CAPITOLO I
“IL FERRO”: STORIA DEL TESTO E DELLE PERFORMANCES
V olendo ripercorrere la genesi, l‟elaborazione testuale e la messa
in scena dell‟ultima opera teatrale di Gabriele D‟Annunzio, è necessario
ridefinire in senso cronologicamente corretto le tessere della realtà
sconvolte dal passaggio del tempo e scomposte dalle varie intenzioni e
convinzioni dei critici che hanno cercato di illuminare il 1913 di
D‟Annunzio e quella sua opera teatrale (in verità spesso negletta) che è Il
Ferro. Dunque, si comincerà inevitabilmente da quella notizia che numerosi
studiosi hanno ripetuta, ovvero che D‟Annunzio avrebbe ideato Il Ferro
almeno due decenni prima della sua stesura definitiva: “D‟Annunzio torna
al genere tragico con un testo che aveva addirittura annunciato nel 1896”
sostiene Andrea Bisicchia. Riporto il passo della lettera al Treves datata 18
luglio 1912+1, ovvero 1913 per l‟abruzzese superstizioso, nel quale lo
stesso autore sentenzia:
Il Ferro dev‟essere stato annunziato almeno vent‟anni fa.
Perciò D‟Annunzio avrebbe accennato ad un simile progetto allorché si
avvicinò all‟avventura teatrale, facendo della stessa pièce quasi un obiettivo
della sua drammaturgia, obiettivo evidentemente non raggiunto con altre
opere se non con quest‟ultima. Infatti, forse, riprendere nel 1913 un
soggetto tanto simile a quello inscenato con La Fiaccola sotto il moggio nel
1905, significava che l‟autore, non soddisfatto del risultato a cui era
pervenuto, cercava una resa migliore di quel soggetto. Piero Chiara fornisce
1
nuove indicazioni sulla lunga preistoria ideativa subita dall‟opera in
questione: parlando de Il Ferro afferma: “si trattava di una ripresa di quella
Hache (L‟Ascia) che aveva annunciato più volte al Treves nel 1910 e nel
1911”. D‟Annunzio del resto annuncia La Hache anche al “Corriere della
Sera” del 13 gennaio 1911. È solo Walter Faglioni che riesce a chiarirci le
ragioni e il destino de La Hache: per il critico questo testo drammatico era
stato promesso dal D‟Annunzio “a Madame Simoni, celebre attrice, che era
appartenuta fino a poco tempo prima alla compagnia del Théâtre Français”,
poi però, invaghitosi di un‟altra attrice, egli avrebbe derubricato il soggetto,
salvo riesumarlo nel 1913.
Nell‟Agosto del 1913 D‟Annunzio si ritira nella villa di
Arcachon, sua grande fonte di ispirazione, per la stesura de Il Ferro,
promesso (stavolta) pochi mesi prima ai direttori del Théâtre de la Porte
Saint-Martin, a detta di Pierre de Montera, o all‟impresario Adolfo Riccardi,
come invece tende a ricostruire Piero Chiara. Quel che ha procurato un più
elevato contrasto di opinioni tra critici e biografi è la scelta linguistica con
la quale il poeta avrebbe ideato in principio e quindi composto il dramma.
Pierre de Montera riferisce dell‟amicizia tra D‟Annunzio e il marchese di
Casafuerte, Alvaro de Toledo, il quale, conoscitore del francese sebbene di
origine spagnola, avrebbe scelto di collaborare alla stesura de Il Ferro,
persuadendo il tragediografo ad utilizzare la madrelingua, in quanto il
dramma moderno necessitava di “un langage spontané, naissant
naturellement, presque automatiquement”; in seguito lo stesso marchese
avrebbe volto in francese il dramma. Viceversa, Walter Faglioni congettura
che D‟Annunzio abbia scritto direttamente in francese l‟opera, con il titolo
Le Chevrefeuille, per poi trascriverla in italiano. Anche Mario Apollonio è di
questo parere: “Più tardi, nel Chevrefeuille, [D‟Annunzio] poteva cercare
2
l‟intesa con il pubblico di Francia servendosi di modi scenici del teatro
borghese, non importa quanto impreziosito dal suo stile, in quella lingua
così disinvoltamente accentata che traduceva in desinenze francesi il lessico
e la sintassi dannunziana, ed era così poco impegnativa, in tal caso,
l‟espressione formale che poteva tradursi nel Ferro”. A noi basterà citare un
passo di una lettera ad Emilio Treves, datata 8 settembre 1912+1, in cui
D‟Annunzio confida all‟amico editore:
Ho passato giorni penosi nella perplessità bilingue. Finalmente ho risoluto di scrivere il
drama in italiano e di preparare poi il testo francese. Così liberato ora lavoro con più lena
e con più gioia.
