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CAPITOLO 1
1.1 EVOLUZIONE STORICO-ECONOMICA DELLA R.P.C.
1.1.1 L’apertura al mondo e le riforme strutturali
Per avere una visione completa dell’economia cinese dovremmo analizzare la
Repubblica Popolare Cinese almeno dall’epoca del colonialismo inglese. Questo però
non è l’intento del presente lavoro; dato per assodato il fatto che la R.P.C. è arrivata ad
avere un economia socialista nel dopo-guerra, l’indagine si pone l’obiettivo di stabilire
quale evoluzione abbia fatto mutare la situazione in quella che conosciamo oggi.
Per una panoramica storica si può considerare l’analisi fatta da Li Gongyou, il quale ha
diviso in varie fasi lo sviluppo dell'economia cinese negli ultimi sessant’anni.
[1]
La prima fase, quella pre-comunista, fino alla proclamazione della Repubblica Popolare
Cinese avvenuta nel 1949, viene definita a economia semicoloniale e semifeudale, in cui
l’economia era nelle mani dei signori locali e delle colonie inglesi e portoghesi.
La seconda, comunista vera e propria, fino alle riforme di Deng Xiaoping, fu
caratterizzata dal tentativo di realizzare un'economia pianificata centralizzata; il primo
piano quinquennale, di stampo sovietico, fu quello 1953-1957.
La terza fase, partita con il programma delle "Quattro Modernizzazioni" (agricoltura,
industria, scienza e tecnica, forze armate), è durata fino metà degli anni Novanta e ha
coinciso con l'apertura a un'economia socialista di mercato.
Autore di questi cambiamenti è stato Deng Xiaoping, storico leader del Partito
Comunista Cinese, Vice-Primo Ministro e Capo di stato Maggiore dell’esercito.
Nel 1978 la situazione economico-sociale cinese, dopo secoli di impero e una prima
esperienza marxista-leninista, era drammatica. Per cercare di costruire una nazione
moderna, mantenendo fede alla dottrina socialista, Deng Xiaoping propose di adottare
“un socialismo con caratteristiche cinesi”. Tale soluzione prevedeva la riduzione del
ruolo e del peso dell'ideologia per quanto riguardava le decisioni economiche e
l'efficacia delle linee di condotta da seguire.
[1]
http://www.corriereasia.com/cina/storia_della_cina.shtml
10
Per il leader cinese, dunque, il socialismo non significava povertà condivisa. Dalle sue
parole possiamo comprendere meglio il suo concetto: "Pianificazione e forze di mercato
non rappresentano l'essenziale differenza che sussiste tra socialismo e capitalismo.
Economia pianificata non è la definizione di socialismo, perché c'è una pianificazione
anche nel capitalismo; l'economia di mercato si attua anche nel socialismo.
Pianificazione e forze di mercato sono entrambe strumenti di controllo dell'attività
economica."
[2]
Il leader cinese pose in risalto il ruolo di primaria importanza della produzione agricola
e incoraggiò una significativa decentralizzazione della gestione delle decisioni nei
gruppi dall'economia rurale e nei singoli nuclei familiari di contadini. A livello locale,
per motivare la forza lavoro, dovevano essere impiegati incentivi concreti, piuttosto che
appelli politici, incluso il permesso ai contadini di guadagnare entrate extra grazie alla
vendita dei prodotti dei propri terreni sul mercato.
Nella generale spinta volta ad ottenere una posizione di mercato, alle municipalità locali
e alle province fu consentito di investire nelle industrie che esse consideravano più
redditizie e questo fatto spronò l'investimento nelle industrie leggere. Le riforme di
Deng Xiaoping fecero sì che la strategia di sviluppo della Cina si spostasse verso
l'industria leggera e la crescita guidata delle esportazioni.
La produzione industriale leggera fu vitale per lo sviluppo di un Paese che veniva da un
basso capitale di base. Dopo un breve periodo di gestazione i profitti generati
dall'industria leggera poterono essere reinvestiti in una produzione più avanzata
tecnologicamente e in ulteriori importanti spese ed investimenti.
Il capitale investito nell'industria pesante, in gran parte proveniva dal sistema bancario e
la maggior parte di esso veniva dai depositi dei consumatori. Uno dei primi punti delle
riforme del leader prevedeva di far sì che non si verificasse una ripartizione dei profitti,
se non tramite la tassazione o il sistema bancario; pertanto, la ripartizione nelle industrie
di proprietà dello stato avveniva in modo indiretto, rendendole così indipendenti
dall'interferenza del governo.
