I N T R O D U Z I O N E
"... Dopo aver camminato più di mezz'ora, arrivò ad un piccolo paese
detto "Il paese delle Api industriose". Le strade formicolavano di
persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti
lavoravano, tutti avevano qualche cosa da fare...
-Ho capito- disse subito quello svogliato di Pinocchio -questo paese non
è fatto per me! Io non sono nato per lavorare!-.
Intanto la fame lo tormentava... A chiedere l'elemosina si vergognava…
I veri poveri, in questo mondo, meritevoli di assistenza e di
compassione, non sono altro che quelli che, per ragione d'età o di
malattia, si trovano condannati a non potersi più guadagnare il pane col
lavoro delle proprie mani. Tutti gli altri hanno l'obbligo di lavorare: e
se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro" ( nota 1 ).
Nell'età moderna e in quella contemporanea il valore del lavoro è
tanto riconosciuto dall'uomo che fin dalla letteratura per la prima
infanzia egli abitua i suoi piccoli a riconoscere ed interiorizzare
l'importanza di "guadagnarsi il pane".
Naturalmente qui non si parla del lavoro industriale, parcellizzato e
ripetitivo, frutto dell'organizzazione taylorista tesa a massimizzare il
profitto a scapito dei rapporti umani. Ci si riferisce, invece, al lavoro
"artigianale", creativo, che coinvolge "mente e corpo" della persona
nella realizzazione di un prodotto dal suo inizio (dalla materia grezza)
alla fine (all'oggetto pronto a soddisfare un bisogno).
Anche la scienza pedagogica moderna lo considera un aspetto
fondamentale dell'educazione riconoscendo alle "attività manuali e
pratiche" la dignità di metodo educativo per eccellenza al fine di
favorire nel bambino il passaggio dal concreto all'astratto o, al
contrario, dai principi teorici alla realtà oggettuale.
Scrive Rosseau ne "L'Emilio":" Conducetelo a visitare fabbriche ed
opifici, sempre esigendo che di ogni lavoro cui assiste faccia esperienza
anche con le proprie mani... A tale scopo lavorate voi stessi, dategli
ovunque l'esempio: perchè diventi maestro, recitate ovunque la parte
dell'apprendista e state certi che un'ora di lavoro gl'insegnerà più cose
di quante ne terrebbe a mente dopo una giornata di spiegazioni teoriche".
( nota 2 )
Pestalozzi attorno al 1770, nel periodo di Neuhof, impianta un
laboratorio per la filatura del cotone e occupa in questo lavoro i
fanciulli poveri del vicinato, che vengono così sottratti all'ozio e
all'accattonaggio. Egli è più che mai convinto che nessun animo, per
quanto abbattuto e avvilito, possa non ridestarsi al gusto dell'onestà
qualora venga trasferito in un ambiente sano e sereno e avviato ad un
lavoro disciplinato.
Froebel nella prima metà del 1800, scrive nella sua opera "Educazione
dell'uomo": " L'idea che l'uomo lavori agisca e crei solo per conservare
la sua spoglia corporea, per procurarsi pane, casa e vesti, è uno stolto
pensiero... Il vero significato del lavoro è ben altro: Dio crea ed opera
sempre, ininterrottamente: Dio creò l'uomo come una copia di se stesso;
perciò l'uomo deve creare ed agire a somiglianza di Dio. Così
comportandoci noi diamo corpo allo spirito, al divino che è in noi"( 3).
Lambruschini, nello stesso periodo, non si limita ad affermare che i
lavori possono, per contrasto, far meglio apprezzare le occupazioni dello
spirito, ma sostiene che le scienze, come la fisica, la chimica,
l'agricoltura non s'imparano bene "se non ci si pone ad operare" ( 4).
Inoltre la gioia del fare, e la prova evidente dell'utilità pratica del
sapere, sono la molla che fa scattare l'interesse e l'impegno.
John Dewey, agli inizi del nostro secolo, si dichiara preoccupato
della scissione fra cultura e lavoro. Al tempo in cui la maggior parte
3
dei beni d'uso veniva prodotta o nell'ambito familiare o nella bottega
artigiana, l'intero processo produttivo si svolgeva davanti agli occhi di
tutti. "I ragazzi, via via che crescevano in forza e in capacità, erano
gradualmente inviati ai misteri di diversi processi. Essi vi erano
interessati in modo immediato e personale e giungevano persino a prendere
parte diretta al lavoro" ( nota 5 ).
Oggi la concentrazione dell'industria e la divisione del lavoro hanno
praticamente eliminato le occupazioni che si svolgevano nell'ambito della
casa e del vicinato, almeno per quanto riguarda gli effetti educativi...
Ciò, per Dewey, trascina con sè‚ un doppio ordine di conseguenze
negative:
a) dal punto di vista sociale contribuisce ad alimentare le distinzioni,
creando da una parte individui atti a produrre solo per altri e
dall'altra una classe dirigente parassitaria;
b) dal punto di vista tecnico produce lavoratori i quali non possono
partecipare efficientemente e con soddisfazione alle occupazioni
produttive;
c) dal punto di vista politico produce l'inidoneità delle masse a
prendere parte al governo.
Maritain, dal versante dell'umanesimo personalista cristiano,
dimostra una sensibilità acuta nei riguardi del futuro dell'umanità
democratica e lavoratrice. "Non c'è posto più vicino all'uomo che un
laboratorio -egli afferma- e l'intelligenza dell'uomo non è solo nella
sua testa, ma anche nelle sue dita... Il fatto di mettere così l'accento
sull'importanza del lavoro manuale in campo educativo mi sembra
rispondere ad una caratteristica generale del mondo di domani, in cui la
dignità del lavoro sarà senza dubbio più chiaramente riconosciuta ed in
cui forse la si farà finita con la separazione sociale tra l'homo faber e
l'homo sapiens"( nota 6 ).
