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Introduzione
In questa tesi ci occuperemo di valutare le capacità di estrazione e fotometria di un pacchetto
operativo di recente implementazione finalizzato alla ricerca di sorgenti fredde pre e proto-stellari
appartenenti al disco galattico. Successivamente utilizzeremo il programma per studiare le
proprietà fisiche di sorgenti estratte su uno dei primi campi osservati nel lontano infrarosso dal
telescopio spaziale Herschel.
Le surveys osservative su grande scala a diverse lunghezza d’onda costituiscono uno strumento
osservativo di fondamentale importanza in molte aree dell’astrofisica moderna. L’estrazione e la
fotometria automatica delle sorgenti rappresentano quindi un tema di sempre maggiore rilevanza.
L’osservatorio spaziale Herschel, lanciato dall’ESA nel maggio 2009, è costituito dal telescopio più
grande mai stato nello spazio e da strumenti di ultima generazione capaci di realizzare fotometria
e spettrometria nel range compreso fra 55 e 670 µm. A queste lunghezze d’onda la polvere fredda
domina le regioni di formazione stellare nel piano galattico e tende ad assemblarsi in strutture
filamentose ben visibili nelle immagini prodotte da Herschel, generando un background
particolarmente intenso e variabile su tutte le scale. L’algoritmo testato costituisce il primo
tentativo di implementare lo stesso metodo di ricerca delle sorgenti utilizzato dall’occhio umano:
essere sensibili alle variazioni del segnale e non al suo valore assoluto. Le performances del codice
saranno valutate attraverso Artificial Sources Experiments condotti dapprima su mappe simulate
atte a rappresentare l’emissione dei campi galattici nel lontano infrarosso e in seguito
direttamente sui campi galattici osservati dal telescopio spaziale Herschel.
L’utilizzo del programma per estrarre un catalogo di sorgenti su uno dei primi campi osservati nel
lontano infrarosso dal telescopio spaziale Herschel ci offre la possibilità di illustrare e applicare il
metodo di classificazione che verrà utilizzato nell’ambito del Key-Project “Hi-GAL: the Herschel
infrared Galactic Plane Survey” per caratterizzare le sorgenti dal punto di vista evolutivo. Le regioni
di formazione stellare nelle vicinanze del Sole sono state a lungo le uniche in cui fosse possibile
distinguere le diverse componenti stellari. Tali regioni sono però dominate dalla presenza di stelle
di massa simile a quella solare. Pertanto la comprensione dei processi che preludono alla nascita
delle stelle massicce è ancora un problema aperto in cui è necessario confrontarsi con un
complesso sistema in rapida evoluzione costituito da diversi elementi (embrione stellare, disco,
jets e outflows) che si scambiano massa in un ambiente magneto-idrodinamico e nascosto
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dall’alta estinzione delle polveri che circondano l’oggetto centrale nelle prime fasi della sua
formazione. Come vedremo nel capitolo 1, nell’ambito della letteratura recente sono state
avanzate due teorie per la descrizione della formazione stellare d’alta massa nel tentativo di
colmare alcune lacune concettuali e forse di modificare profondamente la teoria standard della
formazione stellare che fa riferimento a corpi isolati ed è applicabile soltanto a stelle di massa
inferiore a circa 8 M
ʘ
.
La risoluzione spaziale senza precedenti garantita dal telescopio Herschel consente di sfruttare la
luminosità delle stelle di massa maggiore che le rende visibili a grandi distanze. Come mostreremo
nel capitolo 3, grazie alla copertura spettrale e alla risoluzione spaziale delle mappe sarà possibile
tracciare la Spectral Energy Distribution (SED) di inviluppi di polveri nelle prime fasi evolutive. In
particolare metteremo in evidenza il ruolo cruciale della distanza nella stima delle proprietà fisiche
delle sorgenti e la necessità di sviluppare algoritmi di bandmerging più sofisticati che consentano
in futuro di caratterizzare dal punto di vista evolutivo un vasto campione di candidate protostelle
nel piano galattico. In questo modo si avrà una stima della durata di ciascuna fase dell’evoluzione
e sarà possibile verificare la compatibilità dei diversi modelli proposti con le osservazioni.
Ringrazio sentitamente il Dott. Piacentini Francesco e il Dott. Molinari Sergio che sono stati sempre
disponibili a dirimere i miei dubbi durante la stesura di questo lavoro. Intendo poi sottolineare la
particolare disponibilità del Dott. Schisano Eugenio e degli altri ricercatori dell’Istituto di Fisica
dello Spazio Interplanetario (IFSI); in particolare il Dott. Elia Davide e il Dott. Pestalozzi Michele che
mi hanno fornito testi e dati indispensabili per la realizzazione della tesi. Infine, ho desiderio di
ringraziare i miei compagni di corso e i miei familiari per il sostegno ricevuto.
