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INTRODUZIONE
Il presente elaborato vuole essere un piccolo contributo alla validazione della Scala
Italiana di Misura dell’Omonegatività, la SIMO (Lingiardi et al., 2009). I dati della
ricerca sono stati inseriti all’interno di una cornice teorica nella quale sono stati presi
in esame i concetti di omofobia sociale, omonegatività interiorizzata e minority
stress, tre aspetti che spesso caratterizzano la vita delle persone omosessuali.
La scelta di questi costrutti non è casuale, in quanto questi elementi non sono
indipendenti l’uno dall’altro ma si sviluppano e coesistono in stretta relazione.
Soprattutto recentemente, il termine omofobia è stato spesso utilizzato dai mass
media e dai giornali in riferimento ad alcuni atti di violenza compiuti nei confronti di
persone omosessuali, la cui unica causale era l’orientamento sessuale delle vittime.
Quello che si è cercato di fare in questo elaborato è stato di svolgere un’analisi più
approfondita dell’omofobia, che prendesse in considerazione le suo origini, lo
sviluppo e il cambiamento del termine stesso e delle sue definizioni, l’atteggiamento
delle religioni monoteiste e la posizione giuridica attuale nei confronti di questo
atteggiamento.
Generalmente con il termine omofobia si indica una paura e un’avversione
irrazionale nei confronti dell’omosessualità, caratterizzata da sentimenti, pensieri e
comportamenti avversi alle persone omosessuali. Tuttavia questa definizione ha
ricevuto nel tempo diverse critiche che contestavano da un lato la diversità tra
l’omofobia e la definizione di atteggiamento fobico data dal DSM-IV, e dall’altra
l’inadeguatezza della definizione nel descrivere i vari aspetti che caratterizzano
questo concetto (cognitivo, personale, interpersonale, sociale…ecc).
Alcuni autori, come Blumenfeld (1922) e Borrillo (2009) hanno scelto di descrivere
diversi tipi o livelli di omofobia, invece c’è stato chi, come Hudson e Ricketts
(1980), che ha scelto di utilizzare una diversa terminologia proponendo il termine
omonegatività, che sarà poi ripreso da Lingiardi (2009) per la costruzione del suo
strumento. Secondo gli autori con questo termine è possibile fare riferimento non
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solo alle componenti di ansia e avversione personale ma anche all’insieme degli
atteggiamenti cognitivi verso l’omosessualità sul piano sociale, morale e giuridico.
Questi atteggiamenti sociali nei confronti dell’omosessualità vengono appresi molto
presto, nelle prime fasi di vita, prima che un individuo abbia riconosciuto il proprio
orientamento sessuale, e questo complica il processo di accettazione di sé di gay e
lesbiche, nel momento in cui iniziano ad avere consapevolezza della loro
omosessualità.
A questo punto la persona omosessuale si trova a dover combattere con gli
atteggiamenti negativi, che ha interiorizzato nei confronti dell’omosessualità, ed è in
questa fase della formazione della propria identità che può svilupparsi quella che
viene definita omofobia interiorizzata. A questo punto il soggetto rivolge verso se
stesso i medesimi sentimenti che ha interiorizzato nei confronti dell’omosessualità,
derivati dalla percezione del pregiudizio ambientale, familiare e sociale.
È stata presa in esame la definizione operativa di omonegatività interiorizzata data da
Lingiardi et al. (in press), i quali descrivono questo costrutto come costituito da tre
dimensioni fondamentali: aspetti individuali, aspetti sociali e aspetti
affettivo/sessuali.
Diversi autori hanno analizzato le conseguenze che l’omofobia può avere sulla salute
psichica del soggetto (Hammelman 2003,Lingiardi 2007, Rivers 2004, Borrillo 2009)
e sono state analizzate le diverse modalità di intervento, descrivendo le
caratteristiche e le differenze tra la “terapia ripartiva” (Nicolosi, 1991) e la “terapia
affermativa” (Malyon 1982).
Infine è stato preso in esame come il vivere in un ambiente caratterizzato da
pregiudizi, nel quale non vengono riconosciuti i propri diritti e neppure la stessa
identità di queste persone, possa portare a sviluppare una forma di stress sociale
identificato con il termine minority stress, che letteralmente può essere definito come
lo stress legato all’appartenere ad una minoranza.
Meyer (2003) afferma che il minority stress deriva dall’incongruenza tra la cultura, i
bisogni e le esperienze degli individui che appartengono ad un gruppo minoritario e
la struttura della società. L’autore descrive il concetto di minority stress come
sviluppato lungo un continuum, proponendo tre processi che si muovono dal distale
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al prossimale che sono: le esperienze vissute di discriminazione e violenza, lo stigma
percepito e l’omofobia interiorizzata.