Sul versante opposto dell'umanesimo collettivista marxista, Makarenko
ripropone lo stesso valore pedagogico del lavoro, sebbene con altre
finalità. Nel suo "Poema pedagogico" ( 7) lascia intendere che
l'educazione al lavoro deve sviluppare le attitudini fisiche e psichiche,
mettere l'individuo in grado di riuscire da solo a migliorare le sue
condizioni di vita, promuovere in lui la capacità creativa per cui si
manifesta la sua personalità, abituarlo a partecipare consapevolmente e
con entusiasmo al lavoro collettivo.
Oggi il dibattito sulla valenza del lavoro in una società industriale
presenta diversificate sfacettature tra chi lo esalta e chi lo vorrebbe
eliminare, chi lo vorrebbe regolamentare nei minimi dettagli e chi vuole
tornare alla produzione agricola-artigianale di un tempo.
Gli educatori contemporanei, al di là delle prese di posizione teoriche,
sembrano aver dimenticato i consigli dei pedagogisti del passato e nei
comportamenti educativi concreti si schierano in modo acritico dalla
parte di coloro che non valorizzano il lavoro.
Ad esempio, nella scuola dell'obbligo le "attività manuali e pratiche"
sono semplicemente tradotte in sporadici lavoretti per Natale e Pasqua
lasciando a pochi volonterosi insegnanti il compito di svilupparle come
meglio credono.
La disoccupazione serpeggiante nella maggior parte dei paesi occidentali,
unita al giusto prolungamento della scuola dell'obbligo, ha posticipato
l'inserimento lavorativo dei giovani, ma gli istituti medi superiori
continuano a privilegiare gli aspetti teorici delle diverse discipline
relegando i lavori manuali alle scuole professionali (quasi fossero di
"serie B").
Così, nonostante tutti parlino del necessario collegamento che deve
esistere tra scuola e lavoro, l'entrata nel mercato produttivo del
ragazzo o della ragazza diventa ancora più difficile, specialmente se non
4
c'è una famiglia adeguata alle spalle o se una menomazione o un deficit
rendono il giovane disabile o svantaggiato.
Infatti anche l'inserimento al lavoro degli adolescenti disabili pare
sottoposto all'attenzione di molti: educatori, famiglie, amministratori
pubblici, associazioni di volontariato, sindacati, imprenditori. Spesso
però il problema è affrontato con enunciazioni di principio piuttosto che
attraverso la messa a punto e l'attuazione di progetti concreti.
Tutti oggi concordano sull'importanza del ruolo lavorativo come strumento
di educazione personale ed integrazione sociale per i soggetti
svantaggiati o disabili adolescenti o adulti, ma sul come realizzare
l'integrazione lavorativa le proposte si fanno più incerte e spesso si
perdono nella nebbia della teorizzazione o del "sarebbe bello ma...".
Il presente elaborato, cerca di dare alcune risposte concrete a questa
esigenza attraverso due modalità:
-rivalutando l'importanza del lavoro nelle sue potenzialità educative (se
gestito da professionisti dell'educazione della persona) e socializzanti
(se organizzato secondo i modi che s'andranno evidenziando),
-rivalutando il ruolo della pedagogia anche per l'educazione degli
adolescenti e degli adulti disabili o svantaggiati, contro chi tende a
trascurare una visione complessiva dell'uomo privilegiando solo gli
aspetti parziali della psicologia, della psichiatria o dell'assistenza
sociale.
In special modo si proporrà, inquadrandola nel contesto storico socio-
economico e ripercorrendola nelle sue tappe salienti e nei particolari
più significativi, l'esperienza delle "cooperative sociali" che negli
ultimi vent'anni hanno offerto una soluzione ottimale al superamento del
problema dell'integrazione lavorativa e che, grazie anche all'apporto
della pedagogia, possono ulteriormente perfezionare il loro intervento.
La conclusione sarà lasciata alla presentazione di un caso di "handicap
indotto" da me seguito personalmente all'interno di una delle prime
cooperative sociali del veronese, la cooperativa "Centro Produzione e
Lavoro" di San Bonifacio.
5
CAPITOLO I
VALORE PEDAGOGICO DEL LAVORO
L'ETA' DELL'INCERTEZZA
L'attuale fase di riorganizzazione economico-produttiva, già peraltro ad
uno stadio avanzato, e le conseguenti ripercussioni sulle dinamiche
sociali e culturali, stanno producendo una revisione nel sistema dei
valori e delle modalità di erogazione/gestione dei servizi sociali che si
traduce: da un lato in una crisi sempre più accentuata di categorie
concettuali e assetti organizzativi, e dall'altro fa emergere modelli
operativi e strategie di intervento nuovi e diversificati, nei confronti
dei quali si rende sempre più necessario un lavoro di approfondimento
cognitivo e di valutazione critica.
Galbraith, qualche anno fa, intitolò un suo libro "L'età dell'incertezza"
e oggi l'incertezza è ancora più aumentata e v'è un’affannosa ricerca di
punti di riferimento, di solidi appigli che permettano di individuare e
percorrere un itinerario, almeno in certa misura definitivo, per
un'accettabile evoluzione sociale, economica e politica.
Alcuni frammenti di verità, o anche più mediocramente di plausibilità,
sembrano qua e là emergere, magari da sedi inusuali, e nessuno può
sottrarsi all'impegno di tentare un'ipotesi, di formulare una proposta.
Mons. Antonio Bello, al tempo in cui era Presidente Nazionale di Pax
Christi, arrivò a dire:" Ecco alcune contraddizioni di questo nostro
mondo violento che si trova tra diluvio e arcobaleno.
Anch'io sono testimone del diluvio: quello dell'intolleranza, della
prevaricazione, del razzismo. Ma sono testimone anche dell'arcobaleno,
soprattutto quello del volontariato: economia sommersa di generosità e di
dono".( nota 8 )
In tale quadro si colloca lo sviluppo delle cooperative sociali come un
fenomeno nuovo e caratteristico di intervento nell'ambito delle politiche
socio-educative, come una proposta che per le sue caratteristiche di
gruppo relativamente delimitato di persone, di solidarietà interna, di
omogeneità, funge da realtà di mediazione, da cerniera tra intervento
pubblico e bisogni della società.
