INTRODUZIONE
La Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’Unione europea si presenta oggi con
una forza impattante non comparabile sugli assetti di ieri, e comunque è avvertita
come un’esigenza ineludibile a fronte dell’instabilità che regna in varie aree del
mondo. In relazione alle quali l’Unione europea sente - e in qualche misura è arrivata
a pensare di avere - l’obbligo politico e morale di porsi come un artefice efficace di
sicurezza. Anche di quella altrui quale misura diretta della propria. Gli iniziali
strumenti in materia di Politica Estera e di Sicurezza Comune, e in subordine di
Difesa e Sicurezza collettiva, predisposti dapprima dal Trattato di Maastricht, meglio
definiti poi dal Trattato di Amsterdam, da quello di Nizza del 2000 ed infine ancor
più decisamente profilati nel Trattato per una Costituzione europea di Roma
dell’ottobre 2004 - la cui fase di ratifica da parte dei 25 paesi membri richiederà non
meno di due anni di paziente attesa - sono stati concepiti allo scopo di consentire
all’Unione di poter tutelare i suoi interessi fondamentali, la propria indipendenza, i
valori comuni sui quali ha eretto la sua sfida politica e civile nei confronti della sua
storia più recente.
Non è solo per destino geografico, o per meglio dire geopolitico, la ragione per cui la
sicurezza europea rimane una questione ancora oggi centrale nel contesto politico
internazionale. Con una differenza fondamentale però: che ieri l’Europa lo era in
quanto soggetto passivo, sede prima di quei fattori di instabilità di cui avrebbe potuto
esserne anche la sola e unica vittima designata nel confronto bipolare. E può apparire
persino paradossale, come lo possono essere soltanto gli scherzi della storia, che
proprio oggi che l’Europa si propone al mondo come modello di stabilità e di una
convivenza pacifica ormai raggiunta, la stessa Europa - o almeno quell’ampia parte
che si riconosce nei principi fondanti dell’Unione europea - non tanto debba, voglia e
abbia anche l’autorevolezza per pensare di assumere un proprio profilo in politica
estera, ma che possa essere anche arrivata a contemplare l’impiego autonomo della
forza militare, se e qualora la strada seguita dagli Stati Uniti, la superpotenza
superstite e colonna militare all’interno della NATO, portasse a destinazioni non
politicamente compatibili e condivisibili col multilateralismo perseguito su scala
europea.
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Peraltro il momento di pensare alla propria sicurezza per l’Unione europea è
diventato un tema pressante, se non il tema politico per eccellenza, anche per la
complicazione che crisi politiche e squilibri regionali, e l’emergere della nuova
emergenza del terrorismo internazionale, hanno prodotto nel volgere di pochi anni, in
un intreccio che chiama in causa la sicurezza interna ed esterna, obiettivi militari con
altri politici, attività di prevenzione con quella di gestione delle crisi. Un contesto
che, appunto, la fine della major treath della guerra fredda ha contribuito ad
alimentare.
Non a caso la traiettoria evolutiva della Politica Estera e di Sicurezza Comune trova
il suo punto iniziale nel crollo del muro di Berlino nel 1989 che ha rappresentato lo
spartiacque cruciale per la cooperazione fra paesi europei nelle delicate questioni
della politica estera, di sicurezza e di difesa. Nel corso della guerra fredda i membri
della Comunità europea avevano tentato diverse formule di collaborazione in queste
materie, senza però andare oltre l’esperienza della Cooperazione Politica Europea,
istituita negli anni settanta, ossia non superando la pura fase della concertazione di
posizioni comuni in politica estera e, talvolta, di azioni comuni svolte ricorrendo
prevalentemente agli strumenti della pressione politica che ogni paese poteva
esercitare singolarmente o in un quadro di intese specifiche con gli altri, e delle
sanzioni economiche che l’allora Comunità europea nel suo insieme, quale
importante realtà economica, poteva rappresentare. Per quanto caratterizzato da un
crescente livello di istituzionalizzazione, il confronto reciproco che i paesi europei
hanno articolato con la Cooperazione Politica Europea non si è tradotto nella
costruzione di organi per la decisione e attuazione di una politica estera comune, né
nella creazione di comuni forze militari da porre al servizio di tale politica. Dopo il
1989 tuttavia i paesi europei hanno compiuto diversi e significativi passi in questa
direzione, mossi in questo anche dall’impotenza manifestata durante la crisi dei
Balcani che portò alla disgregazione dell’ex Jugoslavia.
