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INTRODUZIONE
Questo elaborato si presenta come uno studio per attestare se e come si è evoluto
l‟italiano contemporaneo attraverso la comparazione delle traduzioni italiane
novecentesche del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra.
Inutile soffermarsi sulla già nota fortuna e sull‟importanza dello scrittore spagnolo e
della sua opera, pubblicata in due momenti differenti, la prima parte nel 1605, la
seconda nel 1615.
La prima menzione del romanzo in Italia è del 1615 nella Secchia rapita di Tassoni
ma la prima traduzione effettiva è quella di Lorenzo Franciosini (1622- 25) che domina
per tutto il XVII e XVIII secolo perché, fino all‟Ottocento, tutte le traduzioni non
furono altro che riedizioni di quella del Franciosini (ricordiamo quella di Bartolomeo
Lupari, 1677, di Antonio Groppo, 1722 e di Girolano Savioni, 1728).
Una nuova traduzione integrale venne realizzata nel 1818 da Bartolomeo Gamba e
solo nel XX secolo ne compaiono ben dieci di nuove che coprono quasi tutto il secolo:
quella di Mary de Hochkofler pubblicata nel 1921, di Alfredo Giannini nel 1923, di
Ferdinando Carlesi nel 1933, di Pietro Curzio nel 1950, di Gherardo Marone nel 1954,
di Vittorio Bodini nel 1957, di Cesco Vian e Paola Cozzi nel 1960, di Gianni Buttafava,
Ada Feliciani e Giovanna Maritano nel 1967, di Letizia Falzone nel 1971, e di Vincenzo
La Gioia nel 1997.
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Perché il Don Chisciotte e perché le sue traduzioni del Novecento? Il Don
Chisciotte è una delle opere più importanti della letteratura europea, è scritta in
castigliano e presenta vari livelli linguistici. In particolare si segue qui l‟idea di
BACHTIN 1968 riportata da REGUERA 1997 sul genere del romanzo. Bachtin
sottolinea come l‟elemento principale e di rottura col passato del romanzo moderno sia
la polifonia realizzata da quell‟insieme di voci attraverso le quali dare rappresentanza a
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Traduzione di Mary de Hochkofler, Firenze, Salani, 1921; traduzione di Alfredo Giannini, Firenze,
Salani, 1923; traduzione di Ferdinando Carlesi, Milano, Mondadori, 1933; traduzione di Pietro Curzio,
Roma, Curcio, 1950; Gherardo Marone, Torino, UTET, 1954; traduzione di Vittorio Bodini, Torino,
Einaudi, 1957; traduzione di Cesco Vian e Paola Cozzi, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1960;
traduzione di Gianni Buttafava, Ada Jachia Feliciani e Giovanna Maritano, Milano, Bietti, 1967;
traduzione di Letizia Falzone, Milano, Mursia, 1971; traduzione di Vincenzo La Gioia, Milano,
Frassinelli, 1997.
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tutta la società di un‟epoca perché «la novela debe ser un microcosmo del
plurilinguismo» (REGUERA 1997: 153). Il critico russo, che si è concentrato
soprattutto su Dostoevskij, ha fatto, nelle sue trattazioni, molti rimandi al lavoro di
Cervantes rivedendone una sorta di antesignano del romanzo polifonico (alcune
testimonianze si possono leggere in Dicenda 1982). Secondo REGUERA, ciò ha portato
a un nuovo modo di rapportarsi al Don Chisciotte tanto che per CARRETER 1984:
«Cervantes compone […] la primera novela polifonica del mundo. La heterología, la
multitud de estilos que en ella convive constituye la señal de su modernidad».
Questa peculiarità linguistica si ritrova sia nelle parti narrate sia a livello dei
personaggi. Il Don Chisciotte, com‟è noto, narra la storia di Don Quijana o Quesada
che, a causa della sua passione per i libri di cavalleria, finisce per impazzire e credersi
egli stesso un cavaliere errante venuto al mondo per riparare torti e offese. Su questa
vicenda principale, però, sono inseriti molti episodi secondari e molti altri personaggi,
tra cui Sancio Panza. Cervantes, narrando le avventure del pazzo redivivo cavaliere,
ebbe la possibilità di beffare il genere letterario del romanzo cavalleresco, molto in voga
al tempo, parodiandone non solo le storie e la struttura del testo (dal manoscritto
ritrovato alle finte rubriche che iniziano i capitoli) ma soprattutto il linguaggio sia con
l‟inserimento di arcaismi e rimandi alla prosa arzigogolata di quei libri sia modificando
il ruolo del narratore. Questi, come dimostrano ROSENBLAT 1971 e CARRETER
1984, non è statico ma spesso adatta il suo stile linguistico a quello dei personaggi, entra
nella conversazione con il mondo e crea un ampio margine di incertezza con i rimandi
all‟autore e traduttore del manoscritto ritrovato. Inoltre, come dice CARRETER (1984:
116), la stessa lingua del narratore principale convive con quella di molti altri: «de las
disertaciones, […] de las novelistas intercaladas, [...] de los cuentos populares [...] ».
