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NAZIONALISMO E IMPRESE COLONIALI ITALIANE
L‟inizio della letteratura coloniale, in Italia, può essere collocato verso la fine
dell‟Ottocento, nel periodo dei pochi anni che trascorrono tra la sconfitta di Dogali,
nel 1887, e il disastro di Adua, nel 1896. Non tanto perché l‟esperienza della disfatta,
specie dopo Adua, era destinata a segnare in modo significativo la produzione
letteraria d‟argomento coloniale e a pesare sulla coscienza degli autori per lungo
tempo, addirittura fino all‟inizio della campagna di Libia, quanto perché le due
battaglie, con i loro esiti mortificanti per l‟orgoglio della giovane nazione,
intensificavano il dibattito sull‟opportunità di una politica culturale italiana, acuivano
la consapevolezza del problema, scatenavano – specie nelle convulse giornate di
sommosse e di protesta che seguivano la notizia del disastro militare del ‟96 –
l‟opinione pubblica, e finivano insomma per coinvolgere in vario modo, nella
costruzione dell‟immagine del mondo coloniale, gli “specialisti” della letteratura.
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Giovanna Tomasello inizia così la sua antologia della letteratura coloniale italiana,
permettendoci subito di contestualizzare i sentimenti diffusi non solo tra gli intellettuali,
ma anche tra il popolo.
Alla fine dell‟Ottocento, gli statisti italiani riconobbero che la giovane patria dovesse
abbandonare la sua politica di disimpegno da ogni vincolo diplomatico, creando piuttosto
alleanze che avrebbero tutelato gli interessi del paese. Si andava verso i patti della Triplice
Alleanza che per l‟Italia vedevano più impegni che garanzie, ma che, con la rinegoziazione
successiva del 1887, diedero maggiori sicurezze alla nazione. Nel 1882, infatti, lo Stato
italiano acquistò la Baia di Assab in Eritrea ed assunse l‟amministrazione sul territorio
circostante muovendo così i primi passi verso il colonialismo e diffondendo fiducia nelle
politiche che si stavano seguendo. Inversamente arrivò un duro colpo per la nazione e per il
governo De Pretis. Il 26 gennaio 1887 una colonna di 500 soldati italiani cade in
un‟imboscata e viene annientata. È la “sconfitta di Dogali”, un eccidio dal quale la nazione
riuscì a riprendersi grazie ad un clima di ottimismo che veniva dal trattato di Ucialli del
1889 e la successiva proclamazione della colonia d‟Eritrea, seppur l‟opinione pubblica subì
un duro scossone. Proprio quell‟opinione pubblica che, come riporta un articolo del 1885
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G. TOMASELLO, L’Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana, Palermo, Sellerio,
2004, p. 11.
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della Gazzetta Piemontese, era attenta al tema coloniale:
Non è ancora un secolo che L‟Africa veniva appena degnata di uno sguardo di
commiserazione; oggi è quasi, direi, sulla bocca di tutti. Se ne occupa con ansietà il
popolano che spende volentieri il suo soldo per comprare il giornale che ne parli;
come lo scienziato che nella solitudine del suo gabinetto esamina, studia, compara
l‟immenso materiale che viene oggi di più ammassandosi per la conoscenza di questa
terra di enigmi.
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L‟interesse della gente per la politica estera (e lo sforzo del governo a renderla
interessante), nonché per il territorio africano, è comprensibile anche dalle scelte editoriali
che vanno dalle pubblicazioni di esploratori e missionari, a periodici ed importanti lavori
geografico-politici, come quello svolto dal ministro Martini, presto governatore d‟Eritrea
per il governo Crispi, dapprima contrario alle spedizioni, ma poi convertitosi ad un
“prudente e pacato colonialismo”.
L‟Italia vuole entrare in Africa e non lo vuole fare solo con le armi ma anche con le menti,
ed ora che è nazione vuole essere grande. Deve quindi sensibilizzare l‟opinione pubblica
alle sue azioni politiche. Da nazione però, deve fare anche i conti con molti fattori avversi,
tra cui un governo instabile e diverse correnti ideologiche contrastanti.