Le cooperative sociali racchiudono, da un certo punto di vista, gli
elementi fondamentali e spesso considerati antitetici nell'attuale
dibattito sulla rifondazione del "welfare state" (Stato assistenziale):
-la dimensione d'impresa
-il servizio di pubblica utilità.
Questi due aspetti convivono nelle cooperative sociali sia sul piano
delle finalità e degli obiettivi strategici, sia sul piano della gestione
quotidiana delle attività e dei servizi.
Da un lato quindi siamo in presenza di un impresa (ragione sociale
privata) che deve attenersi ai vincoli normativi previsti per le aziende
(responsabilità amministrativa e di bilancio), dall'altro, per le
attività svolte e per l'utenza interessata, si tratta di prestazioni
socialmente utili che rientrano nella sfera della programmazione pubblica
dei servizi socio-assistenziali ed educativi.
Scrive a proposito Felice Scalvini, Presidente della Federsolidarietà, :
"Impresa sociale: organizzazione che sa coniugare ed equilibrare,
6
arricchendoli reciprocamente, i principi tipici della imprenditoria
(l'attenzione organizzativa, l'innovazione, l'efficiente uso delle
risorse) con quello dell'intervento sociale (la finalizzazione agli
ultimi, il disinteresse, la condivisione).
Mentre lo scopo delle imprese tradizionali è la massimizzazione del
profitto nel lungo periodo, le cooperative sociali hanno come fine la
massimizzazione nel lungo periodo della loro utilità sociale...
E' una sorta di Giano bifronte: da un lato rivendica e propone
l'assunzione dei valori e dei criteri di socialità nell'ambito delle
realtà imprenditoriali e dall'altro rivendica e propone l'assunzione dei
valori e dei criteri propri dell'azione imprenditoriale nell'ambito
dell'intervento sociale".( nota 9 )
L'area che storicamente per prima è stata oggetto di intervento della
cooperazione sociale è quella delle persone disabili.
Le cooperative sociali nascono in Italia negli anni '70 come alternativa
agli istituti speciali per adulti, definiti dall'opinione pubblica e da
noti specialisti (si pensi per tutti allo psichiatra triestino Franco
Basaglia) "ambienti chiusi ed alienanti" in base alle seguenti
valutazioni:
1. La permanenza in istituzioni porta con sè‚ lo sradicamento del proprio
tessuto umano, sociale e culturale, che non può essere compensato dal
coinvolgimento della società circostante la quale, oltre ad essere
impreparata, è estranea ai problemi ed alla cultura dei soggetti
disabili.
2. La famiglia è deresponsabilizzata perchè viene abituata a collocare i
figli disabili in istituti pensando di poter trovare, consapevolmente o
no, una soluzione a problemi che la sovrastano.
3. E' deformato il rapporto con la realtà sociale, che tende a
considerare queste istituzioni in due modi: da un lato un vantaggio
economico ed occupazionale, dall'altro un lazzaretto sociale nel quale
trovare il colpevole delle malefatte dell'ambiente circostante.
4. L'intervento educativo è parziale e non sufficientemente basato sulle
esigenze globali dell'allievo: si tratta infatti di un processo reso
difficoltoso ed incerto dalla mancanza di motivazione e di libera scelta
da parte della persona disabile. Inoltre il riunire solo soggetti con
deficit di varia natura non consente di utilizzare una più ampia varietà
di qualità umane per sviluppare l'azione formativa.
Handicap e cooperazione, invece, è un binomio positivo che si è
particolarmente diffuso a livello internazionale ed in Italia ha avuto un
notevole impulso con l'emanazione della legge n.381 del 1991 la quale,
dopo anni di incertezza normativa, riconosce il valore sociale e rende
legalmente riconoscibili le cooperative sociali (vedi capitolo n.5 del
presente lavoro).
Probabilmente la difficoltà maggiore, che ha ostacolato l'agevole
superamento delle incertezze legislative, è stata la peculiare
caratteristica del progetto cooperativistico-sociale di essere anzitutto
un ideale utopico, cioe' un ideale con le caratteristiche dell'utopia.
Questa è definita, nel dizionario Garzanti, come il "vagheggiamento di
una società perfetta, puramente immaginaria, ove gli uomini vivono
secondo un certo ideale politico e morale".
Grazie all'opera di alcuni "dissidenti", che da un lato restarono legati
al messaggio utopico e dall'altro se ne discostarono per poterlo adeguare
alla realtà, si è potuti passare dall'utopia scritta all'azione,
trasformando il miraggio comunitario in pratica cooperativa.
Certamente il progetto cooperativistico è assai più ampio di quanto in
realtà si riesca ad attuare, ma quando si opera nel campo dei rapporti
umani s'intersecano e sopraggiungono un'infinità di variabili che
impediscono alla teoria di tradursi meccanicamente in pratica.
7
Esiste a volte uno scarto tra obiettivi e risultati, tra intenzioni ed
esiti, ma alcuni risultati non potrebbero essere raggiunti se non ci si
ponessero obiettivi ambiziosi.
Lo sanno bene gli educatori che, nonostante l'imprevedibilità degli
eventi riguardanti l'uomo "prevedono e progettano" prendendosi cura dei
piccoli umani e lo fanno a propria immagine e somiglianza ( nota 10 ).
Scrive a tale proposito Larocca:
"... Se i limiti nella progettazione sul mondo della natura derivano
dall'incontrollabilità degli equilibri instabili di variabili
concorrenti..., quelli sulla progettazione a riguardo dell'educazione
dell'uomo derivano proprio dalla natura dell'uomo stesso, aperto sì ad
essere tutto quanto si voglia, ma solo se questo avviene nel rispetto
della sua unicità sostanziale di persona. La preoccupazione del
"rispetto", nel prendersi cura dei giovani, induce il pedagogista a
cogliere nel lavoro di progettazione l'ambito del possibile, ma pure
quello dei limiti. Questi sono intesi e come condizione imprescindibile
di fatto e come principi invalicabili da parte di una razionalità
liberante un'altra libertà razionale".( nota 11 )
Il ruolo utopico assunto dalla cooperazione sociale la fa comunque essere
"modello di riferimento" per le trasformazioni culturali e pedagogiche
che riguardano l'educazione del disabile adulto e che prendono avvio
generalmente da una situazione di insoddisfazione e quindi dal bisogno di
provocare una trasformazione.