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cap.1 : Formazione stellare
1.1 INTRODUZIONE
1.1.1 Importanza delle stelle di alta massa
Le stelle di alta massa giocano un ruolo chiave nell’evoluzione dell’Universo. Sono le principali
sorgenti di elementi pesanti e radiazione ultravioletta. A differenza delle stelle di bassa massa,
infatti, la loro morte può avvenire come supernovae fornendo all’atmosfera galattica una grande
quantità di radiazione e iniettando nel mezzo interstellare elementi pesanti che arricchiscono e
cambiano la composizione chimica della galassia. Attraverso venti stellari, outflows, espansioni di
regioni HII ed esplosioni di supernova producono turbolenze che influenzano la dinamica galattica.
Anche i campi magnetici sono influenzati dall’evoluzione stellare d’alta massa, essendo generati
dall’interazione dei raggi cosmici con fronti d’urto di supernove (Riquelme&Spitkovsky, 2010). I
raggi cosmici, la radiazione ultravioletta e la dissipazione delle turbolenze sono le principali fonti di
riscaldamento del mezzo interstellare, mentre gli elementi pesanti immersi nelle polveri sono
legati a processi di raffreddamento (Zinnecker, 2007). Le stelle di alta massa influenzano quindi
profondamente la formazione di nuove stelle e pianeti (Bally & Moeckel, 2005) così come lo stato
fisico, il contenuto chimico e la struttura morfologica delle galassie (Kennicutt 1998,2005).
1.1.2 Aspetti osservativi
Fino all’inizio degli anni novanta il numero di telescopi con un diametro superiore al metro era
esiguo e gli unici rivelatori disponibili dal vicino IR al millimetrico erano monolitici. A causa di
queste limitazioni strumentali, le regioni di formazione stellare nelle vicinanze del Sole sono state
a lungo le uniche in cui fosse possibile distinguere le diverse componenti stellari. Tali regioni sono
però dominate dalla presenza di stelle di massa simile a quella solare. Negli anni successivi
l’avvento dei rivelatori bidimensionali, la disponibilità di telescopi spaziali dal diametro sempre
maggiore e lo sviluppo dell’interferometria hanno consentito l’aumento della risoluzione spaziale
ottenibile nelle lunghezze d’onda dal visibile al radio; indispensabile per sfruttare la luminosità
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delle stelle di massa maggiore che le rende visibili a grandi distanze e realizzare il vertiginoso
progresso dell’ultimo decennio nello studio della formazione stellare di alta massa.
Tuttavia la comprensione dei processi che preludono alla nascita delle stelle massicce è ancora un
problema aperto in cui è necessario confrontarsi con un complesso sistema in rapida evoluzione
costituito da diversi elementi (embrione stellare, disco, jets e outflows) che si scambiano massa in
un ambiente magneto-idrodinamico e nascosto dall’alta estinzione delle polveri che circondano
l’oggetto centrale nelle prime fasi della sua formazione. Inoltre nella maggior parte dei casi più
embrioni stellari si trovano all’interno della stessa regione influenzandosi tra loro, ciò potrebbe
contribuire in modo significativo a giustificare l’alta percentuale osservativa di sistemi stellari
multipli. Tale scenario suggerisce la necessità di colmare alcune lacune concettuali e forse di
modificare profondamente la teoria standard della formazione stellare che fa riferimento a corpi
isolati, trascurando così le interazioni fra le stelle e le interazioni delle stelle con le nubi da cui
nascono, ed è applicabile soltanto a stelle di massa inferiore a circa 8 M
ʘ
, come vedremo più
avanti.
1.1.3 Aspetti teorici
La descrizione più semplice della frammentazione del mezzo interstellare che prelude alla
formazione stellare si basa esclusivamente sull'azione di pressione e gravità all'interno di una
regione ad alta densità. Lo studio di piccole perturbazioni di densità consente di determinare un
valore di massa critico per la regione al di sopra del quale si ha instabilità gravitazionale e la
materia comincia a collassare verso l’interno. Il fisico inglese James Jeans ha mostrato, nel 1902,
che se la massa iniziale di una regione più densa è maggiore di
[SI] (Low& Lynden-Bell, 1976)
dove T e rappresentano la temperatura e la densità della regione, essa tende a crescere a spese
delle regioni adiacenti. Se, invece, la massa è minore si dissolve e scompare. Studi numerici più
recenti hanno permesso di stabilire che tale limite risulta approssimativamente valido in un ampio
range di configurazioni della regione oggetto di studio, al variare delle sue proprietà geometriche,
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dinamiche e fisiche (Larson,2003). La massa di Jeans costituisce quindi un buon criterio osservativo
per stabilire quali regioni potrebbero essere sede di formazione stellare.
Tuttavia in condizioni ordinarie del mezzo interstellare si ottengono valori di
dell’ordine della
massa tipica di un ammasso aperto di stelle, che è spesso il prodotto finale del collasso della nube.
E’ necessario quindi ipotizzare una ulteriore compressione della materia che renda possibile una
frammentazione su più piccola scala. I moti turbolenti del gas, la pressione del vento di stelle
massicce, l’onda d’urto di una supernova oppure la diminuzione della pressione interna a causa
della dissipazione del calore o dei campi magnetici possono provocare una concentrazione locale
della materia, la cui gravità attira il gas circostante con intensità crescente via via che la regione
diventa densa e massiccia. Tale eventualità è compatibile con la struttura gerarchica recentemente
osservata nei siti di formazione stellare delle nubi molecolari giganti (paragrafo 1.2.1).