Ciò stabilisce la modernità di Cervantes rispetto alla linea monologica seguita dagli
autori a lui coevi.
Grazie ai personaggi, poi, vengono rappresentati molti mondi linguistici differenti:
quello dei nobili, dei popolani, dei banditi ecc. Fra tutti, però, bisogna mettere in
rilievo i due principali. Il primo è sicuramente quello di Don Chisciotte che rappresenta
il personaggio infarcito di letteratura e un po‟ folle che, credendosi un cavaliere, si
esprime con un linguaggio arcaico e di difficile comprensione anche per i suoi
contemporanei. Poi il suo alter-ego Sancio Panza, il contadino vicino di casa che segue
il protagonista nelle sue avventure caratterizzato, invece, da una lingua viva, tipica dei
popolani o del teatro del tempo, arricchita con i modi di dire, i proverbi e innumerevoli
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strafalcioni linguistici. Il modo di parlare dei due protagonisti e il loro confrontarsi
continuamente nel dialogo sono tra le caratteristiche più interessanti del romanzo e
quelle sulla quali, in questo elaborato, ci si è soffermati di più, tralasciando tutti (o
quasi) gli altri personaggi per evitare di analizzare ulteriori tipi linguistici.
Da qui si possono intuire le difficoltà di tradurre il Don Chisciotte soprattutto nel
tempo attuale, come rilevano bene tutti i conoscitori del testo. Tra i vari studi citiamo il
più recente di ALAMAN-VERCHER GARCIA (2010) dove sono raccolte le
informazioni su tutte le traduzioni del Don Chisciotte in Europa. Gli studiosi
confermano due tipi di problemi: il primo legato al linguaggio di Don Chisciotte e il
secondo dato dalla «trasmision de las realias propria de España del siglo XVII» e «las
singularidades culturales» perché, si legge più avanti, «el traductor debe considerar
algunos conceptos como el de la fidelidad o el de literalidad, de adaptacion del lenguaje
y del mundo de la novela a otra lengua y a otro universo cultural» (pp. 36-37). Sulla
base di questo anche per i nostri traduttori non deve essere stato facile trasporre nel
Novecento italiano l‟opera di uno scrittore del Seicento spagnolo, che non solo
appartiene a un epoca tanto differente ma che ha anche caratterizzato il romanzo con
vari registri linguistici. Laddove ci sono riusciti, però, il risultato è stato utile per
attestare i mutamenti dell‟italiano su differenti livelli.
Inoltre il Don Chisciotte, nel Novecento, è stato tradotto da importanti e capaci
traduttori che, però, eccetto Bodini e Carlesi, non erano scrittori ma critici letterari e
grandi conoscitori di Cervantes. Questo ha determinato due conseguenze. La prima è
che le traduzioni non sono libere o fantasiose ma, generalmente, sono rimaste fedeli al
testo originale per non snaturarlo; e se alcune scelte sono state stilistiche per la maggior
parte, invece, è stata decisiva la conoscenza che il singolo studioso aveva dell‟opera,
delle pratiche di traduzione e, soprattutto, della lingua italiana. La seconda è che il
linguaggio adottato non fosse specificatamente letterario ma, piuttosto, influenzato da
tutte le varietà dell‟italiano (dell‟uso medio, regionale ecc.) che in più punti sono filtrate
nei testi permettendo, così, di allargare il campo di indagine tanto che, talvolta, sono
risultati più interessanti i riscontri su queste variazioni che su quelle specifiche della
prosa scritta e letteraria.
Si può dire, quindi, che la polifonia del Don Chisciotte, la quantità e le
caratterizzazioni linguistiche delle sue traduzioni, la personalità dei singoli traduttori
sono state un ottimo spunto per la verifica di quei fenomeni che, secondo gli storici
della lingua, caratterizzano l‟italiano contemporaneo. Le traduzioni sono servite solo
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come campione per approfondire lo studio sulla storia dell‟italiano e, dunque, i rimandi
fatti nei vari capitoli alla resa del testo originale devono considerarsi sempre funzionali
ad attestare i mutamenti linguistici dell‟italiano contemporaneo.
