivano e realizzavano grandi zone di protezione
“per il godimento delle generazioni future”.
La risposta istituzionalmente più significativa fu data dalla
Conferenza di Stoccolma del 1972, che richiamò il mondo intero intorno
a The Conservation and Developement Programme e quindi alla
necessità di conciliare i grandi obiettivi del progresso economico con
quelli della sopravvivenza umana.
Nasce a questo punto la nuova filosofia dei problemi ambientali,
che caratterizza gli anni ‘80. Essa tiene conto delle grandi mutazioni
tecnologiche e del lavoro, che si prospettano tipiche di una società
entrata in una fase di evoluzione post-industriale. E’ determinante il
convincimento che per l’uomo non sia più possibile immaginare uno
sviluppo economico se non nella compatibilità con il razionale
sfruttamento delle risorse naturali. Appare sempre più evidente agli
occhi di un’opinione pubblica allargata e cosciente che il problema dello
sviluppo è strettamente connesso con quello della “qualità della vita”. Si
dovrà investire contemporaneamente sull’un fronte e sull’altro.
2. Utilizzo sostenibile e sostenibilità dello sviluppo
Nell'ambito delle organizzazioni internazionali, nella seconda
metà degli anni '80, è apparso un nuovo termine che ha catalizzato
l'attenzione rispetto ai dibattiti sul futuro dell’umanità. Si tratta del
concetto di "sviluppo sostenibile" coniato appunto dalla Commissione
Mondiale per l'Ambiente e lo Sviluppo nel 1987 dopo due anni di
riunioni, dibattiti, conferenze in vari paesi del mondo con rappresentanti
del mondo politico, economico, scientifico, imprenditoriale, sindacale e
semplicemente con rappresentanti di popoli di varie parti della terra.
La necessità di creare questa commissione dell'ONU e di
analizzare i legami tra modello di sviluppo dominante e ambiente,
affonda senz'altro le sue radici nella conferenza dell'ONU di Stoccolma
del 1972 (sull'ambiente umano) e sul dibattito apertosi a partire da
quegli anni sulla persistenza del modello di sviluppo contemporaneo.
Le preoccupazioni che affiorarono a Stoccolma e che erano già
ben presenti nel dibattito sui limiti della crescita erano di due ambiti
principali:
- le ripercussioni negative di un modello di crescita economica
quantitativa sull'ambiente naturale;
- il sottosviluppo di gran parte dell'umanità (la maggioranza)
ovvero la dimostrata incapacità da parte di molti paesi del Sud del
mondo a seguire il modello di sviluppo dominante.
Da 1972 al 1987 (anno di fondazione della Commissione
sopraddetta) questi due problemi si sono ulteriormente aggravati:
- è aumentato il divario tra i paesi ricchi ed i paesi poveri; è
esplosa la questione del debito di gran parte dei paesi del Sud, si è
ulteriormente accentrato il consumo delle risorse mondiali nei paesi del
Nord;
- i danni ambientali locali si sono spostati sul piano globale
(effetto serra, assottigliamento della fascia di ozono, piogge acide,
desertificazione, perdita della fertilità dei suoli).
In questo contesto l'ONU, la principale organizzazione
internazionale, ha sentito il dovere di tornare ad affrontare queste
problematiche e ha lanciato una nuova parola d'ordine, lo sviluppo
sostenibile, appunto.
Dal 1987 ad oggi il termine “sviluppo sostenibile” ha dato luogo
ha due fatti importanti:
1) un infinito dibattito nella letteratura economica, politica e scientifica
sul suo significato e sulle sue implicazioni;
2) una diffusione universale (nel senso geografico) e trasversale (nel
senso dell'adozione del termine da parte di partiti politici, associazioni,
istituzioni anche con visioni e punti di vista contrastanti).
Questi due fatti hanno portato a due risultati sostanzialmente
divergenti: da una parte la grande “bagarre” intorno al significato di
sostenibilità sembra aver svuotato il concetto di riferimenti certi e quindi
della sua potenzialità innovativa, dall'altra la grande diffusione del
termine rafforza proprio la potenzialità che questo concetto può avere
per andare verso un nuovo modello di sviluppo.