Il bisogno dà origine all'azione pratica che, tentando di applicare le
utopie scritte, dà vita ad esperienze concrete.
Gino Mattarelli, uno dei promotori principali della cooperazione di
solidarietà in Italia, scriveva nel 1982: "La cooperativa sociale si può
affermare solo se si alimenta anche di un po' di quella utopia che
caratterizzò gli antesignani della moderna cooperazione... Noi abbiamo un
sogno, sogniamo una società più giusta, nella quale le classi ed i gruppi
sociali più deboli si diano idealmente la mano per rompere le catene che
li opprimono e cancellare la violenza dell'uomo sull'uomo.
Anche se il nostro modo di lavorare ci costringe a tenere sempre i piedi
ben piantati per terra, anche se sappiamo che lo spirito mutualistico è
una conquista faticosa che deve rinnovarsi giorno per giorno, anche se il
metodo cooperativo è fatto di sudori, fatiche, grigia e a volte monotona
e incompresa gestione di imprese che devono andare contro corrente, noi
sogniamo di poter contribuire efficacemente a costruire una nuova
civiltà".( nota 12 )
All'interno di questa utopia, lo "strumento fondamentale" di sviluppo
personale e di integrazione sociale del disabile nella cooperativa
sociale è il lavoro.
Tramite il lavoro, nella sua doppia valenza di espressione di identità-
ruolo e di fattore di produzione di reddito-ricchezza, si realizza più
compiutamente il processo educativo del disabile, già iniziato nella
scuola dell'obbligo, proseguito per taluni negli istituti professionali,
e che rischierebbe di andare perduto se non trovasse ulteriore impulso ed
applicazione in un adeguato ambiente educativo per adulti.
VALORE DEL LAVORO
Il lavoro non ha la stessa importanza per tutti: essa varia secondo la
cultura del gruppo sociale cui l'individuo appartiene, le caratteristiche
e le attitudini personali, il grado di integrazione sociale.
Tuttavia nella società moderna il lavoro rappresenta ancora uno dei
valori principali e una delle condizioni essenziali per la realizzazione
della persona: le eccezioni a questa regola sono poche e richiedono la
presenza di particolari condizioni (ad esempio di benessere o di scelta
fortemente motivata), certamente non generalizzate, nè generalizzabili.
8
La parola lavoro è usata con due significati diversi:
a) avere un'occupazione (un posto) che garantisca un reddito in cambio
dell'assunzione di determinati impegni; in questa accezione predomina
l'aspetto di autonomia personale garantita dal reddito derivato
dall'occupazione;
b) poter utilizzare le proprie abilità intellettuali o manuali per il
raggiungimento di determinati obiettivi; in questo caso viene
privilegiata la componente di creatività che si esplicita attraverso
l'applicazione di abilità personali ad attività che danno vita ad
un'utilità sociale o individuale (servizi, beni, opere d'arte, ecc.).
Le funzioni che giustificano l'importanza del lavoro nella nostra società
possono essere suddivise tra manifeste e latenti.( nota 13 )
Le funzioni manifeste si identificato con la produzione di beni e servizi
e con il fatto di ottenere un reddito che permette a chi lavora di essere
autonomo e di assumere, in autonomia, le decisioni che riguardano i
propri consumi.
Le funzioni latenti possono essere così sintetizzate:
a) viene offerta una struttura temporale alla giornata: è di solito
l'orario di lavoro che scandisce i ritmi che organizzano gran parte del
tempo di una persona e che la costringono a strutturare anche la parte
non lavorativa della propria giornata e più in generale della propria
vita;
b) educa alla socialità
-creando regolari esperienze di interazione sociale che vanno oltre
quelle presenti nella famiglia e nei gruppi amicali (esso offre la
possibilità di ampliare la rete di relazioni e di rapporti sociali);
-imponendo la collaborazione con altre persone per raggiungere il
medesimo obiettivo finale;
-facilitando la comprensione dell'esistenza di scopi collettivi, che
trascendono gli obiettivi del singolo individuo;
c) favorisce la maturazione della personalità attribuendo uno status
sociale e contribuendo a definire l'identità personale;
d) forma negli individui la capacità di applicarsi con regolarità e
sistematicità per il raggiungimento di un determinato obiettivo.
Le funzioni manifeste hanno perso importanza in questi ultimi anni. Il
lavoro non è più infatti l'unica fonte da cui è possibile ricavare il
reddito necessario ad una sussistenza autonoma: si sono diffuse, anche al
di fuori di ristrette èlites, forme di erogazione di reddito senza
prestazione di attività lavorativa, mentre l'aumento del reddito medio
familiare permette di sostenere, anche a lungo e lasciando spazi di
autonomia relativamente ampi, i membri del nucleo familiare privi di
lavoro.
Nel corso degli ultimi due decenni hanno perso importanza anche alcune
delle funzioni latenti. Il rifiuto del lavoro, teorizzato da alcune
frange della società degli anni '70, non è riuscito ad imporsi, ma
comunque ha lasciato il segno, riducendo, ad esempio, l'importanza del
lavoro nell'attribuire status sociale e nel definire l'identità
personale.
Si è assistito ad un ridimensionamento della mistica del lavoro, per cui
il riconoscimento delle funzioni manifeste e latenti oggi non va inteso
in modo assolutizzante, cioè il lavoro non è sempre e comunque positivo,
non è l'unica attività produttiva di senso di vita e la sua assenza non è
necessariamente negativa per chiunque.
Le funzioni manifeste e latenti del lavoro assumono piuttosto
un'importanza strumentale diversa da persona a persona: essa è tanto
maggiore quanto minori sono le alternative di cui il soggetto adulto
dispone per sviluppare le stesse funzioni. In altri termini il lavoro è
tanto più importante quanto minori sono il livello di scolarizzazione, lo
status sociale e le risorse economiche della famiglia di appartenenza, la
9
rete di relazioni sociali del soggetto, la possibilità di sviluppare
interessi anche al di fuori di un rapporto di lavoro.