È necessario giustificare il metodo di lavoro che si è scelto sia per lo spoglio e
l‟analisi sia per l‟esposizione.
Il lavoro è stato diviso in quattro capitoli: il primo dedicato esclusivamente al lessico,
il secondo alla morfologia, il terzo alla sintassi e il quarto a fenomeni minimi, quali la
grafia e la fonetica sintattica. (Gli esempi necessari per valutare i casi sono stati riportati
con criterio cronologico per cui la prima voce corrisponde a Cervantes e le altre ai vari
traduttori dagli anni venti fino agli anni novanta.)
Il primo capitolo è il risultato di uno spoglio sistematico fatto su tutte e dieci le
traduzioni. Oltre a varie considerazioni sul lessico italiano sono moltissimi i riferimenti,
in questa parte, all‟originale spagnolo perché è soprattutto nella scelta del vocabolario
che si è riscontrata la volontà dei traduttori di rendere lo stile di Cervantes e di
riprodurne la straordinaria polifonia.
Per verificare questo è stato necessario comparare un numero elevato di capitoli del
Don Chisciotte che ho scelto basandomi sulla mia conoscenza personale del romanzo.
Ne ho analizzati complessivamente cinquantasette per cercare di attestare i fenomeni su
almeno il 20% del libro evitando, però, quelli in cui fossero inseriti ampi episodi
secondari. Nella prima parte questi occupano moltissimo spazio e sono anche funzionali
al racconto (per esempio, le vicende amorose di Dorotea o Cardenio che si sviluppano
tra i capitoli ventitré e quarantaquattro suppliscono al disordine amoroso di Don
Chisciotte) ma non li ho presi in considerazione per non introdurre ulteriori registi. Il
mio interesse principale è stato, dunque, vedere come sono state rese le parlate di Don
Chisciotte, di Sancio, e del narratore e cercare di rilevarne, attraverso lo studio, una
evoluzione nel sistema lessicale dell‟italiano contemporaneo (sia in diacronia che in
diatopia).
Ho scelto, quindi, dalla prima parte i primi sette capitoli che narrano le prime
avventure di Don Chisciotte senza Sancio. Ciò era necessario per notare se la presenza
di uno solo dei protagonisti avesse qualche ripercussione sulla lingua. Nei successivi, e
per quasi tutta l‟opera, la presenza di Sancio, invece, permette lo sviluppo di episodi
divertenti e di molti dialoghi (nei capitoli scelti otto, nove e dieci, dal capitolo quindici
al ventidue, il venticinque e in tutti i capitoli dal quarantadue al quarantacinque, più il
quarantanove e il cinquantadue).
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Dalla seconda parte ho preferito i primi undici capitoli, che comprendono la terza
uscita di Don Chisciotte e l‟incontro con Dulcinea incantata, più il sedici e il diciassette.
Poi quelli che vanno dal quarantadue al cinquantatrè perché le vicende raccontate qui
sono in qualche modo tutte collegate con il lungo soggiorno che Don Chisciotte e
Sancio fanno nel castello dei duchi. I due coniugi, veri appassionati della prima parte
del Don Chisciotte (che, con un espediente metalettarario, si narra fosse già stata
pubblicata e divulgata con enorme successo), ordiscono, alle spalle del cavaliere errante
e del suo scudiero, molte situazioni spassose. I capitoli quarantadue e quarantatrè, in
particolare, ci offrono un dialogo tra Don Chisciotte e Sancio in cui il primo si fa
precettore del secondo impartendogli consigli e suggerimenti alla vigilia del suo
mandato di governatore all‟isola di Baratteria.
Quelli successivi, invece, sono dedicati, in maniera alternata, a Don Chisciotte e
Sancio che sono ugualmente protagonisti ma separati: il primo a casa dei duchi, il
secondo nell‟isola che gli è stata concessa. Questo espediente mi ha permesso di
soffermarmi maggiormente sulla differenza delle loro parlate, soprattutto nel capitolo
cinquantuno in cui i due comunicano per via epistolare.
Per finire ho analizzato i capitoli sessanta, sessantuno e sessantadue che narrano
l‟incontro con il bandito Rocco e gli ultimi dedicati al rientro al paese natale e alla
morte esemplare di Don Chisciotte.