Nel dicembre 1999 a Helsinki è stato istituto l’Alto Rappresentante per la Pesc nella
figura di Javier Solana, già ex segretario generale della NATO e già designato
prossimo ministro degli Esteri dell’Unione. Nel novembre 2000 si è deciso di
trasferire all’Unione europea le funzioni dell’UEO in materia di gestione militare
delle crisi, creando di conseguenza alcuni nuovi organi dell’Unione come il Comitato
politico e di sicurezza, il Comitato militare e lo Staff militare.
Inoltre, i paesi europei hanno costruito forze militari comuni che difficilmente
possono essere viste come un mero rafforzamento del pilastro europeo della NATO e
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hanno deciso di avviare la costruzione di un nucleo di comando esterno alla stessa
NATO. E’ quindi possibile in linea teorica, anche se non probabile dal punto di vista
fattivo - dati i problemi di gestione decisionale e di strumenti di cui l’Europa ancora
difetta: basti pensare alla sola questione delle risorse destinate agli armamenti e al
gap con l’apparato industrial-militare e operativo degli americani - che la sicurezza
europea e quella degli Stati Uniti tendano progressivamente a divaricarsi, quasi a
suggellare le opposte visioni in tema di politica internazionale che recentemente
hanno diviso Europa e Usa, mettendo in crisi le relazioni transatlantiche.
Il rischio di una divergenza fra le politiche dei due alleati è forse più reale oggi di
ieri, ma non sembra riguardare come in passato tanto la NATO e il suo ruolo, quanto
piuttosto, come la guerra in Iraq ha ampiamente dimostrato, il Consiglio di Sicurezza
dell’ONU.
Organizzazione che per l’Europa del “multilateralismo efficace” rimane la sede
primaria di intermediazione delle dispute per avere un mondo ordinato, mentre
all’opposto Washington, che con l’ultima amministrazione Bush ha rispolverato con
decisione la via delle intese bilaterali che si traducono nelle coalizioni dei
volenterosi, per fatti concludenti stenta a riconoscergli appieno tale ruolo, pur avendo
proclamato proprio recentemente nel suo primo viaggio in Europa la fiducia in un
approccio multilaterale.
Se i paesi europei sembrano avviati verso lo sviluppo di una politica di sicurezza
autonoma, oltrepassando in qualche modo l’interpretazione - minore solo forse
terminologicamente - di Europa come “potenza civile”, molte ambiguità però
rimangono ancora del tutto irrisolte. Se la Politica Estera e di Sicurezza Comune con
i suoi organi, i suoi fini e i suoi mezzi, deve essere valutata in base alla sua capacità
di consentire all’Unione europea di rispondere efficacemente alle sfide del sistema
internazionale, non si vede infatti come allo stato attuale si possa trascendere da una
solida collaborazione con gli Usa per il tramite del tradizionale quadro NATO,
impegnata essa stessa a perseguire parallelamente una politica di allargamento per
costruire una comunità di sicurezza.
Vero è che le sfide che il sistema internazionale contemporaneo pone ai paesi
occidentali sono molto diverse rispetto al passato. Alla minaccia monolitica
dell’impero sovietico, che durante la guerra fredda dominava la percezione di
sicurezza dei paesi occidentali facendo dell’Europa il centro strategico del sistema
internazionale, si sono sostituite minacce molto differenti per la loro natura e per lo
spazio geopolitico che hanno coinvolto o andavano a occupare: i rischi connessi
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all’instabilità in molte aree del mondo, come nei Balcani, nel bacino del
Mediterraneo o in Africa; gli interrogativi circa l’evoluzione politica della Russia e
della Cina; la competizione regionale in Medio Oriente o in Asia; la diffusione delle
armi di distruzione di massa; l’insorgere di nuove forme di terrorismo internazionale;
i danni prodotti dalla criminalità organizzata su scala internazionale e quelli indotti
dalle emergenze energetiche, ecologiche e demografiche. Di fronte al crescere delle
funzioni da svolgere e al rischio che gli organismi dell’Unione europea non possano
adeguatamente funzionare in un’Europa a 25, e prossimamente a 27 o più, è quasi
naturale che le grandi potenze dell’Unione europea, che storicamente proprio
facendo coincidere le loro volontà politiche hanno portato ai più interessanti e
fruttuosi slanci in avanti dell’Unione, cercassero e cerchino tuttora di costruire le
migliori condizioni che permettano un’efficace politica di sicurezza. Su questo però
s’innesta il sospetto, quand’anche non il timore, verso soluzioni sopranazionali in
materie tanto delicate che richiedono la cessione di spazi e prerogative di sovranità.