Inoltre sono state riportate alcune ricerche, italiane ed internazionali, che dimostrano
la relazione tra i fattori che costituiscono il minority stress e comportamenti a rischio
o conseguenze negative sul benessere mentale.
Infine è stata svolta una ricerca sperimentale, su un campione eterosessuale
compreso tra i 17 e i 40 anni, volta ad analizzare i risultati ottenuti attraverso la
somministrazione della SIMO (Scala Italiana di Misura dell’Omofobia, Lingiardi et
al., 2009), la Scala Kinsey che rileva l’atteggiamento sessuale dei soggetti, e la Scala
di Morse e McLachlan (2007) la quale analizza i pregiudizi nei confronti della
genitorialità e del parenting omosessuale.
Sono state svolte le statistiche descrittive sulle dimensioni che costituiscono la scala,
è stata effettuata un’analisi fattoriale e verificata l’attendibilità dei fattori estratti.
Inoltre gli obbiettivi della ricerca erano quelli di verificare la presenza di una
differenza di genere e di età nei livelli di omofobia, e l’eventuale relazione esistente
tra i livelli di omofobia sociale e l’atteggiamento nei confronti della genitorialità e
del parenting omosessuale.
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CAPITOLO 1. L’OMOFOBIA SOCIALE
È più facile spezzare un atomo
che un pregiudizio.
(A. Einstein)
1.1. L’omofobia: definizioni e questioni terminologiche
Nei paesi occidentali si parla sempre più di omosessualità ed è sempre più diffusa la
condanna verso l’aperta omofobia sociale, l’atteggiamento di ostilità nei confronti
degli omosessuali, uomini o donne che siano.
L’omofobia può essere definita come una paura e un’avversione irrazionale nei
confronti dell’omosessualità, di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali, basata sul
pregiudizio e analoga al razzismo e alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo.
Indica quindi generalmente un insieme di sentimenti, pensieri e comportamenti
avversi all’omosessualità o alle persone omosessuali.
Il termine omofobia appare per la prima volta nel 1998 in un dizionario di lingua
francese. La parola sembra stata coniata da Smith che in un articolo del 1971 cerca di
analizzare i tratti della personalità detta omofobica. Un anno più tardi, Gorge
Weinberg (1972) definisce l’omofobia come la paura di trovarsi in un luogo chiuso
con un omosessuale e, per quanto riguarda gli omosessuali, l’odio verso se stessi.
L’ostilità viene ricondotta principalmente alla paura rispetto alla propria adeguatezza
a rispondere al modello di maschilità previsto dalla società, di cui l’omosessuale
rappresenta l’opposto. Gli atteggiamenti omofobici servono a prendere le distanze da
questa figura, dalla possibilità di trovare in sé aspetti simili, in primo luogo il
desiderio omoerotico, o dal rischio di essere assimilato all’omosessuale, e dunque
rafforzare la propria immagine di veri uomini.
Come afferma Lingiardi “ l’omofobo non sta solo esternando i suoi pensieri riguardo
alle persone omosessuali, ma sta anche segnalando la sua distanza dalla categoria in
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questione” (Lingiardi, 2007; p. 49), in questo modo riafferma la sua eterosessualità
che gli appartiene ancor prima di venire al mondo.
Tuttavia lo stesso Weinberg (1972) sottolinea che alcune caratteristiche, come la
portata aggressiva dell’omofobia e la propensione a convertirsi in violenza, la
qualificano come fobia “atipica”. Si ricorda infatti che con il termine fobia si indica
“paure intense, esagerate, immotivate per situazioni, oggetti o azioni che il soggetto
prova nonostante spesso non se ne capisca la ragione. Il fobico posto a contatto con
lo stimolo specifico temuto presenta in genere vere e proprie crisi d’ansia più o meno
intense e paralizzanti”.
Tra i criteri per fare una diagnosi clinica di fobia devono essere presenti la
consapevolezza che la paura è eccessiva, irrazionale, inadeguata rispetto alla
circostanza e il conseguente bisogno, da parte del fobico, di liberarsene. Tuttavia
nessuno di questi criteri possono essere rilevati nell’omofobo che ritiene normale e
giustificata la sua reazione negativa nei confronti dell’omosessuale, inoltre, al
contrario delle fobie comuni, l’omofobia non compromette il funzionamento sociale
del soggetto e l’omofobo non vive con disagio la propria fobia né avverte il bisogno
di liberarsene. Infine, a livello comportamentale, le fobie si manifestano
principalmente con l’evitamento dell’oggetto o della situazione temuti;
nell’omofobia invece, l’evitamento può coesistere con comportamenti di avversione
attiva e, in alcuni casi, di deliberata aggressività.