Ma, come era prevedibile, il passaggio dall‟una all‟altra lingua non fu
delegato totalmente all‟arbitrio di Alvaro de Toledo: D‟Annunzio scelse di
intervenire sulla traduzione del suo sodale imponendo al testo numerosi
italianismi e varie sostituzioni lessicali. Di seguito riporto alcuni esempi di
questa tendenza cui possiamo accedere consultando il lavoro di Pierre di
Montera, il quale ha indagato (oltre all‟autografo de Il Ferro) tutti i
manoscritti inerenti la genesi del dramma oggi presenti negli archivi del
Vittoriale degli Italiani. D‟Annunzio, spesso, sostituisce brani della versione
del suo sodale troppo difformi dalla propria selezione lessicale originaria, ad
esempio: se il marchese traduce inizialmente la frase della Rondine bagnata
dalla pioggia “sono tutta molle” con “je suis toute inondée”, D‟Annunzio
correggerà con “je suis toute trempée”. Altre volte tende ad impreziosire il
testo francese del marchese, ad esempio: se quest‟ultimo scriverà (tra
parentesi e in corsivo le didascalie) “Pierre Dagon: Quelles grandes choses
vous osez nommer à l‟approche de la nuit! (Le pluie cesse. Le calme est
interrompu. La-bas, déblayé, l ’extrême crépuscule verdit le long des murs
aveugles de feuillages immuables)”, D‟Annunzio allora sostituirà il tutto
3
con “Pierre Dagon: Quelles grandes choses vous osez nommer à l‟approche
de la nuit d‟argent. (La pluie cesse. Il semble que sur ces mille et mille
cordes se couche le silences et se mire dans l ’extrême crépuscule, qui verdit
le long des grands murs aveugles, indiciblement)”. Altrettante volte ancora
D‟Annunzio si trova a emendare le espressioni di Alvaro de Toledo che non
riescono a custodire il valore e il significato originario, ad esempio: se il
marchese traduce le parole del D‟Annunzio “Scoppii d‟allegrezza” con
“V ous débordez de joie”, il drammaturgo non può accettare l‟espressione
francese troppo poco energica e perciò la sostituisce con “V ous brillez
d‟allégresse”. Ma in questo modo l‟autore sembra compiere un errore come
avverte Pierre de Montera: “il commet un italianisme, briller n‟ayant jamais,
en français, le sens italien de brillare, esplodere”. Questa osservazione mi
permette di introdurre un‟altra costante dell‟intervento dannunziano sul
testo francese, ovvero l‟aggiunta, per l‟appunto, di numerosi italianismi. Si
guardi, una su tutte, alla frase iniziale “V‟è un sapore in me più buono che il
sapore dell‟aria”, tradotta da Alvaro de Toledo con le parole “une saveur
bien meilleur”, le quali furono subito modificate dal drammaturgo con
l‟italianismo “encore plus bonne” il quale risulta “parfaitement incorrect”.