Soluzioni che possono diventare ancora più difficili da trovare e armonizzare in una
comunità che, a tratti preferendo allargarsi rapidamente a più paesi piuttosto che
consolidare ed approfondire il processo di integrazione e di conoscenza reciproca fra
quelli che già ne fanno parte, fornisce il destro a quanti vedono proprio nella
crescente disomogeneità dell’Europa il sorgere di ostacoli sulla via della ricerca di
efficaci soluzioni politiche collettive. In questa ottica il meccanismo delle
cooperazioni rafforzate o strutturate, che permetterebbe ai paesi più vicini in termini
di visione politica e idem sentire di procedere su alcune questioni a un livello più
approfondito di cooperazione, sembra offrire quella flessibilità necessaria per margini
di manovra costruttivi.
Non va nemmeno sottaciuto che parallelamente al rafforzamento della Politica Estera
e di Sicurezza Comune, se non altro sul piano degli obiettivi e dei maggiori strumenti
di cui intende dotarsi, si stia rianimando con forza l’antico dibattito sul problema del
deficit democratico delle istituzioni europee, che nelle questioni di politica estera,
sicurezza e difesa si pone forse in modo ancora più netto per i ridotti poteri che
l’architettura istituzionale dell’Unione ha da sempre assegnato al Parlamento europeo
in queste materie. E che il nuovo Trattato costituzionale non risolve alla radice, non
delineando con piena e certa chiarezza quali saranno i poteri del Parlamento Europeo
nei confronti del futuro Ministro degli Esteri europeo, che per maggiore coerenza e
continuità politica acquisirà anche la veste di Vicepresidente della Commissione
arrivando, nel disegno complessivo, a inglobare anche le Relazioni esterne
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dell’Unione, la leva “civile” e potente delle sanzioni economiche e degli aiuti
umanitari dell’Unione che esprime un quarto dell’intero prodotto interno lordo
mondiale, oltre la metà dei fondi per l’aiuto internazionale allo sviluppo, oltre il 50%
dell’aiuto umanitario mondiale, oltre il 60% per la Russia e le repubbliche dell’ex
Unione Sovietica, nonché il 40% di tutto lo sforzo ricostruttivo in Bosnia–
Erzegovina.
Il Parlamento, nel sistema attuale, viene informato e consultato e controlla le spese
relative alla Pesc che ricadono sul budget dell’Unione, ma non quelle relative a
missioni o operazioni che hanno implicazioni militari o che i paesi membri decidono
di finanziare in altri modi. Cosicché i principali poteri del Parlamento in materia
continuano a fondarsi sulla sua capacità di intervento in sede di bilancio, che però
diverrebbe uno strumento più utile solo nell’ipotesi di una progressiva
comunitarizzazione della Pesc, un passo per ora giudicato troppo audace da tutti i
paesi membri. Peraltro un più forte ruolo del Parlamento Europeo nella Pesc
potrebbe condurre ad effetti di segno opposto. Da un lato, la legittimazione
parlamentare potrebbe rendere più macchinosa la Pesc. Dall’altro potrebbe essere
utilizzata dai governi per sottrarsi all’influenza dei partiti e gruppi di pressione che
agiscono a livello nazionale, anche se rimane possibile che i rappresentanti eletti in
Europa potrebbero sempre limitarsi a riprodurre le logiche politiche nazionali.
Tuttavia, essi potrebbero anche sempre più abbracciare una prospettiva comune sulle
necessità di fondo della sicurezza europea e in questo caso, la legittimazione della
Pesc da parte del Parlamento Europeo potrebbe addirittura renderne meno difficile la
conduzione da parte di un’Europa che riesca a parlare davvero con una voce sola e da
un unico numero di telefono come chiedeva Kissinger. Se si considera infatti la Pesc
anche in rapporto alle più ampie relazioni esterne dell’Unione, i poteri del
Parlamento europeo sono aumentati, poiché la procedura di co-decisione è stata
estesa a nuove materie ricomprese nelle relazioni esterne dell’Unione. Per molti
osservatori però il Parlamento rimane ancora una sede troppo condizionabile
dall’opinione pubblica, per cui la scelta di mantenere la Pesc e con essa il delicato
tema della collocazione internazionale dell’Europa in un assetto prevalentemente
intergovernativo, come l’ultimo Trattato di Roma ribadisce nelle sue pieghe, non è
una scelta di retroguardia, ma risponde alla precisa scelta di procedere ancora una
volta per gradi come l’Unione ha sempre fatto.