1.2. Critiche al concetto di omofobia
Considerato questo, il termine omofobia sembra decisamente inappropriato per
designare un atteggiamento fobico, infatti lo stesso DSM-IV non lo riporta tra le
fobie.
In una ricerca condotta da un gruppo di psicologi della University of Arkansas sono
state sottoposte 138 persone ad una serie di test e a tre questionari per la misurazione
del livello di ansia e paura. Tra i test somministrati erano presenti l’Index of
Attitudes towards Homosexuals (IAH), la Sexual Attitudes Scale, il Disgust Emotion
Scale e il Padua Inventory; il primo è considerato lo strumento che misura
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l’omofobia; il secondo indaga il pensiero delle persone nei confronti della sessualità
umana; il terzo strumento aveva il compito di misurare le risposte delle persone in
termini di disgusto, mentre il Padua Inventory misura la paura di contaminazioni.
Le analisi statistiche compiute sui risultati hanno mostrato una correlazione negativa
tra gli atteggiamenti nei confronti degli omosessuali e la misura di paura e ansia;
invece i risultati del IAH erano correlati positivamente con i risultati della Sexual
Attitudes Scale, del Disgust Emotion Scale e del Padua Inventory.
In altre parole, i soggetti che mostrano punteggi elevati all’Index of Attitudes
towards Homosexuals mostrano attitudini sessuali “tradizionali”, elevati livelli di
disgusto e paura di contagio nei confronti dell’omosessualità: non paura e ansia.
L’ omofobia sarebbe quindi un atteggiamento e non una fobia.
Weinberg (1972) ritiene insoddisfacente il termine omofobia in quanto focalizza
l’attenzione soprattutto sulle cause individuali e irrazionali, trascurando la
componente culturale e le radici sociali dell’intolleranza e quindi “la parentela con
altri modi di odiare in prima persona plurale, come la misoginia, il razzismo, la
xenofobia” (Lingiardi, 2007, p. 45).
Come il razzista, infatti, l’omofobo di solito si rifà ad un sistema codificato di
credenze che ritiene di dover difendere dalla minaccia di soggetti che considera
pericolosi.
Secondo Morin e Garfinkle (1978) l’omofobia può essere definita anche “un sistema
di credenze e di stereotipi che mantiene giustificabile e plausibile la discriminazione
sulla base dell’orientamento sessuale: l’uso di un linguaggio o di uno slang offensivo
nei confronti delle persone gay; qualsiasi sistema di credenze che valuta gli stili di
vita omosessuali in confronto a quelli eterosessuali”.
Con il termine omofobia è possibile designare, pertanto, due aspetti della stessa
realtà: una dimensione personale di natura affettiva, che si manifesta attraverso il
rifiuto degli omosessuali, e una dimensione culturale, di natura cognitiva, nella quale
non è l’omosessuale come individuo ad essere preso di mira dal rifiuto, ma
l’omosessualità come fenomeno psicologico e sociale. Questa distinzione permette di
capire meglio delle realtà presenti nelle società moderne nelle quali si tollera o
addirittura si simpatizza con i membri stigmatizzati pur ritenendo inaccettabile ogni
politica egualitaria nei loro confronti.
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Considerando la difficoltà di unificare tutti gli atteggiamenti contro gli omosessuali
nell’unico concetto di omofobia, molti studiosi preferiscono un concetto
multidimensionale e analizzano l’omofobia attraverso lo studio dei vari aspetti che la
costituiscono. Warren Blumenfeld (1992), ad esempio, riconosce quattro livelli
diversi di omofobia:
1) personale, che riguarda i pregiudizi individuali verso gay e lesbiche;
2) interpersonale, che si manifesta quando le persone traducono in
comportamenti i loro pregiudizi;
3) istituzionale, che si riferisce alle politiche discriminatorie delle istituzioni
(governo, aziende, organizzazioni religiose, professionali ecc);
4) sociale, che si esprime attraverso i comuni stereotipi su gay e lesbiche e
l’esclusione di questi dalle rappresentazioni culturali collettive.