Esso assume un'importanza maggiore proprio per quelle persone che più
hanno difficoltà a trovarlo. Per questo la sua mancanza può contribuire a
determinare dapprima esclusione dal contesto sociale e di seguito
emarginazione.
La differenza tra le due posizioni (di escluso e di emarginato) è data
dal fatto che chi è escluso può, in teoria, sviluppare una propria
identità e individuare modalità precise di rapporto con la società, a
condizione che abbia la possibilità di far parte di un ampio gruppo di
persone che hanno problemi e possono individuare obiettivi comuni
coalizzandosi per raggiungerli.
Il processo di emarginazione si verifica, invece, quando gli esclusi
hanno difficoltà a coalizzarsi, a dar vita ad un gruppo con una propria
identità e con precise rivendicazioni nei confronti della società,
intorno alle quali aggregarsi e da porre come obiettivo di un'azione
collettiva.
In particolar modo per i disabili adolescenti e adulti l'esclusione
involontaria dall'attività lavorativa rende impossibile, o comunque assai
difficile, una piena integrazione nella comunità ed un completo sviluppo
della propria personalità.
Dice a tale proposito Enrico Montobbio, neuropsichiatra, responsabile del
Servizio Inserimento Lavorativo Handicappati (S.I.L.H.) dell'U.S.L. XII
di Genova:"L'unica riabilitazione veramente utile è l'assegnazione di
ruolo, un fattore fondamentale per la definizione dell'identità. Ognuno
di noi è anche ciò che fa, ma per il disabile il ruolo è l'unica salvezza
possibile in alternativa ad un’identità centrata sull'handicap o nascosta
da meccanismi di difesa di tipo adesivo-maniacale. Il ruolo è inoltre
fattore di apprendimento: non si apprende se non attraverso i ruoli.
Infine il ruolo è un grande fattore di mediazione sociale.
Si tratta sempre di un comportamento interattivo che, in quanto tale,
viene appreso dal soggetto progressivamente a condizione che egli sia
capace (o diventi capace) di anticipare in se stesso l'atteggiamento
degli altri e la risposta che il suo atteggiamento determina in loro. Il
ruolo comporta quindi la necessità di essere contestualmente se stesso e
l'altro. Potremmo pertanto parlare più esattamente di un "percorso nel
ruolo".( nota 14 )
Per i normodotati adolescenti il lavoro, offrendo garanzie socio
economiche indispensabili per l'autonomia, rappresenta la
concretizzazione prima del passaggio all'età adulta.
Se dunque l'avvio ad una attività lavorativa è l'occasione per un
inserimento più generale nel contesto sociale e costituisce un elemento
importante al fine della crescita psicologica e relazionale per tutti i
giovani, tanto più per i soggetti svantaggiati adolescenti esso ha un
ruolo promozionale e rieducativo in quanto favorisce la delineazione di
identità positive ed adulte.
Tuttavia, occorre precisare che il lavoro non rappresenta sempre e per
chiunque un bisogno ed una risorsa. Non tutti i disabili (pensiamo per
esempio a quelli psichici) raggiungono un livello sufficiente di
consapevolezza o possiedono le minime capacità cognitive, fisiche e
relazionali per avvertire la necessità del lavoro o per mantenere un
impegno lavorativo.
Spesso l'inserimento lavorativo rappresenta per il contesto familiare
solo il tentativo di costruire un'autonomia, anche economica, per il
futuro, e rappresenta per i servizi socio-sanitari una soluzione parziale
in assenza di altre opportunità per il tempo libero, la socializzazione,
ecc.
Questo non significa che bisogna arrendersi davanti alle scarse capacità
del soggetto, anzi proprio qui inizia il ruolo insostituibile
10
dell'educatore che, di fronte ad un qualsiasi "nato di donna", si pone
nell'atteggiamento della "certezza dell'educabilità" perchè riconosce in
ogni individuo non solo i limiti, ma anche le potenzialità, perchè sa che
il valore intrinseco della persona non può essere offuscato dalla
maschera esteriore della disabilità.
Si devono allora sviluppare tutte le strategie possibili per far
incontrare il mondo della produzione con quello della disabilità affinchè
entrambi si trasformino adeguandosi l'uno all'altro, affinchè il disabile
non sia solo inserito fisicamente in mezzo agli altri uomini, ma ne
diventi un compagno di strada.
Concordiamo di conseguenza con Larocca quando scrive:
"Integrazione nel lavoro significa che il soggetto affetto da qualche
deficit, dopo che si sia individuata per lui la mansione più adatta,
possa collaborare all'opera di tutti e ricavarne non solo uno stipendio
in conformità alla sua produttività, ma tutte quelle gratificazioni
personali che il lavoro collaborativo e riconosciuto offre ad ogni
lavoratore. Ciò significa che il lavoro va visto come modalità idonea
allo sviluppo quanto più possibile della personalità del soggetto affetto
da deficit, quand'anche questo deficit fosse di natura mentale".( nota 15 )
Pertanto l'inserimento nel mondo lavorativo può avere due diversi
obiettivi per il disabile: il primo si limita ad un recupero psicofisico,
il secondo, con un orizzonte più ampio, coinvolge e riconosce il valore
complessivo della persona.
Nella prima visione ristretta, il lavoro diventa semplice strumento di
riabilitazione perchè ci si prefigge di portare le persone coinvolte
all'autosufficienza, intesa come indipendenza fisica o come capacità di
svolgere parzialmente o totalmente le attività tipiche della vita
quotidiana o, ancora, come capacità di fornire prestazioni in base a
norme prestabilite e codificate.