Fermo restando che l’Unione Europea si presenta come un cantiere aperto, fatto di
tante possibili ipotesi di lavoro rispetto alle quali le volontà politiche degli stati
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membri continuano a pesare enormemente, a maggior ragione in materie dove sono
in gioco ampi pezzi di della loro sovranità nazionale, non si può non tener conto che
l’Europa si è andata costruendo politicamente in un periodo nel quale la questione
della sua sicurezza non solo non era nelle sue mani, ma è sempre stata oggetto di
contrattazione da parte americana in base alle sue dottrine strategiche che
rispondevano alla volontà di condurre i giochi al tavolo del confronto est-ovest. Oggi
che l’opzione militare appare non estinta, ma solo diversa nelle sue forme, più
rapida, più snella, più mobile, più da rischio potenziale che da minaccia stabile,
l’Europa legittimamente aspira a occupare un ruolo politico globale che faccia da
contraltare a quello economico che già riveste. La questione cui l’Europa sta
cercando di dare una risposta, pur nelle sue mille contraddizioni, è sostanzialmente
come riuscire a condizionare – ancora, e dopo che la minaccia comunista, ragione e
fine dell’impegno americano in Europa, è scomparsa - gli Stati Uniti. E se è possibile
farlo solo con i mezzi della politica, o anche cercando di controbilanciarli in tutto,
anche sul piano militare.
E’ ancora una volta una decisione politica quella che aspetta al varco l’Europa in
questo nuovo contesto fatto di instabilità, in parte già accertata, in parte ancora tutta
potenziale. Non a caso uno dei punti che è emerso con maggior chiarezza lungo tutto
il dibattito politico e i lavori della Convenzione che hanno portato alla nascita del
Trattato per una Costituzione europea firmato a Roma lo scorso ottobre, è la necessità
di avere sempre "più Europa" nelle relazioni internazionali. Ed è da questo punto di
accordo complessivo fra gli stati membri che si dipanano le varie articolazioni sulle
modalità e i processi tramite i quali raggiungere tale ambizioso obiettivo.
Poiché fino ad oggi la politica estera dell'Unione è risultata piuttosto dal comune
denominatore che non dalla somma armonica delle politiche estere nazionali, il
carattere della Pesc è stato più spesso re-attivo che non propositivo e l'azione esterna
dell'Unione è stata piuttosto frammentata, e soltanto in casi eccezionali, è riuscita ad
essere coerente e unitaria ed a parlare con una sola voce.
L'ambizione e l'efficienza della rinvigorita Pesc, anche di quella prefigurata dal
nuovo Trattato costituzionale, non possono essere determinabili esclusivamente con
formule istituzionali - per quanto importante risulteranno l’estensione del voto a
maggioranza qualificata nel Consiglio Europeo, ad eccezione delle questioni militari
e della difesa, e l’espansione delle cooperazioni rafforzate - ma dipendono in ultima
istanza, e ancora una volta, dalla volontà politica di darle piena attuazione.
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Le prime non possono sopperire alla carenza della seconda, ma una volta che la
volontà politica si sia manifestata, occorre che le sia data la possibilità di esplicare
appieno i suoi effetti, magari con quella necessaria gradualità che ha sempre
caratterizzato i maggiori passi in avanti dell’Unione europea che spesso, proprio
partendo da iniziative non pienamente unanimi e condivise, ma all’insegna di un
attento pragmatismo e del pieno rispetto dell’equilibrio euro-atlantico, ha portato a
frutti importanti. Riconosciuti storicamente e politicamente decisivi dall’intera
comunità internazionale.
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CAPITOLO 1
IDEA E SVILUPPO DI UN’UNIONE POLITICA
1.1 Lineamenti politici della costruzione europea
La progressiva costruzione europea, iniziata nel maggio 1950 con la costituzione
della CECA e col passaggio decisivo del Trattato di Roma firmato il 25 marzo 1957,
finora è stata percepita e valutata soprattutto dal lato economico, di cui la nascita
dell’Euro ne è il simbolo primo. Ma la natura, il significato e l’impulso, anche per
arrivare alla piena integrazione economica con la moneta unica, sono sempre stati
politici, basti ricordare la frase dell’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl a proposito
della necessità dell’unione monetaria: “Ne va della pace e della guerra nel XXI
secolo”. In cinquanta anni dunque, proprio in quella parte di mondo dove lo Stato
nazionale era nato, l’Europa, si è arrivati alla creazione di istituzioni comuni dotate
di poteri sovranazionali, tramite i quali gli Stati membri hanno cominciato a
cooperare anche in aree gelosamente protette per la sovranità di ciascuno, quali la
politica estera e la difesa. Il recente Trattato che “adotta” una Costituzione europea,
firmato molto simbolicamente
1
a Roma il 29 ottobre 2004 da tutti i capi di Stato e di
governo dei 25 paesi che oggi fanno parte dell’Unione e anche dagli altri tre paesi
che ambiscono a entrarvi compresa la Turchia islamica e che riassume i valori, i
diritti, le libertà, il pluralismo dell´Occidente euroamericano, è la sintetica
espressione di una comunità politica “unica e particolare, ma costantemente in via di
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1
“L’Europa ormai dobbiamo rendercene conto è fatta di atti simbolici non meno che di realtà
tangibili, ecco perché ha la strana particolarità di essere a volte visibile a volte no”, R.
