Il ragionamento è analogo per le migliaia di isole del Pacifico, le quali occupano
prevalentemente il quadrante sud-occidentale dell’Oceano. Gli Stati indipendenti e i
territori dipendenti hanno simili caratteristiche geografiche (sono isole, per lo più
vulcaniche e di origine corallina), antropologiche (gli abitanti appartengono
prevalentemente ai gruppi etnici melanesiano e polinesiano) e climatiche (con una
differenziazione dal clima equatoriale a quello subtropicale). Inoltre, è possibile
riconoscere elementi analoghi tra le isole del Pacifico e l’Australia: le fasce climatiche
sono sostanzialmente le stesse; l’insularità e la barriera corallina sono caratteri analoghi,
anche se non è possibile, ovviamente, compararne l’estensione; gli aborigeni australiani
appartengono agli stessi gruppi etnici degli abitanti originali delle altre isole.
Riepilogando, sia l’Australia che le isole del Pacifico hanno alcuni elementi e
caratteristiche comuni tra loro, ma nette differenze con i continenti asiatico ed
americano, per cui, in definitiva, se non è possibile attribuire all’insieme Australia -
isole del Pacifico l’appellativo di continente, si può senz’altro parlare di “insieme
geografico-politico”.
Un’ultima nota introduttiva circa la posizione strategica e le relazioni internazionali:
nelle ultime pagine del suo manuale Duroselle scrive: “Il Pacifico sostituirà l’Atlantico?
Sono stati intrapresi un gran numero di progetti che, sotto forme diverse ma sempre
dimenticando di includervi l’America Latina, tenderebbero ad associare,
economicamente, le lontane sponde dell’oceano e gli arcipelaghi: la Russia, la Cina, la
Corea del sud, il Giappone ad occidente, l’Australia e la Nuova Zelanda a sud, gli Stati
Uniti ed il Canada ad oriente (con l’enorme sviluppo della California).Questa
concentrazione di potenziale economico non rischia forse di soppiantare il lungo
primato storico dell’Oceano Atlantico e, di conseguenza, di contribuire ancora una volta
al declino dell’Europa? Il Pacifico, «nuovo, Nuovo Mondo» (René Servoise), «La sfida
del Pacifico» (titolo della rivista Géostratégique): siffatte espressioni mostrano bene il
nuovo interesse che suscita l’espansione delle comunità umane legate al più grande
oceano mondiale.”
In parte è possibile convenire con Duroselle quando afferma la grande espansione
economica in atto. Oggi bisogna riconoscere che, dopo la crisi finanziarie dei Paesi del
Sud-est asiatico, noti con l’appellativo di “tigri di carta”, e la loro ripresa grazie agli
interventi internazionali, l’area del Pacifico ha grandi potenzialità, non solo
economiche: si tengano presente la recente svolta democratica dell’Indonesia, la
questione di Timor Est, i rapporti tra Cina e Taiwan e l’apertura internazionale della
Corea del Nord, solo per fare alcuni esempi. In tutte queste situazioni è evidente
l’intervento degli Stati Uniti e l’Australia vi si trova sempre coinvolta (esemplare il
comando affidatole delle operazioni ONU a Timor Est). Scopo ulteriore di questo
lavoro, oltre a presentare l’Australia al passaggio del millennio, è appunto quello di
investigare le potenzialità di questo Paese, ancora troppo chiuso in se stesso e con alcuni
difficili problemi interni da risolvere; potenzialità della presenza australiana nel campo
internazionale (grande potenza), oppure potenzialità di guida politico – economica per i
Paesi minori della sua regione (quindi, potenza regionale)?
Il continente può essere diviso in tre parti: a occidente si estende una serie di altipiani
sui 400-500 m di altezza; al centro si apre un’area di basseterre corrispondenti in gran
parte ai bacini del Murray-Darling e del Lago Eyre; infine, a est, la Grande Catena
Divisoria, formata da una serie di catene a pieghe, si allinea lungo il litorale del Pacifico
e culmina nelle Alpi Australiane, proseguendo poi in Tasmania.