Ho tralasciato i sonetti che aprono e chiudono la prima parte e i due prologhi iniziali
perché ho preferito concentrarmi sulla prosa e sul linguaggio della narrazione.
Per la morfologia, la sintassi e la fonetica sintattica, invece, i criteri per lo studio sono
stati differenti.
I fenomeni sono stati raggruppati e, per quanto possibile, differenziati nei capitoli
secondo, terzo e quarto di questo elaborato. I tre capitoli, infatti, risultano strettamente
collegati tra di loro perché, a differenza del lessico, che è stato decisamente influenzato
dall‟originale spagnolo, qui, invece, le scelte di resa del testo sono state determinate dai
mutamenti propri della lingua italiana. Tranne alcuni esempi, che saranno specificati di
volta in volta, sembra eccessivo pensare che i traduttori abbiano abusato di alcuni tratti
linguistici (in analogia a quanto fatto per il lessico) per dare una patina arcaicizzante al
testo.
Il campione di riferimento per lo spoglio, dunque, è stato ridotto a sedici capitoli
che, però, rispettassero alcuni dei criteri sopracitati come la presenza del dialogo fra i
protagonisti e la mancanza di personaggi secondari rilevanti. Così si sono scelti dalla
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prima parte i capitoli 1, 2, 3, 4, 5, 7, 19, 20, 21, 22 e 25 mentre dalla seconda i capitoli
42, 43, 45, 47 e 51. Per la seconda, in particolare, sono molti quelli in cui il protagonista
è Sancio: questo mi è servito per poter avallare la mia ipotesi secondo cui, proprio per la
resa di questo personaggio, i traduttori avrebbero dovuto ricorrere a forme dell‟italiano
colloquiale.
Anche i traduttori di riferimento sono stati diminuiti secondo due criteri: la data delle
loro traduzioni e la loro provenienza, preferendo quelli di cui avevo notizie biografiche
certe. Lo scopo era quello di mantenere comunque un‟ampia varietà nello spoglio e,
quindi, ho analizzato la versione di Mary de Hochkofler, perché è la prima che abbiamo
nel secolo, di Carlesi, perché toscano, di Marone perché di origini napoletane, di
Bodini, leccese, di Vian, perché nato e vissuto nel Nord Italia e di La Gioia, di cui
ignoriamo lo origini ma che non può essere tralasciato visto che è l‟ultimo traduttore del
Novecento. Qualche rimando è stato fatto anche alla traduzione di Buttafava, Feliciani e
Maritano per una maggiore completezza in diacronia (il loro lavoro risale al 1967)
sebbene sia difficile da studiare poiché è il frutto della collaborazione fra i tre studiosi
che sicuramente si saranno influenzati con criteri che ci è impossibile sapere.
Prima di esporre i risultati però sarà bene dare qualche informazione aggiuntiva.
Prima è d‟obbligo una breve nota sulle biografie dei vari traduttori perché certe notizie
possono essere utili per rilevare, riconoscere e separare i fenomeni legati a particolari
contesti geografici da quelli in cui è stata determinante la conoscenza dello spagnolo e
delle norme grammaticali dell‟italiano. Le informazioni trovate non sono molte ma,
nella maggior parte dei casi, sono state sufficienti per avallare le tesi. Per quelle
mancanti, invece, si è cercato di fare delle ipotesi basate sui fenomeni riscontrati e sul
confronto tra i testi (soprattutto nel capitolo del lessico).
Un secondo appunto è sulla storia delle edizioni critiche del Don Chisciotte, che
bisogna conoscere affinché non sorgano dubbi sulla validità del lavoro svolto.
I. I DIECI TRADUTTORI
MARY DE HOCHKOFLER
La prima traduzione che troviamo nel Novecento è quella della triestina Mary de
Hochkofler, pubblicata per Salani e Sansoni nel 1921. Il fatto che fosse triestina è la
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sola informazione biografica che abbiamo, ricavabile dalla copertina della prima
edizione.
Hochkofler però ha tradotto molto. Ricordiamo, grazie a una breve ricerca fatta nei
cataloghi delle biblioteche, le traduzioni di Shakespeare, Sogno di una notte di mezza
estate (per Salani 1950), Amleto e Otello (traduzione letteraria dall‟inglese, 1951) e,
invece, per lo spagnolo compare solo Cervantes.
ALFREDO GIANNINI
Le poche notizie su Alfredo Giannini ci provengono dall‟Archivio biografico italiano
a cura di Tommaso Nappo.
Giannini nacque a Pisa nel 1865. Fu letterato, critico e professore (insegnò letteratura
italiana al liceo “Azuni” di Sassari).