In una cornice di questo tipo l'attività lavorativa ha funzioni
terapeutiche per cui si può parlare di ergoterapia, intendendo con questo
termine "l'utilizzo di una o più attività di lavoro finalizzate non a far
acquisire professionalità o a produrre beni o servizi destinabili alla
vendita, ma a obiettivi strettamente educativi". ( nota 16 )
In particolare l'ergoterapia è finalizzata :
a) se rivolta a persone disabili, a sviluppare e/o affinare le capacità
sensoriali, di coordinamento dei movimenti, di apprendimento di
operazioni manuali che richiedano anche uno sforzo intellettivo;
b) se indirizzata a persone che vivono una situazione di svantaggio
esistenziale, ad aiutare a strutturare in tempi il vivere quotidiano (che
è fatto di momenti di lavoro, di tempo libero, di riposo, di solitudine,
di partecipazione ad attività collettive, ecc.).
Generalmente l'ergoterapia rappresenta uno dei momenti di un progetto
terapeutico complessivo e non è quindi mai proposta in maniera esclusiva:
essa fa parte, insieme alle altre attività, di un progetto complessivo di
riabilitazione delle persone interessate.
In una visione più ampia, infatti, l'attività lavorativa assume un
significato educativo per tutta la persona facendosi strumento di
"autorealizzazione", finalizzandosi cioè al raggiungimento della massima
autonomia dei soggetti coinvolti.
In questo caso l'educatore che progetta e gestisce l'esperienza
lavorativa deve essere in grado di garantire sia la maturazione personale
e sociale che la formazione specifica al lavoro, deve cioè formare o
razionalizzare la capacità di fare scelte, di assumere decisioni, di
regolare e dirigere la propria vita, di gestire rapporti paritetici e di
assumere in modo consapevole il ruolo e lo status di cittadino e, nello
stesso tempo, deve fornire tutte le conoscenze e le abilità necessarie
per svolgere in modo pieno una specifica professione.
11
Scrive Larocca:" Quello che gli educatori...devono fare è che le persone
giungano a scegliere il proprio progetto storico e che...sentano di
essere chiamate in prima persona a realizzare nel corso della propria
esistenza l'approssimazione o l'anticipazione simbolica ai valori
ultimi..."( nota 17 ).
Nelle cooperative sociali l'attività lavorativa assume questa precisa
specificità educativa e deve essere proposta con l'obiettivo di formare
lavoratori consapevoli, in grado di svolgere un domani la propria
attività in un contesto organizzativo e produttivo normale esterno alla
cooperativa.
* * *
Nonostante i vantaggi appena elencati, però, nelle economie organizzate
secondo le leggi di mercato, l'inserimento lavorativo di soggetti
disabili (specialmente se psichici) non è un fatto automatico. Le regole
della concorrenza, che stanno alla base del funzionamento del meccanismo
di mercato, spingono le imprese ad impiegare i lavoratori più produttivi,
con capacità lavorative piene e adeguata preparazione.
L'inserimento nell'attività produttiva di persone con capacità lavorative
ridotte può determinare un innalzamento dei costi per unità di prodotto,
a meno che non si realizzi una riduzione proporzionale del salario o un
proporzionale aumento del prezzo di vendita o una riduzione dei margini
di profitto.
Se si realizzasse quest'ultima ipotesi l'impresa sarebbe chiamata di
fatto a svolgere una funzione sociale, cosa che in questo momento nessuno
si sente di esigere.
D'altra parte il binomio handicap-lavoro mette in crisi i tradizionali
assetti organizzativi dell'impresa ed obbliga ad una revisione della
strategia aziendale e delle dinamiche dei rapporti sociali e produttivi.
L'obiettivo dell'inserimento lavorativo deve portare a considerare i
disabili nella società non più come un costo indiretto, da coprire
attraverso l'imposizione fiscale da parte dello Stato, ma come un fattore
interno alla produzione, una risorsa da valorizzare al meglio.
Si può ben comprendere come risulti estremamente difficile comporre tale
binomio all'interno di una logica d'impresa tradizionale orientata a
massimizzare il rapporto costi/ricavi nel tempo più breve possibile.
L'impresa cooperativa, inversamente all'impresa "capitalistica" (cioè che
tende a capitalizzare, ad accumulare ricchezza), pone il lavoro come
obiettivo e la redditività come mezzo. In essa, dunque, viene superata la
concezione del lavoro come mero fattore di produzione e il sogno
d'integrare il disabile nel mercato produttivo diventa realtà.
VANTAGGI DEL LAVORO IN COOPERATIVA SOCIALE.
La specificità del lavoro in cooperativa offre almeno due vantaggi:
1) il fatto che la cooperativa sociale sia a tutti gli effetti un'impresa
che produce e vende beni e servizi e che quindi deve confrontarsi sul
mercato con le altre imprese operanti nello stesso settore, costringe chi
lavora in cooperativa ad un continuo confronto con la realtà. I prezzi
dei beni e servizi prodotti non possono superare quelli dei concorrenti:
è quindi possibile verificare continuamente, sulla base di riscontri
oggettivi, se l'attività svolta è remunerativa e se i livelli di
produttività raggiunti sono in linea con quelli delle imprese
concorrenti. Anche se non si configurano o non sono sempre raggiungibili
situazioni di perfetta concorrenzialità, il confronto con la realtà di
mercato permette agli educatori della cooperativa sociale di valutare con
precisione la capacità lavorativa raggiunta dai diversi soggetti
inseriti;
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2) il fatto che la cooperativa sia un'impresa autogestita consente a
tutti coloro che vi lavorano di partecipare alla gestione complessiva
dell'attività, alle decisioni strategiche e operative, alle scelte
sull'uso delle risorse prodotte, alla determinazione dei ruoli e della
struttura organizzativa.
La combinazione di questi due elementi caratteristici della cooperazione
sociale, se opportunamente valorizzati attraverso il coinvolgimento,
parziale o totale, formale o informare, delle persone che ci si propone
di inserire nel lavoro, permette di:
a) far acquisire ad ognuno una visione complessiva del processo
produttivo, sia in senso tecnico sia in senso economico;
b) facilitare la socializzazione, la comunicazione, l'interazione con gli
altri membri, l'educazione alla capacità di assumere collettivamente le
decisioni, l'acquisizione di autonomia e di identità personale;
c) sviluppare, accanto alla professionalità, la capacità creativa,
l'utilizzo di risorse intellettuali;
d) stimolare la flessibilità, sviluppando la capacità di lavorare per
obiettivi, invece che per schemi rigidi, sperimentando
l'intercambiabilità dei ruoli.