Cominciamo dalla definizione più nota e più riconosciuta:
lo “sviluppo sostenibile” è quello sviluppo che soddisfa i bisogni delle
generazioni presenti senza compromettere le capacità delle generazioni
future di soddisfare i propri. Esso contiene due concetti chiave: il
concetto di "bisogni", in particolare i bisogni primari dei poveri del
mondo, ai quali deve essere data assoluta priorità; e l'idea di limiti
imposti dallo stato della tecnologia e dell'organizzazione sociale sulla
capacità dell'ambiente di soddisfare i bisogni presenti e futuri.
L'utilizzo sostenibile è dunque una condizione necessaria per
parlare di sostenibilità dello sviluppo, ma non è una condizione
sufficiente. Lo sviluppo sostenibile infatti, va oltre la sfera delle mere
relazioni fisico-naturali, incorporando principi etici rivolti sia al
riconoscimento della vita non-umana, sia all'imperativo di soddisfare i
bisogni di tutta l'umanità.
Secondo l'autore William Lafferty, il concetto di sviluppo
sostenibile assume una legittimazione etica grazie a due principali
modalità: quello del realismo e quello del consensualismo. Secondo la
prima, un concetto assume legittimazione etica attraverso una corretta
interpretazione del fenomeno rilevante ai fini del problema, ovvero
tramite un argomento razionale direttamente legato al problema.
Secondo la modalità del consensualismo la validità morale di un
concetto è assicurata invece attraverso l'accordo collettivo: solo
attraverso il dialogo critico e il riconoscimento consensuale la moralità
può essere una guida all'azione. Più forte è l'accordo sul concetto, più
forte è la forza morale dello stesso.
Dal punto di vista del realismo, le evidenze scientifiche che
sostengono il concetto di sostenibilità fisica sono incontrovertibili e
accertate, dal punto di vista del consensualismo è difficile trovare un
concetto sul quale sia stato riposto maggiore consenso nella politica
internazionale. La Conferenza di Rio del 1992 è stato il momento
culminante di questo processo negoziale, che ha visto l'adozione di
quattro documenti (la Dichiarazione di Rio, l'Agenda 21, le convenzioni
sul clima e sulla biodiversità) che attestano un mandato consensuale
con caratteristiche di unicità. Non si tratta qui di dimenticare le difficoltà
di interpretazione, la retorica politica, il fatto che il concetto sia stato il
parto di un compromesso; quello che si deve sottolineare è che da Rio
in poi sono stati gettati nuovi standard per la politica globale in questo
settore ed è stata creata una rete di pubblici fori internazionali, agenzie,
arene politiche incaricate di perseguire questi standard.
Tutto questo non rende automatico il raggiungimento di una
società globale sostenibile. Però rende sicuramente meno probabile la
possibilità di risolvere i conflitti tra crisi ecologica planetaria ed equità
globale in un qualsiasi altro ambito normativo di tipo democratico e di
pace, che non sia quello dello sviluppo sostenibile.
In sostanza una delle principali potenzialità del concetto, come
motore verso una nuova società, risiede nella sua forza morale,
garantita sia dall'evidenza scientifica, sia dalla sua diffusione e dal
riconosciuto consenso mondiale che lo sviluppo sostenibile ha
incentrato intorno a sé.
Al vertice di Rio de Janeiro, nell'estate del 1992, c'è stata la più
grande concentrazione della storia di rappresentanti dei governi, dei
partiti politici, delle diverse associazioni di cittadini e lavoratori del
mondo con lo scopo di dare una traccia per affrontare i problemi dello
sviluppo economico e dell'ambiente.
A seconda delle aspettative, il Vertice è stato considerato come
una delusione (per coloro i quali si aspettavano impegni più forti e più
precisi in merito alle politiche per la sostenibilità) o invece come un
importante punto di partenza. Comunque la si pensi, un risultato certo
del Vertice è stato quello di dare il via al processo (lento) di
implementazione dello sviluppo sostenibile.
Uno dei principali strumenti per l'implementazione della
sostenibilità è senz'altro l'Agenda 21, formata da più di cinquecento
pagine, spesso ripetitiva, che però cerca di affrontare tutti i possibili
campi di attuazione rispetto ad una politica di sviluppo sostenibile.
Si deve scontare il fatto che è un documento di compromesso tra
tutti (almeno virtualmente) i rappresentanti dei popoli della terra e, come
tale, su alcuni temi non è stato possibile trovare un accordo tra tanti
punti di vista diversi. In particolare le aree dove l'accordo non è stato
raggiunto sono state quella del controllo demografico (per l'opposizione
dei movimenti religiosi), quella della riduzione dell'uso dei combustibili
fossili (per l'opposizione di alcuni paesi del Nord e dei paesi esportatori
di petrolio), e quella dei danni derivanti dal debito dei paesi del Sud e dal
commercio internazionale (per l'opposizione dei paesi industrializzati).