Il maggior sistema fluviale è quello del Murray-Darling, che attraversa parte del
Queensland e parte del Nuovo Galles del Sud e del Victoria e sfocia nelle vicinanze di
Adelaide (Lago Alexandrina). La lunghezza del Murray è di circa 2520 km, mentre il
Darling e il Darling superiore, insieme, raggiungono i 2000 km. I fiumi della costa nord –
occidentale sono relativamente lunghi, così come i fiumi nel Territorio del Nord e quelli
del versante del Golfo di Carpentaria. I fiumi della Tasmania hanno corso breve e rapido.
La disponibilità di risorse idriche determina, su larga scala, la possibilità e la densità
di insediamenti umani, i quali, a loro volta, influenzano la qualità delle acque attraverso
la produzione e la eliminazione dei rifiuti. I primi insediamenti furono sulle coste, dove
la presenza di acque da utilizzare era maggiore; con la penetrazione degli insediamenti
nell’interno, fu necessario trovare nuove fonti di approvvigionamento idrico; alcune di
queste ricerche portarono alla scoperta e all’utilizzo del Grande Bacino Artesiano. Lo
sviluppo umano ha causato, tuttavia, un serio degrado ambientale e il deterioramento
della qualità delle acque.
L’Australia, alla quale viene dato l’appellativo di “continente secco” presenta una
vasta scala di zone climatiche, dalle regioni tropicali del nord, attraverso le vaste aree
aride interne, alle regioni temperate del sud. La massa continentale è relativamente arida,
con precipitazioni inferiori ai 600 mm annui (80% del territorio) e inferiori a 300 mm
annui (50%). Le temperature medie annue possono avere massime che raggiungono i
50°C e minime che scendono sotto lo zero.
L’ambiente deve essere inteso come un’immensa rete in cui una tensione in una
maglia o un punto debole in un’altra hanno effetti più o meno gravi su altri punti e su
altre maglie, anche relativamente distanti; tensioni e punti deboli nell’ambiente
australiano ce ne sono molti, forse troppi, tanto che bisogna correre ai ripari prima che
sia troppo tardi e molte peculiarità ambientali vadano perse o distrutte definitivamente.
L’Australia in soli duecento anni ha rovinato il suo ambiente più di quanto l’Europa
abbia rovinato il proprio in più di duemila. E’ assai significativo che la maggior parte
degli istituti di geografia australiani siano divenuti istituti di geografia e scienza
dell’ambiente.
Un esempio della distruzione ambientale in Australia può essere il seguente: su
milioni di ettari, anche in zone aride, crescevano alberi dal legno durissimo. Vicino agli
alberi l’erba cresceva stentata, quindi furono tagliati per farne paletti da reticolati (per
contenere le pecore) e per far crescere l’erba. Si sapeva da un secolo che gli alberi
pompavano l’acqua dal sottosuolo, resa salmastra dai minerali in soluzione, ma nessuno
prendeva la cosa sul serio. L’acqua poco a poco salì in superficie e i potenti raggi solari
fecero il resto: l’acqua evaporò, il sale rimase ed ora si parla di milioni di ettari di
terreno resi inutilizzabili.
Il popolamento del continente australiano può essere fatto risalire tra i 60.000 e i
40.000 anni fa ad opera delle popolazioni del Sud-est asiatico. Le prime esplorazioni da
parte degli europei, tuttavia, risalgono al XVIII secolo.
La prima flotta – comprendente due navi da guerra, sei da trasporto, con 759
deportati, e tre piene di animali, sementi e viveri per due anni – arrivò nella Botany Bay
nell’estate del 1788 agli ordini del capitano Arthur Phillip. Le autorità britanniche
presero possesso del Nuovo Galles del Sud secondo la dottrina, derivata dal diritto
internazionale, che quella era terra nullius, cioè appartenente a nessuno. Contrariamente
alle proprie aspettative, basate sui resoconti di Cook, Phillip e i suoi ufficiali furono
sorpresi dal numero degli aborigeni presenti intorno alla colonia. Ben presto scoprirono
che queste persone avevano un’organizzazione sociale, vivevano in località stabili,
possedevano leggi consuetudinarie e diritti di proprietà. La rivendicazione di sovranità e
di proprietà sulla base della terra nullius era, dunque, manifestamente basata
sull’erronea interpretazione di quanto osservato e riferito da Cook nelle sue prime
esplorazioni nel 1770. Ciò non impedì, tuttavia, a Phillip di issare l’Union Jack nel 1788
e di espropriare i proprietari della baia di Sydney.