Daniel Borrillo (2009) invece ci parla di:
1) omofobia generale, andando oltre la semplice diffidenza verso gay e lesbiche
esprime una forma generale di ostilità nei confronti dei comportamenti
opposti ai ruoli sociosessuali prestabiliti. Secondo Welzer-Lang non è che
una manifestazione di sessismo, una discriminazione verso persone che
esprimono o alle quali vengono attribuite qualità considerate dell’altro
genere;
2) omofobia specifica, costituisce una forma d’intolleranza riferita in particolare
a gay e lesbiche, che alcuni autori hanno proposto di dividere anche in
“gayfobia” e “lesbofobia”;
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3) omofobia irrazionale (psicologica), come forma di violenza verso gay e
lesbiche caratterizzata da un sentimento di paura, di disgusto e di repulsione,
una vera e propria manifestazione emotiva di tipo fobico;
4) omofobia cognitiva (sociale), come forma di violenza meno grossolana ma
più insidiosa. È un’omofobia più sfumata e di carattere sociale, insita
nell’atteggiamento di disprezzo che è alla base di un modo ordinario di
rapportarsi e di categorizzare l’altro. L’omofobia cognitiva si limita a
mantenere la differenza omo/etero e a predicare la tolleranza, senza però
riconoscere agli omosessuali gli stessi diritti degli eterosessuali.
Come ci spiega Lingiardi (2007) l’omofobia cognitiva riflette il bisogno di
mantenere una rappresentazione stabile e immodificabile del contesto sociale, che
garantirebbe all’individuo la salvaguardia delle posizioni sociali. Pertanto le risposte
omofobiche possono essere considerate delle strategie cognitive a scopo
autodifensivo rispetto a un’immaginaria minaccia di disordine.
Le varie critiche rivolte al sostantivo omofobia, in quanto termine non del tutto in
grado di raccogliere i vari aspetti di questo concetto, hanno portato Hudson e
Ricketts (1980) a proporre il termine omonegatività.
Secondo gli autori con questo termine è possibile fare riferimento non solo alle
componenti di avversione e di ansia proprie dell’omofobia nel senso classico del
termine, ma anche e soprattutto all’insieme degli atteggiamenti cognitivi verso
l’omosessualità sul piano sociale, morale, giuridico e/o antropologico.
Come affermato da Williamson (2000) con questo termine l’attenzione viene
focalizzata maggiormente sulle convinzioni e i sistemi valoriali dei pregiudizi
individuali.
Lingiardi (2007) ritiene utile l’uso di questo concetto in quanto multidimensionale e
più ampio, che include le componenti culturali e le radici sociali dell’intolleranza,
facendo riferimento all’intera gamma di sentimenti, atteggiamenti e comportamenti
negativi verso l’omosessualità e le persone omosessuali.
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Inoltre lo stesso Lingiardi (2007) propone di utilizzare il termine omonegatività
sociale quando si fa riferimento ai comportamenti perpretati socialmente contro le
persone GLB.
1.3. Omofobia, sessismo ed eterosessismo
L’omofobia non può essere considerata indipendentemente dall’ordine sessuale a
partire dal quale vengono organizzati i rapporti sociali tra i sessi e le forme della
sessualità.
La naturalizzazione della differenza tra l’uomo e la donna è all’origine della
giustificazione sociale dei ruoli che vengono loro attribuiti.
Il “sessismo” quindi può essere definito come l’ideologia che struttura i rapporti tra i
sessi, che definisce il maschile caratterizzato dalla sua appartenenza all’universo
esterno e politico, opposto al femminile centrato sull’intimità e la domesticità.
L’ordine sessuale costituito dal sessismo implica non soltanto la subordinazione del
femminile al maschile, ma anche la gerarchizzazione delle sessualità, fondamento
dell’omofobia.
Di conseguenza, il costante richiamo alla superiorità biologica e morale dei
comportamenti eterosessuali fa parte di una strategia politica di costruzione della
normalità sessuale. L’eterosessualità appare quindi come il metro a partire dal quale
tutte le altre sessualità vanno commisurate. È questa qualità normativa a costituire
una forma specifica di dominazione denominata “eterosessismo”, secondo cui
l’eterosessualità è la sessualità normale e naturale, parte integrante dell’essere uomini
o donne. L’eterosessualità viene considerata di rango superiore, mentre le altre forme
di sessualità appaiono incomplete, accidentali, perverse, patologiche, criminali,
immorali e distruttrici della civiltà. Esiste inoltre una forma di eterosessismo, definita
differenzialista, la quale giustifica il diverso trattamento dei gay e delle lesbiche,
privandoli in particolare del diritto al matrimonio, all’adozione o alle tecniche di
procreazione assistita, in nome della diversità delle sessualità, al fine di preservare la
differenza dei sessi e dei generi. L’eterosessismo differenzialista è una forma di
omofobia più sottile ma non meno efficace in quanto, rifiutando la discriminazione