Tra le sue pubblicazioni si ricordano: I canti popolari pisani nel 1891, I Sermoni di
Gasparre Gozzi, commentati e annotati nel 1892, la versione dell‟Andia di Terenzio del
1894, il commento al canto VIII del Purgatorio nel 1902, la versione in prosa degli
Adelfi di Terenzio nel 1905, una traduzione di Lope de Vega (La stella di Siviglia,
1947) e soprattutto quelle di Cervantes, Le novelle (nel 1912) e Gl’intremezzi (1915),
nonché la composizione di varie grammatiche e manuali per lo studio della lingua e
della letteratura spagnola.
La sua traduzione del Don Chisciotte venne pubblicata nel 1923 presso la casa
editrice Salani e Sansoni e ripresa, nel 1954, dall‟Istituto Poligrafico dello Stato, da
Rizzoli nel 1957 e nel 1981 e dall‟editore dell‟Oglio nel 1964.
FERDINANDO CARLESI
Carlesi è nato a Prato nel 1879 ed è morto a Firenze nel 1966. Ha tradotto molte opere
tra cui Le Metamorfosi di Apuleio (1954) e dallo spagnolo, il Teatro di Calderòn de la
Barca (1949), Spirito ambulante di J.M. Salaverrìa e, ancora, Unamuno, Bècquer e
soprattutto il Lazarillo de Tormes: Vita e avventure di Lazarino di Tormes (1907).
Il suo interesse si rivolse anche alla critica, alla poesia e alla narrativa con La noia
degli astri (versi pubblicati nel 1913), la composizione di novelle (Menipee, 1923) e di
un romanzo (nel 1925) intitolato Più luce.
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La prima edizione del suo Don Chisciotte è del 1933 per Arnoldo Mondadori poi
ripresa nel 1956 per l‟edizione Cremonese di Roma, nel 1966 per Edizioni Unità e nel
1974 per la collana I Meridiani curata e annotata da Cesare Segre e Donatella Pini
Moro.
PIETRO CURZIO
Di Pietro Curzio non abbiamo nessuna notizia. Sappiamo solo che tradusse
un‟edizione integrale del Don Chisciotte per la casa editrice Curcio nel 1950.
GHERARDO MARONE
Gherardo Marone nacque in Argentina il 28 settembre 1891 da genitori emigrati da
Monte San Giacomo (nel Salernitano). La famiglia rimpatriò in Italia nel 1904 e si
stabilì a Napoli. Frequentò lì le scuole e l‟università laureandosi nel 1916 in
Giurisprudenza e nel 1924 in Filosofia. Insegnò, poi, presso alcune scuole esercitando
anche la professione di avvocato sia a Napoli che in Argentina.
Pubblicò alcuni lavori su Carducci (1909), Shakespeare (1911) e su Jaufrè Raudel
(1914). Nel 1915 fondò e diresse, fino al 1917, la rivista La Diana che raccolse attorno
a se giovani scrittori e critici meridionali (tra cui Annunzio Cervi, Florina Centi).
Nel primo dopoguerra si avvicinò a Giovanni Amendola, di orientamento antifascista,
e collaborò con Piero Gobetti a Rivoluzione liberale e con Amendola al Mondo. Nel
1924 fondò la rivista il Saggiatore, chiusa dai fascisti nel 1925. Nel 1928 tornò in
Argentina, dove vinse una cattedra di Letteratura Italiana nella Facoltà di Lettere e
Filosofia dell‟Università di Buenos Aires e nel 1940 divenne anche direttore
dell‟Istituto di Letteratura italiana. In quel periodo è assai fitta la sua attività di
traduttore dallo spagnolo, di collaborazione con molti periodici e quotidiani e di
amicizia con alcuni scrittori argentini.
Si dedicò allo studio dell‟opera di Dante tanto che nel 1950 fondò la Società
Argentina di Studi Danteschi.
Nel secondo dopoguerra, tornato in Italia (anche per dissensi con il governo
peronista), ricoprì la cattedra di Letteratura spagnola nell‟Università di Bologna, fino
alla morte, nel 1962.