All’inizio del XIX secolo i rudimenti di una presenza permanente erano evidenti. I
5.000 residenti britannici del Nuovo Galles del Sud erano equamente divisi tra Sydney e
l’interno (con un migliaio sull’isola di Norfolk), rivelando un’equa distribuzione tra le
attività mercantili e quelle agricole. La colonia stava raggiungendo l’autosufficienza
alimentare e la rapida crescita delle imprese locali sosteneva uno standard di vita
almeno comparabile con quello della madre patria.
All’inizio del XIX secolo i rudimenti di una presenza permanente erano evidenti. I
5.000 residenti britannici del Nuovo Galles del Sud erano equamente divisi tra Sydney e
l’interno (con un migliaio sull’isola di Norfolk), rivelando un’equa distribuzione tra le
attività mercantili e quelle agricole. La colonia stava raggiungendo l’autosufficienza
alimentare e la rapida crescita delle imprese locali sosteneva uno standard di vita
almeno comparabile con quello della madre patria.
L’Ottocento fu il secolo della prima costruzione nazionale. I principali fatti e
accadimenti furono: l’inizio del genocidio culturale contro gli aborigeni (1816); la
trasformazione da colonia penale in colonia di popolamento (anni Venti); l’esplorazione
di tutto il territorio australiano e il popolamento di una parte di questo; la fondazione di
nuove colonie, ciascuna amministrata da un governatore. Nella seconda metà del secolo
gli avvenimenti principali furono: la corsa all’oro, iniziata nel 1851; la concessione alle
colonie dell’autogoverno (tra il 1855 e il 1859), l’emanazione dei Selection Acts, circa il
possesso e la coltivazione della terra; i festeggiamenti del centenario dello sbarco dei
primi europei (1888); le prime ondate di scioperi nei settori agricolo, minerario e
portuale, che portarono, in pochi anni, all’affermazione del Partito Laburista
Australiano.
Il XX secolo iniziò con la proclamazione del Commonwealth australiano e l’entrata
in vigore della nuova costituzione (1901). Nello stesso anno venne emanato
l’Immigration Restriction Act, un atto legislativo con il quale veniva inaugurata la
politica dell’Australia Bianca, basata sulla superiorità della razza bianca e anglosassone
sulle altre presenti in Australia, prima tra tutte quella aborigena. Nel primo decennio del
secolo l’Australia riuscì a superare le grandi difficoltà che segnarono la fine
dell’Ottocento. Il giovanissimo Stato federale riuscì a portare benessere, a diffondere
pace sociale e prosperità. Tutto ciò alla vigilia di una guerra che sconvolse gli equilibri
mondiali e alla quale l’Australia partecipò con corpi di spedizione volontari (ANZAC).
Nel periodo tra le due guerre mondiali l’Australia è interessata da molti cambiamenti.
La crescita delle città e l’aumento della disoccupazione, sul versante interno; la
trasformazione dell’Impero britannico in Commonwealth e il crescente debito estero,
sul versante esterno. Gli anni Trenta segnano la ripresa dell’economia, ma il debito
estero e la disoccupazione rimangono a livelli molto elevati. La seconda guerra
mondiale, infine, rappresenta la rottura sostanziale dei rapporti esclusivi con la Gran
Bretagna e il passaggio dell’Australia nell’area di influenza degli Stati Uniti.