Si potrebbe obiettare: ma perchè proprio in una cooperativa sociale si
possono raggiungere questi obiettivi? Non sarebbero sufficienti altri
tipi di istituzione (già esistenti da decenni) come le "fondazioni" o le
"associazioni" di volontariato?
Ebbene i vincoli o le limitazioni implicite in queste istituzioni del
passato le rendono inadatte ai moderni concetti di educazione e di
socializzazione attraverso il lavoro.
Secondo Verrucoli ( nota 18 ) la "fondazione" ha la sua ragione d'essere in
un patrimonio da amministrare, un presupposto ben diverso da quello di
chi intraprende un'attività sociale sulla base del lavoro e della
comunità. Questo patrimonio è poi tutelato da puntuali controlli pubblici
che ne intralciano la flessibilità e che soprattutto tendono a mantenere
il patrimonio più che ad operare efficacemente nel campo sociale. Ne esce
il quadro di una organizzazione di tipo dirigistico che non si concilia
con le esigenze di autogestione, responsabilizzazione, partecipazione,
democrazia interna, e quindi appare in molti casi una formula non adatta
agli scopi di cittadini che desiderano impegnarsi in prima persona nel
cercare di rispondere, in modo partecipato, alle istanze emergenti della
loro comunità locale.
Dall'altra parte l'"associazione" di volontariato è un'organizzazione di
soggetti tesi a realizzare gli scopi più diversi (economici, religiosi,
politici, ricreativi, assistenziali). Si presenta come un modulo
organizzativo dell'autonomia privata a fini non economici: le
associazioni assistenziali in particolare operano erogando aiuti ai
bisognosi in forma non imprenditoriale. Nell'ordinamento non è
predisposto alcuno strumento giuridico che possa tutelare quelle attività
di volontariato che, pur non essendo a scopo di lucro, hanno un carattere
economico. L'associazione, infatti, presuppone sì lo svolgimento di
attività assistenziali-solidaristiche, ma in forma occasionale con
contributi, elargizioni o simili, lontana quindi da una vera e propria
impresa di produzione di servizi.
Alla luce di quanto detto, la scelta della cooperativa sociale risponde
quindi ad esigenze che solo questa formula sembra in grado di tutelare.
DUBBI DA CHIARIRE
Naturalmente, come ogni rosa ha le sue spine, così anche l'inserimento
lavorativo dei disabili nelle cooperative sociali, pur presentando
teoricamente nel breve periodo solo vantaggi, deve essere valutato nel
lungo periodo per i suoi effetti sul comportamento delle persone.
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Ci avvisava di tale necessità don Antonio Mazzi, già nel 1986, scrivendo
i suoi dubbi sulle cooperative che in quel tempo avevano cominciato ad
inserire disabili:
"Anzitutto il dubbio che tali cooperative mascherino il concetto
assistenziale vecchia maniera. La non cultura dell'assistenza ha creato,
secondo me, strutture più avanzate nominalmente, ma dai contenuti reali
poveri. O meglio la cooperazione suppone ciò che ancora non abbiamo
interiorizzato.
Il secondo dubbio: accontentarci di rispondere con il lavoro ad una
domanda esistenziale. Il lavoro non è tutto per nessuno e quindi non deve
essere tutto nemmeno per chi non ha niente".( nota 19 )
Don Mazzi prosegue poi con un'ulteriore preoccupazione:
"Il terzo dubbio: la mia esperienza con gli handicap psichici al lavoro
sta subendo un duro colpo. Sono stato tra i primi a parlare di
handicappati in fabbrica e con il mercato che tirava abbiamo collocato
molti handicappati nelle aziende. Contrariamente a quello che si dice, i
nostri sondaggi hanno evidenziato un buon adeguamento sia dell'azienda,
sia dei compagni di lavoro che dell'handicappato stesso. I primi
collocamenti sono avvenuti nel lontano 1970. Dopo 15 anni di inserimento
abbiamo alcuni segnali preoccupanti. Parte dei giovani handicappati,
collocati ed inseriti abbastanza bene, si sono licenziati o sono rimasti
a casa o ci sono ritornati al Centro, soprattutto è accaduto per i più
gravi. Un approfondito studio generale di tali casi rileva un
invecchiamento precoce da stress. Un'alta percentuale di casi sta
superando lo stesso problema dandosi all'alcool. Anche alcuni casi di
suicidio dei genitori e di sfruttamento della famiglia non vanno
sottaciuti".( nota 20 )
Proprio da quest'ultima preoccupazione è partita l'idea di stendere
questo lavoro di ricerca sulle condizioni teoriche e su un’esperienza
pratica d'inserimento lavorativo di persone disabili, per vedere quali
devono essere le condizioni sufficienti e necessarie affinchè il lavoro
possa veramente essere utile al loro sviluppo personale e come una
cooperativa sociale debba strutturarsi per rispondere in modo adeguato a
questo obiettivo.
Naturalmente lo sguardo dello scrivente sarà prevalentemente pedagogico e
quindi verranno trascurati molti aspetti relativi alle cooperative
sociali di pertinenza di altre scienze (economia, sociologia), senza con
questo dimenticare un'analisi generale delle diverse facce dello
straordinario ed affascinante mondo della cooperazione.
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CAPITOLO II
RIVALUTARE LA PEDAGOGIA
CHE COS'E' LA PEDAGOGIA?
Quando ci si propone di analizzare i problemi che toccano i disabili
adulti è consuetudine elencare le varie difficoltà (generalmente di
natura assistenziale e socio-sanitaria) che manifestano, per poi
suggerire quali interventi concreti si possano attuare perseguendo lo
scopo di rispondere ai loro bisogni.
Pur riconoscendo l'opportunità di non trascurare questa classica
impostazione, l'obiettivo del presente lavoro è di superare la visione
prevalentemente medico-assistenziale e di soffermarci su un aspetto che
ancora troppo poco viene valutato. Mi riferisco al "problema pedagogico",
inteso come la risultante di atti intenzionalmente e concretamente
educativi che possono coinvolgere nel processo evolutivo, anche
attraverso dinamiche autoeducative, persone con deficit sia fisici, che
psichici, che sensoriali e con livelli di autosufficienza ridotti al
minimo.