Queste riforme rappresentarono un cambio di tendenza rispetto alle linee di condotta
maoiste di un'economia autosufficiente. La Cina decise di accelerare il processo di
[2]
Gitting J., The Changing Face of China, Oxford University Press, 2005
11
modernizzazione aumentando il volume di commerci con l'estero, specialmente tramite
l'acquisto di macchinari dal Giappone e dall'Occidente. Con una tale crescita guidata
delle esportazioni, la Cina riuscì a portare avanti le Quattro Modernizzazioni, grazie a
consistenti fondi stranieri, al mercato, a tecnologie innovative e ad esperienze
manageriali, che accelerarono il suo sviluppo economico.
Deng Xiaoping attirò compagnie straniere in una serie di Zone Economiche Speciali,
dove erano incoraggiati gli investimenti stranieri e la liberalizzazione del mercato.
Le riforme si concentrarono anche sul miglioramento della produttività. Vennero
introdotti nuovi concreti incentivi e sistemi di bonus. I mercati rurali, che vendevano i
prodotti nazionali dei contadini e i prodotti in eccedenza delle comuni, conobbero una
rinascita. Non solo i mercati rurali incrementarono la produzione agricola ma
stimolarono anche lo sviluppo industriale. Con contadini in grado di vendere i loro
raccolti agricoli in eccedenza sul libero mercato, i consumi domestici aumentarono e
stimolarono l'industrializzazione.
Le spinte riformiste di Deng Xiaoping si fecero sentire anche durante gli anni novanta,
dopo che, nel 1992, si era ritirato a vita privata.
Nel biennio 1995-1996 parte la quarta fase riformatrice, con la decisione della 5
a
sessione plenaria del XIV Comitato centrale del Partito Comunista Cinese, che stabilì la
necessità di due fondamentali trasformazioni socio-economiche: completare la
trasformazione dell’economia socialista di mercato, funzionante con regole di libero
mercato e trasformare lo sviluppo economico da estensivo a intensivo. Quest’ultimo
concetto significa anche puntare implicitamente allo sviluppo sostenibile, o almeno
ispirarsi idealmente a questo traguardo.
1.1.2 La crisi economica asiatica del 1997
Se la Cina aveva dato inizio a una serie di riforme a partire dai tardi anni settanta ed era
cresciuta per due decenni a un tasso costante annuo superiore al 9 %, a loro volta altre
economie dell’area asiatica avevano portato avanti delle politiche economico-sociali che
avevano prodotto un netto miglioramento delle condizioni di vita all’interno dei Paesi.
L’area dell’Est Asiatico era cresciuta più velocemente di qualsiasi altra economia
mondiale, abbattendo drasticamente il proprio tasso di povertà ed alzando il reddito
medio pro capite. L'economia poggiava su solide basi, frutto di politiche governative
12
orientate su un forte risparmio e sulla scelta di investimenti oculati in ambito nazionale.
Le oscillazioni della congiuntura mondiale furono ben sopportate dalle economie
orientali dando origine a quello che fu definito come il "miracolo asiatico". La regione
asiatica poté inoltre riqualificarsi sul piano turistico ed industriale, grazie soprattutto ad
un ammodernamento delle vie di comunicazione e dei sistemi di trasporto. Come
osservato dall'economista americano Joseph Stiglitz fu inoltre determinante, per il
fiorente sviluppo, la capacità di redistribuzione della ricchezza accumulata, che aveva
migliorato le condizioni di vita di decine di milioni di abitanti senza trascurare obiettivi
di macrostabilità internazionale.
[3]
Ad esempio la Corea del Sud aveva incrementato di otto volte il reddito pro capite in tre
decenni. Tutto ciò aveva favorito la riduzione dell'analfabetismo e la riduzione del gap
tecnologico con le principali economie mondiali.
Nel luglio del 1997 scoppiò in Thailandia, per poi espandersi in tutta la regione, una
crisi finanziaria, che nacque da speculazioni finanziarie le quali provocarono una forte
svalutazione della moneta. La crisi provocò un ritiro dei capitali da parte degli
investitori stranieri e delle banche, generando un forte indebitamento delle aziende ed
una forte recessione economica.