Dagli anni Quaranta alla fine del secolo si susseguono governi conservatori e
laburisti, ciascuno con le propria politica economica, la propria politica estera e la
propria politica interna. Gli anni Sessanta e Settanta vedono la partecipazione
australiana a fianco degli Stati Uniti nelle aree di crisi internazionale (Corea e Vietnam),
mentre gli anni Ottanta e i primi anni Novanta segnano il tentativo di parziale
affrancatura dagli USA e l’apertura all’Asia, oltre all’inaugurazione delle politiche del
multiculturalismo. Gli ultimi cinque anni del secolo, governati dalla coalizione
conservatrice, vedono una forte ripresa economica, una parziale chiusura
all’immigrazione dall’Asia, un riavvicinamento agli Stati Uniti, ma anche la crisi
dell’identità nazionale, dovuta alla fine del sistema bipolare.
L’immigrazione italiana in Australia, dalle origini fino alla seconda guerra mondiale,
ha avuto caratteri pionieristici e di spiccata discontinuità, risultando, peraltro, del tutto
secondaria rispetto al più generale fenomeno dell’emigrazione italiana, mentre solo nel
periodo successivo, che arriva fino ai giorni nostri, ha raggiunto una maggiore
rilevanza.
Per quanto riguarda l’immigrazione in generale verso l’Australia, nella prima metà
del secolo le leggi restrittive agli ingressi nel Paese facilitavano l’arrivo
prevalentemente di europei anglosassoni. Nel corso degli anni sessanta, invece, mentre
la grande ondata migratoria postbellica continuava ad alimentare un incremento
sostenuto della popolazione australiana, vennero lentamente a cadere le barriere
normative costruite in precedenza per consentire la selezione degli ingressi su base
razziale. Solo negli anni Settanta la politica di esclusione su basi razziali venne abrogata
definitivamente. Nel decennio compreso tra il 1985 e il 1995, infine, il guadagno netto
in termini migratori ha superato le 820.000 unità. In questo periodo, la componente di
origine asiatica ha coperto la quota più cospicua delle entrate.
Nel corso della seconda metà del secolo, il progetto di costruire uno Stato-nazione
etnicamente uniforme ha dovuto lasciare il passo all’accettazione della realtà
multietnica della popolazione australiana. L’atteggiamento governativo è così passato
dall’iniziale esclusione razziale, fondamento di quell’Australia Bianca proclamata nella
prima metà di questo secolo, al tentativo di assimilazione dei diversi, alla politica
integrazionista, fino al multiculturalismo.
Uno dei problemi attuali è quello di come allargare le strettissime maglie
dell’immigrazione, se limitandola ai gruppi etnici già consolidatisi (quelli di
provenienza europea), oppure aprirla definitivamente anche alle etnie asiatiche. Da un
lato ci si richiama ai valori con i quali la nazione australiana è stata costruita, dall’altro
ci si appella al multiculturalismo come al principale dei valori. Il gruppo italiano discute
anch’esso e si domanda come meglio tutelare i propri interessi, se in un contesto ove la
leadership anglofona si mantenga inalterata, oppure in un nuovo paesaggio etnico in cui
gruppi asiatici creino una sorta di bilanciamento del potere tra tutte le nazionalità.
Per quanto concerne la sua composizione, l’economia australiana vede oltre il 70%
della produzione dovuta ai servizi, il 14% all’industria manifatturiera e l’8% ad
agricoltura e materie prime. Relativamente alla distribuzione degli occupati per settore,
il 6% della popolazione attiva è dedita al primario (che comprende il settore minerario-
energetico), il 14% al secondario e l’80% al terziario e al quaternario (il settore legato
alle comunicazioni e all’informatica). Due dei principali problemi affrontati negli ultimi
decenni dall’economia australiana hanno riguardato l’inflazione e la disoccupazione.
Una serie di indagini sulle cause della disoccupazione e sui gruppi sociali più colpiti, ha
portato il governo ad elaborare nel dicembre 1993 il Restoring Full Employment (noto
come Green Paper), cui è seguito l’anno successivo il Working Nation Program (o
White Paper). Sono, questi, documenti dettagliati che, oltre a fornire approfondite
relazioni delle più recenti politiche attuate in Australia in tema di occupazione,
formulano proposte per il futuro, sottolineando la necessità di incrementare lo sviluppo
economico complessivo, e di intervenire con programmi mirati al fine di migliorare la
posizione dei segmenti più fragili del mercato del lavoro (giovani, donne, nuovi
immigrati). Sembra possibile affermare che oggi, dopo la recessione economica dei
primi anni Ottanta e dei primi anni Novanta, l’economia australiana sia in ripresa e la
sua competitività a livello internazionale veda un progressivo positivo rafforzamento.