Il taglio pedagogico che si intende dare vuole svelare una faccia della
medaglia dell'educazione spesso nascosta o poco valutata.
Infatti anche la recente legge quadro n.104/92, pur cercando di definire
i principi basilari sui quali condurre l'azione di riabilitazione e di
socializzazione del disabile, appare troppo orientata agli aspetti medici
della persona.
Solo la scienza pedagogica, correttamente intesa, può superare queste
limitazioni in quanto è l'unica scienza che guarda alla totalità del
soggetto umano con esplicita intenzionalità educativa.
Certo, le scienze umane sono molte, ma per chiarezza d'idea le possiamo
distinguere in due grandi classi: quelle che hanno una funzione
conoscitiva, le scienze umane teoretiche, e quelle che hanno una funzione
prescrittiva, le scienze umane pratiche.
Nel libro "Teoria e modello in pedagogia", Gino Dalle Fratte così
descrive la distinzione:
"Le prime comprendono gli ambiti propri delle scienze sociali (l'uomo in
quanto costituente la società), delle scienze psicologiche (l'uomo in
quanto soggetto che esperisce un vissuto), della biologia umana (l'uomo
in quanto organismo biologico), dell'economia (l'uomo in quanto
consumatore e produttore). Le seconde...comprendono: le scienze etiche
che considerano l'uomo in quanto titolare di doveri ( o diritti) etici;
le scienze giuridiche, che assumono l'uomo come titolare di doveri (o
diritti) giuridici positivamente codificati; le scienze terapeutiche, che
considerano l'uomo come oggetto di interventi riguardanti la sua
condizione psico-fisica; e appunto la pedagogia che considera l'uomo come
soggetto educabile... Le scienze umane teoretiche riguardano ciò che
l'uomo fa (per esempio il suo comportamento sociale). Le scienze umane
pratiche riguardano ciò che l'uomo deve fare sia a livello di imperativo
categorico (per esempio perseguire certi fini ultimi) sia a livello di
imperativo ipotetico (per esempio attenersi a certe regole se si vuole
raggiungere un determinato scopo)" ( nota 21 ).
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Anche se riconosciuta come scienza umana pratico-prescrittiva, però, la
pedagogia è ancora oggi diversamente interpretata: c'è chi la denigra e
chi la esalta.
Ad esempio non appare corretta l'identificazione tra pedagogia e
filosofia (neppure quando quest'ultima sia intesa come filosofia
dell'educazione), in quanto tale identificazione condurrebbe ad un
discorso troppo astratto per avere validità scientifica.
Scrive ancora Gino Dalle Fratte: "Spetta indubbiamente al discorso
filosofico, sia pure nella particolare accezione dell'indagine sui
valori, elaborare un’assiologia capace di dare un fondamento alle scelte
che la stessa pedagogia deve operare, ma spetta alla pedagogia applicare
un corretto metodo per l'utilizzazione di questa stessa assiologia al
fine di costruire il progetto pedagogico". ( nota 22 )
Non appare inoltre corretta la tendenza a considerare la pedagogia non
come una scienza unitaria, ma come una molteplicità di branche separate
di altre scienze (biologia, psicologia, sociologia).
Al contrario la scienza pedagogica è unitaria perchè unitario è l'oggetto
cui si riferisce (l'educazione) e deve sempre costituirsi secondo tre
dimensioni fondamentali, in stretta e inscindibile relazione dinamica.
Una dimensione teoretica nella quale e per la quale prendono rilevanza
discorsi generali come quelli sulla natura dell'uomo, sulle
caratteristiche precipue dell'esperienza educativa, sui valori concepiti
come mete o fini da realizzare.
Una dimensione scientifica, intesa come apertura alle altre scienze
umane, necessaria alla conoscenza ed alla determinazione particolare
della realtà concreta in cui si opera (individuale: caratteristiche,
condizionamenti, potenzialità del singolo educando; sociale e socio-
culturale: caratteristiche, condizioni, esigenze di un'epoca, di una
società, di una istituzione).
Infine una dimensione tecnica, per la quale la scelta di particolari
strumenti e metodi educativi emerga da un'attenta analisi e da un
confronto tra i risultati ottenuti secondo le due precedenti dimensioni.
La presenza operante di questi tre livelli è dunque la condizione stessa
della scientificità della pedagogia, ma essa consente pure di rivalutare
nella sua giusta luce l'aspetto artistico del fatto educativo che ne
consegue.
"La combinazione, infatti, di quelle dimensioni o istanze, avendo come
obiettivo l'attuarsi di interventi educativi concreti non dogmatici, ma
sempre ripensati e rinnovati, comporta una capacità originale d'inventiva
e di libera iniziativa che caratterizza appunto qualsiasi fatto d'arte"
(nota 23 ).
L'universo d'indagine della pedagogia, invece, ci viene illustrato dal
già citato Dalle Fratte:
"Gli eventi presi in considerazione dal discorso pedagogico appartengono
alla categoria dei "fatti/atti sociali". Vale a dire che, propriamente,
la pedagogia riconosce come fattore specificante nella vita dell'uomo la
presenza degli altri uomini. La relazione sociale appare da questo punto
di vista costitutiva degli eventi che la pedagogia prende in
considerazione... Nei "fatti/atti educativi" esiste un rapporto
asimmetrico tra un soggetto agente (educatore, maestro, insegnante,
ecc.), in una posizione che si dice educativa, ed un secondo, anch'esso
agente, in posizione di apprendimento... Le proprietà della socialità e
dell'asimmetria non sono tuttavia ancora sufficienti. Una terza
proprietà, definibile come "intenzione educativa" permette di raggiungere
intensivamente una specificità sufficiente a risolvere il problema della
definizione dell'universo oggettuale della pedagogia e di distinguere
quindi fra componenti di interesse pedagogico e comportamenti che non
rientrano nello specifico ricercato ". ( nota 24 )
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