L’elevata densità delle polveri rende le regioni di formazione stellare opache alla radiazione
visibile. E’ possibile osservare l’inizio e la fine del processo che porta il mezzo interstellare dalla
nube molecolare rarefatta fino alle condizioni di densità e temperatura necessarie all’innesco della
fusione nucleare nelle stelle, ma le fasi intermedie sono difficili da studiare perché gran parte della
radiazione è emessa alle lunghezze d’onda dell’infrarosso lontano e del submillimetrico, una
regione dello spettro dove gli strumenti osservativi sono stati sviluppati soltanto negli ultimi
decenni.
All’inizio il gas è rarefatto, con una densità di circa un atomo di idrogeno per centimetro cubo.
Raffreddandosi forma nubi distinte, in modo simile alla condensazione del vapore acqueo
nell’atmosfera terrestre. Il gas si raffredda irradiando calore, ma il processo non è immediato,
perché esiste solo un numero limitato di meccanismi che permettono al calore di sfuggire. Il più
efficiente è l’emissione nell’infrarosso lontano da parte di alcuni elementi: per esempio la
radiazione a 158 µm emessa dal carbonio ionizzato (Hegmann, 2005). La bassa atmosfera è opaca
a queste lunghezze d’onda, quindi per osservarle servono strumenti nello spazio, come l’Herschel
Space Observatory, lanciato lo scorso anno dall’Agenzia spaziale europea, o telescopi montati su
aerei, come lo Stratoispheric Observatory for Infrared Astronomy (SOFIA).
Raffreddandosi, le nubi diventano più dense e continuano a inglobare materia. Localmente
vengono raggiunte masse di Jeans meno elevate e quindi la nube si suddivide. Quando la densità
raggiunge 1000 cm
-3
atomi di idrogeno, la radiazione ultravioletta proveniente dalla galassia non
riesce più a penetrare la nube. A questo punto gli atomi di idrogeno possono combinarsi in
molecole grazie ad un complicato processo che coinvolge i grani di polvere (Biham&Lipshtat,
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2002). Le osservazioni nelle onde radio hanno dimostrato che le nubi molecolari contengono
composti che vanno dall’idrogeno fino a complesse molecole organiche (Ohishi, 2008). Gli stadi
successivi del processo sono difficili da seguire: le osservazioni nell’infrarosso hanno scoperto
strutture su più piccola scala che presentano al loro interno stelle in via di formazione avvolte nella
polvere, ma hanno problemi nell’osservare i primi passaggi che dalla nube molecolare portano alla
protostella.
Poiché non sappiamo né come queste sottostrutture si siano formate, né quali siano i processi che
innescano le fluttuazioni di densità all’origine del collasso non abbiamo informazioni precise
riguardo alle condizioni iniziali che porteranno alla formazione di embrioni stellari. Nonostante ciò,
la teoria standard della formazione stellare è in grado di delineare le diverse fasi attraverso le quali
si arriva alla fusione centrale dell’idrogeno. I frammenti della nube, inizialmente in equilibrio, si
contraggono lentamente nel corso di alcuni milioni di anni, fino a diventare instabili e a collassare
improvvisamente su se stessi. La dinamica del collasso dipende non soltanto dalle condizioni
iniziali, ma anche dal comportamento termico del gas. Alle densità elevate del core il gas è
accoppiato alla polvere che ne mantiene approssimativamente costante la temperatura durante il
collasso per emissione termica; quando la densità centrale è tale da rendere la materia opaca alla
radiazione, la temperatura cresce e il processo rallenta, proseguendo adiabaticamente fino alla
formazione di un primo nucleo idrostatico di 0,01 M
ʘ
delle dimensioni di qualche unità
astronomica (Larson, 2003). Raggiunta la temperatura di 2000 K, l’idrogeno molecolare si dissocia,
provocando il collasso finale del nucleo e la formazione di un embrione stellare. Quest’ultimo, che
ha ancora una massa inferiore a quella del suo involucro gassoso, inizia ad inglobare materia ad
una velocità di circa
M
ʘ
/year. Questa fase protostellare, in cui è visibile solo nel
submillimetrico, dura alcune decine di migliaia di anni (Larson, 2003). La maggior parte della
massa resta in un inviluppo esterno che svolgerà la funzione di riserva di materiale nella successiva
fase di accrescimento eventualmente mediata da un disco, la cui formazione è legata alla
disomogeneità iniziale del collasso e alla conservazione del momento angolare, che amplifica il
moto di rotazione della nube. Non tutta la materia che si raccoglie nel disco viene però inghiottita
dall’embrione stellare. Se il suo momento angolare fosse trasferito totalmente alla protostella,
questa ruoterebbe così velocemente da essere distrutta dalla forza centrifuga. Una parte della
materia viene invece espulsa nello spazio sottoforma di due getti sottili di gas estremamente caldo
e ionizzato, che fuoriescono dai due estremi dell’asse di rotazione del disco di accrescimento e si
propagano verso l’esterno per decine di anni luce. Questi si generano a partire dal materiale che