Per quanto riguarda le istituzioni politiche australiane, il Commonwealth è costituito
da sei Stati e due Territori, ognuno dei quali elegge una rappresentanza nel Parlamento
federale bicamerale con il sistema del voto alternato trasferibile (per la camera dei
rappresentanti). Capo di Stato è il sovrano del Regno Unito, rappresentato da un
governatore generale; capo di governo è il primo ministro. Le elezioni federali, come
pure quelle statali, avvengono ogni tre anni.
Di particolare importanza è la questione repubblicana, sentita dalla maggioranza
della popolazione come una questione politica di fondamentale importanza. Il 6
novembre 1999 si è svolto un referendum per l’adozione della forma repubblicana, ma
questo ha avuto esito negativo. La spiegazione è relativamente semplice: agli australiani
veniva proposto un modello di repubblica parlamentare, invece del modello
presidenziale, desiderato dalla maggioranza dei repubblicani. E’ prevedibile, tuttavia, la
riproposizione del referendum entro alcuni anni.
Lo studio geopolitico dell’Australia rileva complicazioni interpretative se, accanto
all’analisi della sua posizione geografica, si prende in considerazione l’identità
nazionale. Combinati, i due fattori, offrono molteplici possibilità interpretative; negli
anni passati molti hanno cercato di dare una risposta definitiva alle questioni della
posizione e dell’identità, i governi federali al primo posto. Tuttavia, ancora oggi
nessuno è stato in grado di stabilire definitivamente quale debba essere il futuro
geopolitico dell’Australia: quale sia la sua identità e in quale modo debba intraprendere
le relazioni con i Paesi della regione.
Nella prima metà del secolo l’Australia era legata alla Gran Bretagna in qualità di
dominion prima, di membro del Commonwealth poi. Con la ratifica dello Statuto di
Westminster l’Australia passò nella sfera d’influenza americana, diventando un fedele
alleato degli Stati Uniti e impegnandosi al loro fianco nelle guerre anticomuniste degli
anni Cinquanta, Sessanta e Settanta (Corea e Vietnam). Fino a quel momento gli
australiani si erano sempre considerati britannici, europei, occidentali e avevano sempre
guardato gli immigrati asiatici con diffidenza. Negli anni Ottanta e nei primi Novanta,
invece, i governi laburisti hanno impresso un’accelerazione verso l’Asia: hanno
inaugurato politiche multiculturali più efficaci, aumentato gli ingressi di immigrati di
origine asiatica, favorito il ricongiungimento familiare, intessuto rapporti più cordiali
con i vicini del Sud-est asiatico, fino al riconoscimento dell’annessione di Timor Est da
parte dell’Indonesia, avvenuto nel 1989. Nel frattempo i rapporti con gli Stati Uniti non
si sono allentati: il Trattato ANZUS è tuttora in vigore, benché la Nuova Zelanda ne sia
uscita, e in ripetute occasioni l’Australia ha manifestato la propria lealtà verso gli Stati
Uniti e il “sistema occidentale”. Negli ultimi cinque anni, ossia da quando la coalizione
liberale-nazionale ha vinto le elezioni, nel 1996, il nuovo governo australiano ha cercato
di potenziare i rapporti con i Paesi asiatici, tentando di moderare la sudditanza nei
confronti degli Stati Uniti.
Britannica? Europea? Asiatica? Oceaniana? L’Occidente agli antipodi, come titola il
numero 4/2000 di «Limes», la rivista italiana di geopolitica? E’ qui la crisi d’identità
australiana. Fino all’inizio degli anni Novanta è stata parte del mondo britannico, prima,
e americano, poi. Con il crollo del Comunismo e della minaccia sovietica, gli Stati Uniti
hanno cercato di allentare i rapporti con i loro fedeli alleati del Pacifico: mentre
l’Australia continuava a credere di essere un partner privilegiato della superpotenza
americana, quest’ultima iniziava a stabilire rapporti diretti con gli altri Paesi della
regione Asia-Pacifico, togliendo all’Australia il ruolo di tramite e portavoce che aveva
avuto fino a quel momento.