DAHRENDORF, Institute for Human Sciences, “Europa, dal Trattato alla Costituzione”, La
Repubblica 18 luglio 2004, pag. 18
realizzazione”
2
. Non sono ancora politicamente gli “Stati Uniti d’Europa”
3
che
immaginavano i padri fondatori europei (Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad
Adenauer, Alcide De Gasperi, Paul-Henry Spaak) ma sta forse procedendo anche
oltre quell’ “Europa degli Stati” cara a De Gaulle
4
, lungo il crinale di quel “principio
di sussidiarietà”
5
, in questo caso costituzionale, tipicamente federalista che nei primi
anni ottanta venne fatto proprio dal “Progetto di un nuovo trattato europeo” elaborato
su impulso di Altiero Spinelli dal primo Parlamento europeo eletto direttamente dai
cittadini.
La Cee prima e l’Unione poi sono sempre state viste e lette come un’Organizzazione
sovranazionale di Stati, molto simile alla confederazione per la messa in comune di
determinate materie, soprattutto economiche, e per la ritenzione di una rilevante
quota di sovranità da parte degli Stati. Ma se il nuovo Trattato per una Costituzione
europea verrà ratificato dai paesi membri in breve tempo, come dichiarata volontà di
tutti i firmatari
6
, si aprirà una sorta di prima e timida “via alla comunitarizzazione”
anche per temi che toccano da vicino la sovranità degli Stati - la politica estera, la
difesa, la sicurezza - in un’ottica federalista dettata dalla necessità di fronteggiare gli
eventi di un mondo che, liberato dalla morsa paralizzante del confronto bipolare,
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2
“La Costituzione europea è solo «l´ordinamento di un processo di integrazione» destinato a non
finire mai, dove la Costituzione di ciascuno degli Stati membri si integra con una Costituzione
comune, trasversale, che non ha propria autonomia se non in connessione agli ordinamenti
costituzionali degli Stati nazionali. E questi sono comprensibili solo se «letti» nella cornice di un
ordinamento costituzionale europeo. La legittimazione dell´Unione e dei suoi poteri deriva da questo
meccanismo di mutuo riconoscimento”, A. MANZELLA, La Carta dei Popoli, La Repubblica, 29
ottobre 2004, pag 20
3
Il dibattito su come arrivare a una entità sopranazionale vedeva i federalisti, guidati da Altiero
Spinelli, sostenitori di un’integrazione generale e diretta, e gli Unionisti che invece sostenevano una
forma di cooperazione più graduale tra Stati sovrani. Si affermò una terza corrente funzionalista che
conciliava le prime due, sostenendo un’integrazione graduale per settori. G. MAMMARELLA e P.
CACACE, Storia e politica dell’Unione Europea, Bari, Laterza, 2003, p. 37 ss
4
Ciò che succede per la Comunità economica europea conferma questa verità, perché sono gli Stati e
gli Stati soltanto che hanno creato questa Comunità economica. E sono gli Stati che le danno una
realtà ed un’efficienza, tanto più che non si può adottare alcuna misura economica importante senza
compiere un atto politico”, C. DE GAULLE, Conferenza stampa del 15/5/1962, in M.
BASTIANETTO e R. ZAMPILLONI, La società europea, Milano, 1966, volume V , p. 319
5
Il termine è entrato ufficialmente nell’Unione con il Trattato di Maastricht, art. 5
6
A questo proposito il Governo Italiano è stato il primo a presentarlo al proprio Parlamento, in base al
meccanismo di accoglimento dell´articolo 11 della Costituzione Italiana che vieta altresì, all´articolo
75, il referendum in materia di relazioni tra Stati. Invece nella semi-presidenziale V Repubblica
francese l’accoglimento sarà sottoposto a breve a referendum popolare.