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La sua traduzione del Don Chisciotte è stata pubblicata nel 1954 presso la casa
editrice UTET (riedita anche nel 1980). Marone, nell‟introduzione, giustifica il suo
lavoro. Egli afferma che, per quanto possa ritenersi superflua, una nuova traduzione del
Quijote è invece necessaria sia per saldare l‟enorme debito nei confronti di Cervantes,
sia perché ogni «generazione ha il dovere di rileggere e interpretare a suo modo i suoi
classici» (8). Egli, infatti, giudica le traduzioni precedenti buone (fa riferimento a
Giannini e Carlesi mentre non cita nemmeno Hochkofler) ma con la pecca che
«scivolano spesso nel manierismo e nella leziosaggine delle forme toscane» (8) e
rimprovera loro anche numerosi errori di interpretazione. Quindi, era doverosa «una
traduzione […] rigorosamente fedele al testo e allo spirito cervantino: e insieme
condotta con scioltezza e semplicità».
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VITTORIO BODINI
Vittorio Bodini è stato un traduttore e un riconosciuto poeta quindi alcune
informazioni sono tratte dalla nota curata da Oreste Macrì alla raccolta postuma di
poesie del 1972.
Bodini nacque a Lecce nel 1914. Già da adolescente iniziò la sua attività letteraria e
in parte aderì al futurismo soggiornando spesso fuori dalla sua terra (a Roma, Firenze,
Spagna). Nel 1940, a Firenze, si laureò in filosofia e collaborò ad alcune riviste come
Giubbe Rosse. Tornò poi a Lecce dove rimase fino al 1944 e aderì agli ideali di
Giustizia e Libertà per poi essere perseguitato dal regime.
Nel 1944 si trasferì a Roma e iniziò un progetto di poesie che si concretizzò nella
raccolta La luna dei Borboni (l‟influsso di Federico Garcia Lorca è molto forte)
pubblicata nel 1952.
Dal 1946 al 1949 è in Spagna e dal 1949 al 1960 fa la spola tra Lecce e Bari: sono gli
anni in cui traduce il teatro di Lorca (1951), il Don Chisciotte (1956), Gòngora (1958-
1963), l‟Alberti (1962) e Quevedo lirico (1964-68). Si stabilì a Roma nel 1960 fino al
1970, anno della sua morte.
La traduzione del Don Chisciotte di Bodini venne pubblicata nel 1957 da Einaudi nei
Millenni (riedita nel 1964- 65 e nel 1972).
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MIGUEL DE CERVANTES, Don Chisciotte della Mancia, traduzione e note di Gherardo Marone, Torino,
UTET, 1960 (riedizione) pag. 8.
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CESCO VIAN
Su Cesco Vian non ci sono biografie. Tuttavia alcune informazioni ci sono state
fornite da Alessia Cassani, ricercatrice e collaboratrice della rivista Spagna
contemporanea, che lo intervistò nel 1998.
Cesco Vian, nativo di Venezia, studiò all‟Università Cattolica di Milano. Dal 1934
iniziò a occuparsi di ispanismo grazie alla sua tesi di laurea su Sor Juana Inès de la
Cruz.
Nel 1939, dopo un periodo di insegnamento all‟Istituto Magistrale Carlo Tenca di
Milano, si recò in Spagna come lettore di italiano all‟Università di Siviglia. Visse per
qualche tempo a Siviglia e a Valencia (dove ha aperto una sede dell‟Istituto Italiano di
Cultura) e poi a Madrid e a Santader. Nel 1944, tornato in Italia, iniziò a insegnare
all‟Università Cattolica. Ora vive nella costa ligure.
Ha tradotto, tra gli altri, Lope de Vega, Quevedo, Baroja, Asturia, il cubano Ortiz e,
ovviamente, Cervantes (Le novelle, Il Persiles).
Nel 1960, con la collaborazione di Paola Cozzi, pubblica la traduzione del Don
Chisciotte per L‟Istituto Geografico de Agostini, ripresa da Edipem nel 1982.
GIANNI BUTTAFAVA, ADA J. FELICIANI, GIOVANNA MARITANO
Di Giovanna Maritano non sappiamo nulla, tranne che è morta qualche anno fa. Ada
Feliciani insegna attualmente all‟Università degli studi di Torino.
Gianni Buttafava, invece, è nato a Sanremo da genitori lombardi e vive nella
provincia di Torino. Laureato in lingue straniere, è stato docente e preside in Licei e
istituti della provincia di Milano.
Ha tradotto Il teatro scelto di Calderòn de la Barca (ediz. Bietti 1971) e ha curato i
volumi Lope de Vega, Quevedo e Galdòs per la collana mondadoriana “I Giganti della
letteratura“ (1977). Nel 1991 ha pubblicato una versione commentata del trattatello
ottocentesco francese L’arte di annerire la pipa. Sue poesie sono apparse
nell’Almanacco dello specchio (1981) e la raccolta Sirmionesi, in punto di vita è uscita
per le Edizioni del Leone nel 1990.