Secondo l’economista Joseph Stiglitz l’intervento del Fondo Monetario Internazionale
ha contribuito ad aggravare la crisi: “Io ritengo che la liberalizzazione dei movimenti di
capitali sia stato il fattore che ha contribuito maggiormente alla crisi.”
[4]
L’operato del FMI è stato ampiamente criticato sia prima che durante la crisi asiatica;
Stiglitz lo accusa di aver inutilmente esposto economie con alti tassi di risparmio alla
volatilità dei capitali esteri e di aver versato ingenti somme nelle casse dei paesi in
difficoltà con l'unico scopo di rimborsare le banche creditrici occidentali e causando
ulteriori danni alle economie già in difficoltà.
È opinione dell'economista americano che le istituzioni internazionali non vedessero di
buon occhio le ingerenze dei governi orientali, che avevano dato il via a sviluppi così
floridi in aperto contrasto con le politiche liberali occidentali. A fronte di una richiesta
di rapida liberalizzazione del mercato finanziario e dei capitali, i governi asiatici
aveva
[3]
Stiglitz J.E., La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, p.23
[4]
Stiglitz J.E., La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, p.147
13
avevano preferito intraprendere un passaggio graduale; alle privatizzazioni del modello
americano avevano risposto sovvenzionando le imprese strategiche per l'interesse del
Paese.
In definitiva, mentre i governi Asiatici si preoccupavano di plasmare e dirigere i
mercati, il FMI avrebbe preferito un ruolo da comparsa per quest'ultimi, promuovendo
un’ulteriore liberalizzazione del mercato dei capitali senza valutarne le conseguenze
economiche. Proprio le “riforme strutturali” richieste dal FMI come condizione
indispensabile per il versamento di capitali d'aiuto, avrebbero avuto lo scopo di
avvantaggiare le speculazioni dei creditori esteri, causando ulteriori danni a economie
già in forte recessione.
Stiglitz avvalora le sue tesi prendendo ad esempio il caso malesiano, Paese che ha
saputo reagire prontamente alla crisi ignorando i dettami del FMI, abbattendo i tassi di
interesse e limitando il deflusso dei capitali speculativi, secondo le politiche imposte dal
Primo Ministro Mahathir.
In tutto questo scenario la Cina riuscì a superare la crisi senza subire gravi conseguenze
a differenza degli altri stati dell’area.
Un indicatore di stabilità dell’economia cinese in questo periodo è il tasso di crescita del
PIL nel 1998: 7,8. Un altro segnale di resistenza fu la solidità della valuta cinese, il
Renminbi, grazie al possesso da parte della Banca Centrale di un’ingente quantità di
riserva straniera (149 mld $ alla fine del 1998); in questo modo il Renminbi riuscì a
rimanere stabile nei confronti del Dollaro e a prevenire speculazioni monetarie.
Le riserve di moneta non solo evitarono il crollo del valore della valuta, ma permisero
anche di far fronte a un debito estero che raggiungeva i 130 miliardi di dollari.
Sempre in piena crisi, ancora nel 1998, la bilancia commerciale cinese era in surplus di
44 miliardi di dollari, con le esportazioni che crescevano del 3% annuo.
[5]
Tutti i dati sopraccitati concorrono a descrivere un quadro macroeconomico, per la fase
storica, che era sostanzialmente in buona salute.
Certamente non mancavano elementi di debolezza dell’apparato complessivo, come, ad
esempio
[5]
Fernald J. G., Babson O. D., Why has China survived the Asian Crisis so well? What risks remain?, Federal Reserve, 1999,
International Finance Discussion Paper n. 633
14
esempio, la mancanza di un sistema bancario e finanziario regolamentato e sviluppato,
argomento che verrà approfondito in seguito.
Per ora si può dire che la R.P.C. aveva la necessità di una transizione verso un sistema
bancario di orientamento commerciale, passaggio chiaramente importante per potere
sostenere una crescita elevata. Al tempo stesso, come si vide negli altri paesi asiatici in
via di sviluppo, il processo di liberalizzazione avrebbe potuto portare a una profonda
crisi finanziaria.
Nel caso della Cina, i pericoli di una liberalizzazione parziale furono in gran parte
limitati dalla presenza di istituzioni finanziarie non bancarie.