Come sappiamo nel 1891 il governo Crispi cade cedendo il posto a Giolitti e tornando però
al governo nel 1894 dopo gli scandali di quest‟ultimo.
Giolitti era ritenuto una persona debole, che non sapeva tenere a bada le agitazioni interne
al paese, quindi Crispi si ripresentò come “l‟uomo forte” che avrebbe ridato ordine e
solidità all‟Italia e, insieme a questo, ripresa una viva campagna coloniale. Lo stesso Crispi
ispirava le smanie di grandezza dell‟Italia, ritenendosi l‟unico uomo capace di ridare
dignità alla nazione riconquistando il posto d‟importanza che le spettava in Europa. e
sostenendo ardentemente le imprese d‟Africa.
Per un resoconto del suo lavoro, in Italia Moderna, Volpe scrive:
Poco Crispi realizzò, da ministro, di quanto gli ferveva nella mente, nell‟animo. Fu
quasi cacciato dall‟Africa,[…]. All‟interno i partiti gli si levarono contro e si
coalizzarono ai suoi danni, socialisti, repubblicani, democratici, moderati […].
Aveva invocato solidarietà di classe; lavoro e proprietà, associati con eguali diritti in
uno sforzo comune di fronte all‟estero. Viceversa ebbe, vivo ancora, quasi la guerra
civile. Anelava alla vittoria militare e considerava prima dovere suo e di ogni
governo prepararla, stanco com‟era di quel nostro esaltare gloriose sconfitte. Invece
gli toccò Adua[…].
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Si contarono più di 10000 tra morti feriti e prigionieri nell‟impresa di allargare i propri
domini africani verso l‟Abissinia. Lo stesso Di Rudinì, che siglerà con Menelik il trattato
post-battaglia, affermerà che l‟esercito italiano era in guerra con la più scarsa preparazione
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Ibidem.
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G. VOLPE, Italia Moderna, Firenze, Sansoni, 1943, vol. 1, p. 418.
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e in condizioni tali che qualsiasi esercito sarebbe stato sopraffatto.
Era una politica di potenza ed espansione che mancava di basi economiche e culturali che
le potesse dar ragione e successi.
L‟Italia, infatti, non aveva un recente passato di gloria e ricchezza, ma di povertà e
arretratezza: mancava di un sistema organico di trasporti, di una diffusa industrializzazione
e di sviluppo dell‟agricoltura soprattutto al meridione. Più che andare alla conquista di
terre straniere dove esportare capitali che la giovane nazione non aveva, bisognava
allargare il mercato interno ed alzare il tenore di vita della massa soprattutto contadina e
dare possibilità e presupposti per un ragionevole sviluppo industriale. Occorreva quindi
risolvere problemi politici, economici e finanziari: parlare di riforme e non di gloria e
conquista.
Queste azioni nell‟Italia di allora aiutarono il sorgere di passioni e miti e di un
nazionalismo retorico che ebbe vasta eco anche in letteratura.
Lo Chabod nella sua Storia della politica estera italiana, scrive:
Perfino uomini noti per il loro antimilitarismo in genere sentivano che qualche cosa
mancava all‟Italia nuova, ed era per l‟appunto la gloria delle armi: e non ultimo lo
osservò il bardo della democrazia, il Cavallotti, il quale esortò i colleghi deputati a
non dimenticare „che l‟Italia sconta da 15 anni ancora nella sua posizione in Europa,
sconta ancora e amaramente il castigo della mancata fortuna nelle armi; e finché
questa fortuna un giorno non le sorrida in qualche battesimo cruento, non avrà mai
tra le nazioni quel posto che sia degno dei suoi nuovi destini.
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Altri invece, come il Conte Francesco Papafava dei Carraresi, radicale illuminato, ha
un‟altra idea delle azioni italiane, riportata nel Giornale degli Economisti del 1899: parla di
rivincita facendo breccia tra i cuori dei nostalgici del Risorgimento piuttosto che di
conquista coloniale,
Custoza ci ha stroncato. Non con africani, ma con l‟Austria era aperto il conto. Non
c‟è girata per certe cambiali. L‟Italia s‟è arricchita, ed è dotta, letterata, artista, è
all‟altezza dei nuovi tempi democratici e umanitari, e anche parla della sua missione
di pace nel mondo. Ma quanta ricchezza, quanta gloria d‟arte, di scienza e di
democrazia umanitaria daremmo, pur di cancellare la sconfitta del ‟66 che tutt‟ora ci
morde e ci lima! Quanta ironia nella missione di pace di chi fu inetto alla guerra!