Interessante sapere come è stata realizzata la traduzione del Don Chisciotte (per
questo ringrazio la Professoressa Feliciani e il Professor Buttafava che mi hanno dato la
loro testimonianza).
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Giovanna Maritano, Ada Feliciani e Gianni Buttafava sono stati, per tre anni, assistenti
di Juana Granados de Bagnasco, ordinario di Lingua e Letteratura Spagnola e
Coordinatrice della Sezione di Ispanistica dell‟Università Bocconi di Milano e colei che
ha curato l‟introduzione alla loro traduzione.
Per loro stessa ammissione la proposta di tradurre Cervantes fu accettata con
entusiasmo e considerata un lavoro comune. Ma forse i tre erano troppo giovani e
timorosi del confronto con le traduzioni precedenti di Giannini, Carlesi, Bodini e,
successivamente, il gruppo di sciolse.
La loro traduzione fu pubblicata nel 1967 da Bietti.
LETIZIA FALZONE
Di Letizia Falzone non abbiamo nessuna informazione biografica. Sappiamo solo che
tradusse molto dallo spagnolo, soprattutto i testi di Santa Teresa D‟Avila.
La sua traduzione del Don Chisciotte fu pubblicata nel 1971 nell‟ambito dell’Opera
Omnia di Cervantes dell‟editore Mursia (ripresa poi da Garzanti nel 1974).
VINCENZO LA GIOIA
Di La Gioia, morto nel 1998, non sappiamo molto: ci è sconosciuta la sua origine
mentre ci è noto che fu un ingegnere e viaggiò molto per lavoro, fermandosi per un
breve periodo anche nel sud America.
Una testimonianza importante è data da Pietro Boitani, in un‟intervista del 2005 per
www.riflessioni.it, che collaborò con La Gioia per la traduzione di Chaucer (I racconti
di Canterbury nel 1991 e Le Opere, pubblicate nel 2001):
La Gioia non ha mai avuto paura: ha affrontato l'impresa con spavalderia e umiltà,
lasciandosi continuamente correggere, ma "riscrivendo" in maniera geniale. Ha
impiegato la bellezza di quindici anni a tradurre in sostanza tutto Chaucer, e io ho
passato questi bellissimi anni a rivedere le traduzioni, parlare con lui, mandargli fogli
sottolineati in rosso, dirgli di no, scherzare, prendermi le sue battute ironiche sui
professori universitari. Lo slancio è stato comune, ma l'ispirazione è sua. Il fatto è che
Vincenzo aveva introiettato Chaucer: lui si sentiva Geoffrey, pensava e rideva come il
poeta, modulava i suoi versi dentro di sé. Si tratta di un' "arte" unica, non quantificabile,
impossibile da descrivere o insegnare: l'arte del trovatore e insieme dell'ingegnere (e
Vincenzo La Gioia era per l'appunto un ingegnere!).
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Da queste parole si ricava la grande passione di La Gioia per la traduzione. Passione
che egli stesso aveva testimoniato in un intervento durante la sesta Giornata Cervantina
svoltasi a Padova nel 1998 (Atti della sesta giornata cervantina 1998: 155):
il mio destino di traduttore del Chisciotte si andava […] delineando, ma la svolta
decisiva in quella direzione venne dal nostro trasferimento in Argentina [...] ebbi modo
di stabilire una cordiale amicizia con «el ingenioso hidalgo» e il suo scudiero, e ciò fra
disparate altre letture di testi antichi medievali […] ormai dieci anni or sono, decisi di
cimentarmi nella traduzione di alcuni testi poetici.
La Gioia pubblicò la sua traduzione del Don Chisciotte nel 1997 per Frassinelli.
II. EDIZIONI CRITICHE
Prima di vedere il risultato dell‟analisi è necessaria una premessa sulle edizioni
critiche del Don Chisciotte.
Leggendo vari studi (REGUERA 1997, RICO 1998, MURILLO 1975) appare chiaro
che l‟esegesi del romanzo di Cervantes è sempre stata complicata. Un primo motivo è
dato dalla vicenda editoriale dell‟opera già nelle due originarie pubblicazioni: le due
parti sono state pubblicate con una distanza di dieci anni in cui l‟autore ha modificato il
racconto (soprattutto i capitoli relativi all‟asino di Sancio nella prima parte). Un
secondo fattore è stata la grande diffusione e il successo che ebbe il racconto che portò
alla creazione di un alto numero di copie.