Gli ITIC rimanevano separati dal resto del settore finanziario. Il governo impose che le
banche cinesi restassero sottoposte a restrizioni sostanziali nelle loro attività e non
pienamente soggette alla disciplina del mercato. Per esempio, i controlli sui flussi di
capitale impedirono che le istituzioni finanziarie comprassero eccessivi titoli di debito
esteri. Sul fronte interno, le banche poterono continuare ad operare anche con
patrimonio netto negativo, grazie alla garanzia implicita sui depositi da parte del
governo. Come risultato, queste e la Cina stessa, rimasero meno vulnerabili al collasso
finanziario.
L’economista Barry Eichengreen osserva un esempio più estremo: “Il sistema
finanziario della Corea del Nord restò immune dalla crisi perché soggetto a controlli
draconiani.”
[6]
Eichengreen prosegue spiegando che: “Proprio come un laccio emostatico su un
braccio sanguinante non è un sostituto per cura medica adeguata. I controlli, che
contribuirono alla stabilità della Cina, hanno costi gravi. In primo luogo, i controlli
sono spesso incapaci di ritenere: un laccio emostatico può rallentare il flusso di sangue
da una ferita, ma se non è abbastanza stretto o se la ferita è grave, si sanguina di morte
lenta. Allo stesso modo, i controlli possono avere evitato la crisi finanziaria, ma c’è
sempre il modo per aggirare le regole. In secondo luogo, i controlli possono avere
lavorato troppo bene. Se ti giri il laccio troppo stretto il braccio alla fine morirà.”
[6]
[6]
Eichengreen B., Growth, Reform, and the Effects of the Asian Crisis on China, The Business China Review,
http://www.chinabusinessreview.com/public/9909/fernald.html
15
La Corea del Nord può essere sopravvissuta alla crisi asiatica, ma i controlli che il
governo impone da più di sessant’anni hanno fatto sprofondare il Paese in una estrema
povertà.
Fortunatamente, come già spiegato in precedenza, i fondamenti dell’economia cinese
(basso rapporto debito estero-PIL, grandi riserve di valuta straniera, avanzo in conto
corrente, consistenti flussi in entrata di FDI) hanno concorso con i controlli governativi
a limitare gli effetti negativi della crisi.
1.1.3 L’ingresso nella WTO
Superata brillantemente la crisi del ’97, la Cina continuò a crescere anche negli anni
successivi e per dare un’ulteriore spinta alla propria economia il governo decise di
chiedere l’ammissione all’Organizzazione Mondiale per il Commercio.
L’accesso alla WTO avvenne l’11 dicembre 2001, a Doha, Qatar, attraverso l’invito
formale dei 142 ministri dei Paesi allora aderenti. Quell’avvenimento, che allora fu
considerato storico, provocò reazioni di stupore, euforia e paura in tutto il mondo.
Timori per l’entrata nel commercio mondiale da parte della Cina erano già stati espressi
anche prima dell’effettiva decisione, tanto che negli anni precedenti gli studi effettuati
favorirono un’industria a parte riguardante libri, rapporti, seminari e organizzazioni di
conferenze sul tema.
Per capire il motivo dell’apprensione del resto del mondo per quelli che sarebbero stati
gli effetti dell’ammissione, bisogna specificare che fu la stessa WTO a premere per una
doverosa entrata della Cina.
La grande capacità cinese di esportare a basso costo sia prodotti manifatturieri ad
elevata componente lavoratrice, sia prodotti ad alto contenuto tecnologico, fece
muovere la stessa organizzazione nella direzione dell’ammissione.
Certamente avere l’economia cinese così a stretto contatto con quelle mondiali, avrebbe
significato avere la certezza che si sarebbero verificate perdite di posti di lavori nei
mercati avanzati; la WTO, tuttavia, ritenne questo un sacrificio sopportabile, pur di
riuscire a gestire, con gli accordi vincolanti che regolano l’organizzazione, un’economia
in crescita esponenziale ormai da decenni.
16
L’accesso della Cina alla WTO costituì un passo fondamentale per lo sviluppo dei
rapporti commerciali tra le aree. Significò inoltre per lo stesso gigante asiatico dovere
rispettare tutti gli accordi sanciti per evitare che i membri si danneggiassero a vicenda.
In particolare si possono ricordare episodi di concorrenza sleale come il furto di
proprietà intellettuale, eccessivi sussidi agli esportatori e il dumping.