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Salinari, nel suo Miti e coscienza del decadentismo italiano, riferendosi all‟Italia post-
unitaria parla di frattura psicologica tra le generazioni. Quello che prende potere è un
nazionalismo giovane, di popoli giovani che vogliono affermarsi e sostituire le vecchie
potenze. La realtà, soprattutto per quanto riguarda l‟Italia, è ben diversa e le nuove
generazioni la sentono lontana dall‟eroismo risorgimentale. Il Risorgimento e tutto quello
che ha significato per l‟Italia appare tradito da una classe politica votata alla corruzione e
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F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza, 1951, vol. 1, p. 14.
5
F. dei CARRARESI, Dieci anni di vita italiana, Bari, Laterza, 1913, p. 672.
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alla viltà.
Il nazionalismo, forte di ideologie risorgimentali non ancora sopite, subiva nello stesso
tempo un processo di mutamento influenzato, se non altro, dalle scienze positive e dal
naturalismo:
[…] al concetto di nazione come volontà, come fatto morale, come coscienza e
libero consenso dei popoli, si andava sostituendo un concetto più naturalistico e
meccanicistico fondato sugli elementi della lingua, della geografia, del sangue e della
stirpe. S‟imponeva così il mito dei popoli giovani […] come il tedesco, l‟italiano, il
giapponese, l‟americano che erano destinati, per il diritto di sangue, a sostituire i
vecchi e a imporre il proprio dominio sull‟Europa e sul mondo.
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Contraddittoria, l‟Italia mostra una realtà squallida: corruzione, corsa per l‟assegnazione di
uffici pubblici, compromessi parlamentari, clientelismo, politica estera rinunciataria, una
classe borghese giudicata avida, priva di ideali ed incapace di mettersi al servizio della
patria. Le colpe di ciò si attribuiscono al regime parlamentare e democratico che
infiacchisce le nazioni, proprio perché alla base ha il livellamento delle personalità. Tutto
ciò non poteva altro che far esaltare i miti di gloria e conquista, proprio perché così lontani
dalla tangibile realtà del paese.
In questo c‟è una forte spinta da parte degli intellettuali che offrivano – come indica la
Tomasello nella sua antologia –
[…] una visione storica ampia, in grado di sfumare la crudezza dei dati, in una rete di
valori millenari, di significati superiori capaci di attraversare i secoli e orientare il
nesso degli eventi.
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In quest‟ottica si inserisce l‟opera di Oriani. Il suo spiritualismo storico valuta l‟impresa
africana come un‟azione necessaria in quanto interna ad un “processo generale di
civilizzazione”. Il significato economico della conquista è mera menzogna della storia e
dei governi per dare vita, nella realtà, ad una azione culturale e di civiltà. Le iniziative
umane, che siano esplorazioni, istituzioni di rapporti economici, la conquista stessa, gli
scambi commerciali, così come la rivolta, fanno parte di un grande processo di
unificazione mondiale e Oriani parteggia per le nuove realtà nazionali che si formano
attraverso i processi di colonizzazione necessari e non per le ulteriori conquiste delle
vecchie nazioni avanzate.
Dopo la sconfitta di Adua si accentuarono le tensioni sociali che già minavano la nazione e
che Crispi aveva tentato di reprimere usando la forza. I giornali parlarono di proteste
contro il governo, di moti spontanei ai quali partecipò popolazione di diverse classi sociali,
proteste di quanti richiamavano il perduto onore militare. I contrasti interni al Parlamento
non portarono alla costernazione generale in tutte le compagini politiche , ma ci fu chi usò
questa sconfitta per denigrare l‟operato di Crispi; tra questi Giolitti che guiderà l‟impresa
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C. SALINARI, Miti e coscienza del Decadentismo italiano, Milano, La Nuova Italia, 1972, p. 46.
7
G. TOMASELLO, op. cit., p. 30.