REGURA 1997 e RICO 1998 hanno riassunto i tentativi di creare una edizione critica
affidabile e epurata dalle correzioni errate precedenti. RICO lo ha fatto in modo
diacronico, REGURA, invece, descrivendo soprattutto le ultime teorie, a partire dallo
studio di Flores che dimostrò come già dalla prima edizione, quella pubblicata in vita da
Cervantes presso Juan de la Cuesta, il testo fu soggetto a varie manipolazioni e
correzioni da parte degli stampatori.
Le tecniche utilizzate per ottenere un testo critico unico furono molteplici e mai del
tutto soddisfacenti tanto che REGUERA (1997: 22) arriva a dire che «del análisis de los
criterios que siguen estas diferentes ediciones del Quijote cabe deducir que no se cuenta
en la actualidad con un texto fijado con precisión. Un texto que se pueda denominar
“canónico”, “definitivo”, algo así como la “Vulgata” del Quijote».
Alla luce di ciò verrebbe da dire che la comparazione tra le versioni sia impossibile.
Tuttavia non è così perché le differenze tra le varie edizioni critiche sono minime e in
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punti che non inficiano le traduzioni né il lavoro di spoglio e di analisi che stanno alla
base di questo elaborato. L‟unica variazione rilevante, infatti, è quella sul furto
dell‟asino di Sancio ma, proprio per questo, non è stata inclusa nello spoglio.
Il mio riferimento per il testo spagnolo è stato RICO 1998. I traduttori italiani del
Novecento hanno fatto riferimento principalmente a Francisco Rodriguez Marín
(Buttafava e Feliciani a Angel Valbuena Prat, 1956). Purtroppo, per Curzio, Hochkofler
e Vian ci è stato impossibile ottenere questo dato.
Desidero ringraziare la Professoressa Donatella Pini il cui aiuto è stato
fondamentale per comprendere l‟opera e il linguaggio di Cervantes e i cui suggerimenti
sono stati necessari per l‟analisi dello spagnolo presente in questo elaborato.
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1. LESSICO
Premessa
Il Don Chisciotte è un testo complesso da tradurre per i molti registri linguistici che
presenta e che vanno a incidere nella resa in italiano, soprattutto per quel che riguarda il
lessico. Si è cercato, però, di separare le diverse variabili e i livelli lessicali partendo
dalla conoscenza letteraria dell‟opera e dei traduttori.
Il capitolo è stato così diviso in tre parti: nella prima si sono considerate
specificatamente le varianti diacroniche presenti nelle traduzioni per attestare se e come
è cambiato il patrimonio lessicale italiano nel corso del secolo, cercando di fare dei
rimandi anche alla motivazioni stilistiche, ma senza dimenticare il forte influsso dello
spagnolo.
La seconda parte, invece, è incentrata sulle varianti diatopiche motivate dall‟influenza
degli italiani regionali sui traduttori. Gli italiani regionali sono la vera realtà parlata in
Italia (MENGALDO 1994: 96) e, dunque, non sorprende di rilevarne elementi, da
considerarsi come infiltrazioni involontarie nel narrato, e altre volte, invece, giustificati
dall‟intenzione di rendere il linguaggio di alcuni personaggi, soprattutto quello di
Sancio Panza.
Da ultimo si è tentato di abbozzare una breve analisi delle singole traduzioni facendo
riferimento alle conoscenze biografiche che possediamo dei traduttori e deducendo
molti dati anche dalle loro scelte linguistiche poiché se non sono esaminati come
letterati o autori, di cui analizzare un particolare gusto stilistico, per valutare le loro
traduzioni bisogna considerare soprattutto la loro conoscenza attiva e passiva
dell‟italiano. Dato che una lingua è basata principalmente su fattori convenzionali ed è,
perciò, modificabile, ogni parlante, soprattutto se madrelingua, crea e assorbe tutte le
variazioni in base alla propria preparazione accademica, alle proprie origini e al periodo
in cui è vissuto. Da ciò ci si aspetta, per esempio, che un professore universitario come
Vian e un ingegnere come La Gioia abbiano percepito variazioni differenti, che il
toscanismo di Carlesi spicchi nella sua traduzione o che ci sia una differenza tra le
traduzioni degli anni venti e quelle degli anni cinquanta e novanta. Si veda allora, per
meglio chiarire, un esempio concreto: l‟uso di orbace nel primo capitolo dell‟opera.
CERVANTES: velludo