L’Australia, ora, deve necessariamente poter trovare una propria identità e una nuova
appartenenza alla regione Asia-Pacifico. La strada intrapresa dai governi laburisti era
quella della diplomazia multilaterale, che trovava espressione nella partecipazione
australiana ai grandi forum regionali; il governo conservatore, invece, ha preferito
abbandonare la multilateralità per concentrare gli sforzi diplomatici a livello bilaterale.
Ciò non facilita l’individuazione di una identità, bensì mostra aspetti diversi della realtà
australiana a seconda del partner cui si rivolge. Questa politica potrebbe ottenere
successi nel breve periodo, ma risultare dannosa a lungo termine, in quanto
costringerebbe i governanti a continui e impegnativi cambiamenti nei rapporti bilaterali,
con il conseguente dispendio di energie politiche e con il rischio di perdere coerenza
nella determinazione di una politica globale che comprenda tutta la regione.
Nel quarto capitolo vengono, poi, analizzati i rapporti dell’Australia con gli Stati
Uniti, con la Cina e con l’Indonesia nella questione di Timor Est.
Nonostante quanto finora esposto appare arduo il quesito primario: l’Australia è una
potenza emergente nella regione Asia-Pacifico? La risposta è problematica, poiché lo
studio fin qui sviluppato rivela aspetti contrastanti che non possono confermare né
smentire tale potenzialità.
L’Australia è stata indubbiamente una potenza affermatasi nel Pacifico meridionale,
ma ora in fase declinante rispetto agli Stati di quell’area, che vedono nel Giappone,
negli Stati Uniti e in parte nella Malaysia degli interlocutori diretti. La stessa Australia,
infine, preferisce spostare i propri interessi verso il Sud-est asiatico e l’Asia orientale.
L’Australia è stata una potenza regionale di rilevante importanza strategica per gli
alleati americani fino alla conclusione della guerra fredda. Potrebbe esserlo ancora oggi,
ma gli Stati Uniti preferiscono dialogare direttamente con le controparti, piuttosto che
utilizzare la mediazione australiana.
L’Australia, come già detto, soffre una forte crisi di identità: non è asiatica, non è
americana e non vuole più essere britannica. Gli australiani sanno ciò che non sono, ma
non ciò che sono. Questa difficoltà è insita nella società stessa, una società
multiculturale, che fino a pochi decenni or sono era bianca, razzista e isolata. Con
l’apertura all’immigrazione, soprattutto asiatica, gli australiani si sono adattati ed hanno
imparato a convivere, se pur con qualche malumore, con gli altri popoli della regione.
La nuova ondata di razzismo, suscitata da Pauline Hanson nel 1997, è oggi pienamente
superata, tanto che nelle ultime elezioni (ottobre 1998) il suo partito (One Nation Party)
ha ottenuto un solo seggio al Senato. Benché il multiculturalismo sia una formula
accettata nel Paese, ancora molto lavoro bisogna fare sul fronte dell’immigrazione,
affinché questa sia accettata ed anche condivisa dalla popolazione australiana. Tuttavia,
poiché l’ecosistema australiano, sfruttato in modo dissennato rispetto al futuro fino a
pochi anni fa, non è in grado, al momento, di recepire altra popolazione, ogni
incremento sarebbe ulteriormente nocivo. Le opere di recupero ambientale intraprese,
però, se ampliate e, soprattutto, svincolate dai forti interessi economici, potrebbero
facilitare l’aumento della popolazione.
L’Australia, ancora poco nota in Europa, ha avuto il modo di presentarsi al mondo
grazie alle Olimpiadi di Sydney, le migliori di sempre secondo il presidente del CIO,
Samaranch, e che hanno catalizzato l’attenzione del pianeta per due settimane.