Solo più tardi, riconoscendo l‟errore, D‟Annunzio ripristinerà la versione di
Alvaro de Toledo. Tali disaccordi tra l‟autore pescarese e il marchese di
Casafuerte non sono comunque eventi anomali nella storia delle traduzioni
francesi delle opere di D‟Annunzio. Si guardi infatti al rapporto esistente tra
il poeta e Georges Hérelle, bene illustrato da Giovanni Parenti, che tanto
ricorda quello tra Alvaro de Toledo e lo stesso D‟Annunzio: “Dietro le
differenze di gusto e delle convinzioni estetiche dell‟uno e dell‟altro, la
disputa può ridursi in sostanza alla contrapposizione di due princìpi, quello
dell‟analogia difeso da Hérelle fino all‟intransigenza, e quello dell‟anomalia
4
propugnato da D‟Annunzio. Se da una parte l‟accusa più ricorrente è di
avere «francisé» i propri testi, per un puntiglioso amore della chiarezza che
conduce ai vizi simmetrici della perifrasi e della semplificazione della
complessità originale, dall‟altra si rilancia che le soluzioni suggerite da
D‟Annunzio sfidano spesso la norma grammaticale con costrutti goffi,
improprietà e barbarismi che danno al suo francese l‟aria di essere tradotto
da uno scolaretto maldestro”. Ma torniamo alla traduzione de Il Ferro. C‟è
da dire che, spesso, il testo francese incorre anche in mutamenti
contenutistici rispetto all‟analogo scritto italiano. Quello più evidente è la
sostituzione dei nomi dei personaggi e, dunque, pure delle loro
connotazioni: Bandino Guinigi diventa Ivain de la Coldre; Giana Guinigi
acquisisce il nome di Helissent de la Coldre; Gherardo e Costanza Ismera
diventano rispettivamente Pierre e Laurence Dagon; Mortella ottiene il
nome di Aude. È evidente che con il nuovo nome del casato (de la Coldre)
D‟Annunzio innesta nel suo dramma la memoria viva del mito di Tristano e
Isotta. Infatti, un‟altra variazione contenutistica è l‟inserzione del “Lai du
Chevrefeuille ” di Maria di Francia (da qui il titolo del dramma francese),
che verte proprio sul mito suddetto. Tali varianti hanno sicuramente la
funzione di consolidare la nuova ambientazione francese de Le
Chevrefeuille. Difatti si passa da una “antica villa toscana” a “une vieille
maison de plaisance bâtie à l‟italienne non loin de la Méditerranée
occidentale”. Infine si può rilevare, collegata all‟ingresso del mito nel
dramma, la variante contenutistica per cui ai “disegni minuti, in verde e in
nero” del testo italiano si appaia “la devise […] de la coldre et du
chevrefeuille”.
Per arrivare ad una scansione temporale più definita
dell‟elaborazione testuale del dramma si può citare un‟altra lettera spedita
5
da D‟Annunzio al Treves, quella che reca la data del 18 Agosto 1912+1, la
prima data certa riguardante la stesura de Il Ferro, nella quale il
drammaturgo afferma:
mi rimetto al lavoro che faccio rappresentare in novembre a Parigi e in Italia, il mio
dramma moderno intitolato Il Ferro.
La redazione dell‟opera è scandita da altre tre date, apposte dallo stesso
autore in calce agli atti nel manoscritto del dramma: “Domenica/ 21
Settembre 1912+1 (Equinozio d‟autunno) a mezzo giorno” al termine del
primo atto; “2 Novembre 1913” al termine del terzo e ultimo atto; inoltre,
Pierre de Montera, esaminando le carte del Vittoriale, è in grado di
informarci anche della data in cui fu terminato il secondo atto: “Martedì, 14
Ottobre 1912+1 a mezzogiorno. San Callisto papa e martire”. Non a caso
D‟Annunzio data i suoi atti a questo modo: il primo atto, che termina con
l‟ingresso progressivo nelle tenebre dei personaggi, cade nell‟equinozio
d‟autunno; il secondo atto, che vede il consolidamento della figura di
Mortella come di una vera e propria martire, si compie nel giorno in cui si
commemora un grande martire cristiano; il terzo atto, macchiato dal sangue
e segnato dalla morte, vede il suo termine nel giorno dei morti. Da segnalare
che D‟Annunzio, non appena terminato il secondo atto, consegnò il testo
fino a quel punto steso ai proprî attori che, nonostante le perplessità del
poeta, erano Charles Le Bargy e Berthe Bady. Ora, la compagnia di attori
lesse con cura il primo e il secondo atto de Il Ferro nella versione francese
de Le Chevrefeuille e subito incominciò a protestare. La protesta
si mutò in una vera insurrezione quando essi si sentirono dire dall‟impresario che
bisognava recitare tutto integralmente o andar via. La Megard e il Le Bargy preferirono
andarsene, ma gli altri attori rimasti non si dichiararono convinti; il dramma per essi non
era recitabile […] D‟Annunzio salì in treno e fece il lungo viaggio da Arcachon a Parigi,
e qui giunto, discusse, pregò, ma infine l‟ostruzionismo degli attori trionfò, e
6
D‟Annunzio tornò al suo romitaggio, nella landa, rassegnato a rifare il suo lavoro.