I vantaggi di questo avvenimento sono evidenti sia per la Cina, che per il resto del
mondo. Dal punto di vista cinese già nel 2002 il PIL crebbe dell’8%, gli investimenti
stranieri del 21%. Sempre nello stesso anno le esportazioni aumentarono del 12%,
raggiungendo nel solo mese di aprile i 26,73 mld $, a fronte delle importazioni che in
quel periodo arrivarono a 25,75 mld $.
[7]
Questi dati confermano che l’apertura di un
mercato genera, almeno nel breve periodo, effetti estremamente positivi.
Per quanto riguarda il mondo occidentale, in particolar modo per l’Italia, si può dire che
la Cina rappresentava all’epoca un mercato di 1,3 miliardi di persone censite, 700
milioni di lavoratori e un interscambio globale di 500 miliardi di dollari.
Le imprese straniere avrebbero dunque dovuto sfruttare le innumerevoli occasioni
fornite da un ambiente commerciale così vasto e dalle potenzialità infinite.
Il mondo decise dunque di aprirsi alla Cina per ottenere quei vantaggi che già nel corso
dei decenni precedenti aveva potuto conoscere. Negli anni novanta la Cina era stata
meta di ingenti flussi di investimento diretti all’estero. In un periodo in cui non c’era
ancora una liberalizzazione regolamentata dei commerci, questa soluzione appariva la
migliore, per ricavare i vantaggi che il sistema delle Zone Economiche Speciali
(introdotte con le riforme degli anni ’80) offriva. In particolar modo gli Stati Uniti, nel
periodo 1990-98 in cui triplicarono l’export verso la Cina, le vendite effettuate da
aziende a partecipazione americana basate in Cina aumentarono di 21 volte il loro
fatturato.
Riprendendo il concetto che prevedeva la volontà, da parte della WTO, di proteggersi
dalla crescita deregolamentata della Cina e sfruttare i suoi punti di forza, si può
osservare ora come la Cina stessa abbia dovuto adottare delle misure per potere essere
annessa all’organizzazione.
[7]
Dati Ministero del Commercio Estero e della Cooperazione Economica Cinese
17
In primo luogo si dovettero abbattere le tariffe doganali dal 15 al 10% e vennero create
zone a tariffa zero.
Tutti i settori dell’economia, agricoltura, industria e servizi, vennero fatti oggetto di
politiche che andassero a liberalizzare. Inoltre venne specificato in clausole speciali che,
in circostanze particolari, i Paesi importatori di beni cinesi avrebbero potuto utilizzare
più facilmente strumenti di difesa commerciale.
Studi particolari avevano previsto che con l’entrata cinese nella WTO, la Cina avrebbe
particolarmente guadagnato nel settore tessile. Le previsioni stabilivano un aumento del
130% delle esportazioni. A causa di ciò paesi, come Bangladesh, Pakistan e Sri Lanka
sarebbero stati duramente colpiti.
Per questa ragione si decise di estromettere fino al 2008 la Cina dall’ATC (Accordo sul
Tessile e Abbigliamento). Soluzione che si rivelò efficace e limitò gli effetti negativi sul
resto del mondo.
Un’ulteriore provvedimento fu preso per combattere il fenomeno del dumping. Per
evitare che i prodotti cinesi a un costo troppo basso andassero a stravolgere la
concorrenza interna, venne permesso a ogni Paese membro, qualora si fosse sentito
minacciato, di usare come riferimento il prezzo di un bene simile di un paese terzo,
naturalmente prodotto a costi maggiori.
Accordi restrittivi furono imposti anche alle politiche che andavano a supportare le
esportazioni con sussidi statali.
I timori precedenti all’entrata nella WTO potevano essere fondati, ma vennero adottate
le misure necessarie per far sì che la Cina non provocasse uno shock globale.
1.1.4 La crisi economica del 2008 e la ripresa
L’ingresso nella WTO ha portato un vantaggio enorme alla R.P.C. Come possiamo
vedere dai dati durante i periodi 2003-04, 2004-5, 2005-06 e 2006-07, il PIL è cresciuto
rispettivamente del 16%, 9%, 10,3% e 10,2%.
La crisi economica che ha avuto il suo inizio tra 2007 e 2008 rischiava di mettere in
serio pericolo l’economia cinese. La Cina aveva accumulato negli anni una quantità
ingente di titoli stranieri, tra i quali numerosi titoli sub-prime provenienti dagli USA. Un
altro fattore che avrebbe potuto portare instabilità era la forte dipendenza dalle