L’immagine che l’Australia ha saputo diffondere è quella di un Paese ricco, benestante,
ambizioso, sicuro di sé, ma che cerca di nascondere quelli che definisce “problemi
interni”, cioè la condizione degli aborigeni. Se l’Australia vuole essere una potenza
rispettata nella sua regione, deve risolvere il contenzioso aperto con gli aborigeni da più
di duecento anni. Grazie alla globalizzazione dell’informazione, non è più possibile
nascondere le violazioni dei diritti umani perpetrate nei confronti delle popolazioni
originarie: una soluzione che paghi pienamente i torti subiti deve essere trovata
immediatamente; altrimenti, l’Australia si esporrà inevitabilmente alle critiche di tutto il
mondo e, soprattutto, dei Paesi vicini.
Premesso che la coscienza storica australiana non si è ancora riscattata, dunque, il
problema dell’identità è il problema geopolitico attuale più rilevante. Il tentativo di
separarsi dalla Corona britannica attraverso il referendum sulla repubblica, secondo
alcuni, potrebbe essere il primo passo verso una nuova identità, ma ciò non è del tutto
vero: anche nella forma repubblicana, l’Australia può rimanere legata al Regno Unito
come membro del Commonwealth e nessuna forza politica, sociale o economica, al
momento, può affermare il contrario. Se la separazione dalla Corona sia sufficiente a
definire una nuova identità culturale, ovvero sia necessaria anche la separazione totale
dal governo di Londra, è questione da verificare. E’ verosimile, infine, che una
repubblica di tipo presidenziale, sul modello degli Stati Uniti, renderebbe il presidente
più autorevole, ma è anche noto che il primo ministro, nell’attuale sistema, ha tutte le
possibilità di aumentare la propria autorità, in quanto il sistema politico garantisce
sufficiente stabilità di governo.
Il problema dell’identità nazionale, quindi, non può esaurirsi nella forma
istituzionale. Dipende, in buona parte, dalla posizione geopolitica dell’Australia nella
regione e dalla percezione che gli Stati dell’Asia-Pacifico hanno nei suoi confronti.
Negli ultimi quattro anni, questa è stata altalenante, a causa della politica del governo di
coalizione, più o meno marcatamente a favore degli Stati Uniti. Nella regione vi sono
molti Stati o gruppi di Stati che rappresentano posizioni più o meno dominanti e
comunque emergenti: il Giappone, la Cina, l’ASEAN. Nel 1999, l’intervento a Timor
Est e la visita del Presidente Jiang Zemin hanno contribuito a rafforzare l’immagine
dell’Australia nella regione, ma la cosiddetta “dottrina Howard” ha notevolmente
danneggiato quella stessa immagine. La scarsità dei mezzi militari australiani, poi, non
contribuisce certo ad esaltarne il ruolo. La presenza egemonica degli Stati Uniti nella
politica australiana resta, pertanto, immutata. Il problema dell’identità, quindi, rimane
una questione aperta, in attesa di soluzioni stabili. E’ nell’interesse del Paese trovare
rapidamente un ruolo definitivo e sostenibile. La diplomazia bilaterale basata su scelte
di compromesso, adottata da Howard, non può portare a niente di decisivo, poiché
impone un certo atteggiamento con una controparte e un atteggiamento anche opposto
nei confronti di un’altra controparte. Il risultato, è evidente, rischia di essere molto
dannoso nel medio-lungo periodo.
La soluzione al problema dell’identità, quindi, può venire solamente da un
cambiamento radicale nelle politiche governative, sia sul piano interno che su quello
internazionale. Questo scenario non si potrà verificare solo con il cambio della
maggioranza governativa, ma con la trasformazione dell’intera classe dirigente
australiana e con la fondazione di una nuova società, più consapevole delle proprie
ambizioni e dei propri limiti. Una sfida per il terzo millennio.
In conclusione, se le ambizioni di potenza regionale dell’Australia verranno
confermate, tutto il Paese sarà chiamato ad una seria riflessione sulle proprie capacità e
possibilità. Troppi cambiamenti sarebbero necessari prima che il processo possa
produrre risultati apprezzabili. Una seria volontà da parte delle istituzioni e della
società, quindi, è alla base del risultato futuro. Solo un radicale mutamento potrebbe far
emergere l’Australia in qualità di potenza regionale.