Ebbene, prestando fede a tale notizia, possiamo dire che se questa protesta
degli attori non è altro che l‟ennesima riprova dell‟urto del teatro
sperimentale dannunziano (in cui si introduce la determinante figura del
regista) contro la tradizione capocomicale, questa dicotomia causò però
(cosa mai accaduta prima) diverse correzioni da parte dell‟autore sul suo
testo, “per quel desiderio assoluto di essere obbedito fino alla chiusura del
sipario”. Correzioni che piacquero agli attori se è vero che, stando al
“Corriere della Sera” del 5 novembre, Le Bargy e Bady molto si
appassionarono alla lettura del testo modificato. Comunque sia, tale
rimaneggiamento del testo aveva ormai causato lo slittamento della prima
teatrale dalla metà di novembre (cfr. la lettera di D‟Annunzio al Treves del
18 Agosto 1913 sopra riportata) alla metà di dicembre del 1913. Una volta
completato Le Chevrefeuille, D‟Annunzio, sempre abile a vendere il suo
prodotto, annuncia sul “Figaro” del 12 dicembre la sua nuova opera,
parlando di
una vera tragedia moderna concepita con l‟ambizione di ricondurre in scena l‟ultima
sorella dell‟antica Elettra.
La prima teatrale si consuma il 14 Dicembre del 1913 al Théâtre de la Porte
Saint-Martin di Parigi. Giovanni Antonucci ci informa che la regia del poeta
fu mistificata dagli attori in scena, i quali “recitarono l‟opera come se fosse
uno di quei drammi alla Bataille e alla Bernstein che erano a loro cari”. Così
riferisce Renato Simoni, presente alle prove generali, nel “Corriere della
Sera” di quel giorno: “Vi fu negli attori, nel Le Bargy specialmente, più
enfasi che commozione”. A proposito del rapporto tra l‟autore e i suoi attori
7
basterà citare la lettera con cui D‟Annunzio manifesta al Treves la sua
delusione per la scarsa presenza di spettatori alle repliche: “gelosie, invidie,
bassezze, congiure, frodi, viltà di ogni genere” avevano attanagliato la
compagnia condizionandone le performances. Nonostante tutto, l‟esito della
prima fu un parziale successo, benché, come già detto, le repliche furono
disastrose, tanto che il 26 dicembre Le Chevrefeuille fu sostituito dal
Cyrano. Ora, prima di portare il dramma sulle scene italiane, stando ad
Andrea Bisicchia, “D‟Annunzio intervenne sul testo e, forse per la prima
volta, ascoltò alcuni disappunti della critica”. Alleggerendo la sua prosa
riuscì a dare maggiore concisione all‟azione drammatica. Il Ferro fu
rappresentato in Italia il 27 gennaio, contemporaneamente al Teatro Valle di
Roma, al Carignano di Torino e al Manzoni di Milano. Tali allestimenti
conseguirono esiti vari, come ci indica uno tra i più affidabili studiosi del
teatro dannunziano: Emilio Mariano. Il testo de Il Ferro, in seguito, fu edito
dal Treves nel corso del 1914, dopo essere stato anticipato a puntate nei
numeri 3, 4 e 5 della rivista “Lettura”, usciti tra il marzo e il maggio dello
stesso anno. Di poi il dramma, tanto nella sua versione italiana quanto in
quella francese de Le Chevrefeuille (cosa che non era accaduta per la
fondamentale La ville morte) fu inserito nell‟Opera Omnia del 1926 per
volontà dello stesso autore. Riprese de Il Ferro vi furono nel 1953, per la
regia di Corrado Pavolini nella Pineta di Pescara; nel 1977, al Teatro del
Vittoriale con la regia di Orazio Costa; nel 1984, a Marina di Pietrasanta,
regia di Nino Mangano e nell‟estate del 1994 diretto da Aurelio Pierucci.
Il Ferro ha da sempre occupato una posizione marginale
nell‟interesse dei critici, i quali spesso, come del resto per altre opere
dannunziane, hanno liquidato il dramma talora con stroncature radicali,
talora con sdegnosa noncuranza. Ad esempio, Eurialo de Michelis parla di
8