Un importante aspetto da considerare è che le indicazioni e i temi
presenti nell'Agenda 21, riguardano tanto la parte ambientale quanto
quella politica, economica e finanziaria dello sviluppo sostenibile: 25 dei
40 capitoli dell'Agenda 21, sono infatti dedicati a tematiche diverse
rispetto a quella della protezione o del degrado dell'ambiente.
Questa visione è poi ripresa fortemente dalla Commissione per lo
Sviluppo Sostenibile (CSD), creata nel dopo-Rio con lo scopo non solo
di monitorare e registrare gli sforzi a livello nazionale verso l'Agenda 21,
ma soprattutto di portare avanti la questione cruciale dell'aiuto
finanziario e del trasferimento di tecnologie al sud. La CSD ha definito
infatti una serie di linee guida per monitorare i passi in avanti degli stati
nazionali nell'implementazione dell'Agenda 21.
Nell'Agenda 21 è possibile identificare alcuni termini centrali,
quasi delle parole d'ordine:
- Cooperazione: tutto il documento è permeato di questo termine sia nei
rapporti tra paesi diversi sia fra diversi livelli di governo.
- Eguaglianza nei diritti: dappertutto nel documento è sottolineata
l'importanza e il contributo potenziale di tutte quelle categorie
svantaggiate o comunque lasciate normalmente da parte nel processo
decisionale (poveri, emarginati, popoli indigeni, donne, giovani, etc...)
per l'implementazione dell'Agenda 21. Allo stesso tempo è ribadita
l'assoluta necessità di assicurare a tutti i gruppi svantaggiati gli stessi
diritti nell'accesso alle risorse di quelli del resto dell'umanità.
- Sviluppo umano e formazione: è un altro strumento di
implementazione fondamentale; senza di esso non è possibile
concepire l'attuazione dello sviluppo sostenibile ed è una pre-condizione
per la stessa eguaglianza nei diritti.
- Pianificazione: in tutto il documento si insiste sul fatto che lo “sviluppo
sostenibile” potrà attuarsi solo se specificamente pianificato. Piani e
strategie sono richiesti ad ogni livello di governo. Viene rifiutata l'idea
che le forze di mercato da sole possano portare verso la sostenibilità:
esse possono essere utili, ma solo dopo che è stata programmata una
cornice entro cui lasciarle libere di agire.
- Capacity buiding: ovvero sviluppare le capacità e le forme di
finanziamento delle istituzioni per gestire i grandi cambiamenti richiesti
ad esse stesse.
- Informazione: in ogni stadio del programma dell'Agenda 21, vi sono
richieste in merito alla necessità di maggiori informazioni sullo stato
dell'ambiente, e sulle ripercussioni sociali ed economiche di politiche a
fini ambientali.
E' però esplicitamente rifiutata la posizione di attesa: ovvero
aspettare più informazioni e più risultati scientifici prima di intraprendere
azioni.
Da un certo punto di vista, le attuali prospettive per l’Europa sono
ottimistiche: le emissioni industriali di sostanze tossiche come il piombo,
il cadmio, il mercurio hanno subito un sostanziale declino. Molti
pericolosi pesticidi e sostanze chimiche sono stati banditi o il loro uso
severamente ristretto. Le emissioni di anidride solforosa - che hanno
avuto pesanti ripercussioni su laghi e foreste - sono state drasticamente
ridotte. Le sostanze chimiche che riducono lo strato di ozono che
protegge l’atmosfera intorno alla terra sono state bandite o stanno per
essere eliminate. E’ aumentato il riciclaggio.
L’ambiente nell’Unione europea gode di un livello di protezione
giuridica ineguagliato.
Purtroppo sono stati risolti solo alcuni dei più semplici problemi
ambientali. I problemi del futuro vengono compresi molto meno
facilmente e sono molto meno facilmente tenuti sotto controllo. Tali
problemi sono la conseguenza naturale di una società in cui gli individui
ed i gruppi non valutano “l’impatto” delle loro azioni sugli altri o
sull’ambiente, in breve, di una società che si comporta ancora come se
le risorse della terra fossero rinnovabili all’infinito.