3
L’analisi sulle possibili cause della crisi dello stato sociale porta alla
conclusione che più che un ridimensionamento delle politiche di welfare, si
richiede un loro riposizionamento, nell’ambito di un sistema in cui le
organizzazioni non profit abbiano un ruolo non più residuale.
D’altra parte la spia di una maggiore attenzione verso il terzo settore è data,
anche, dalla introduzione di una specifica disciplina, per il momento limitata
agli aspetti fiscali, riguardante le organizzazioni non profit, per le quali, in
tale occasione, è stata creata una nuova figura giuridica: l’ONLUS
(Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale). Gli aspetti salienti ed i
principali caratteri di tale normativa saranno oggetto del terzo paragrafo del
primo capitolo.
In chiusura, verrà affrontato il tema, molto dibattuto, dell’inquadramento
dell’azienda non profit. A tal fine, saranno ripercorse brevemente le tappe
salienti dell’evoluzione del concetto di azienda, così come si ricava
dall’analisi delle definizioni elaborate dai più importanti aziendalisti italiani,
e sulla base della verifica della presenza dei principali caratteri
dell’aziendalità, verrà affermata la piena legittimità all’esistenza per
“l’azienda non profit”.
Nel capitolo secondo si entra nel vivo della tematica oggetto della tesi,
fornendo le coordinate necessarie ai fini della valutazione del ruolo e del
peso della Chiesa cattolica nel nostro Paese. In particolare nel primo
paragrafo verrà condotto un breve excursus storico dal Medio Evo all’Età
4
Moderna, che, senza avere alcuna pretesa di esaustività, è finalizzato a
mettere in luce come gli interventi sociali della Chiesa affondino le proprie
radici nel periodo tardo medioevale, ben prima che esistesse lo Stato o
qualsiasi politica di welfare. In un certo senso, potrebbe affermarsi, in
riferimento alle molteplici attività di assistenza, carità e diffusione di valori,
da sempre ad appannaggio delle organizzazioni riconducibili alla Chiesa
cattolica, che essa è un’organizzazione non profit ante-litteram.
I paragrafi centrali del secondo capitolo riguardano l’analisi dell’apparato
organizzativo della Chiesa di cui, attraverso una serie di tabelle, si è cercato
effettuarne una panoramica, non solo al fine di “quantificare” la misura
dell’intervento socio-assistenziale, ma anche in relazione a tematiche, quali
ad esempio: il calo delle vocazioni, che tanta importanza rivestono nella
valutazione delle prospettive future dell’organizzazione. Proprio in
quest’ottica nel paragrafo quattro è parso opportuno fornire un chiarimento
sulle novità introdotte dagli accordi di revisione del Concordato lateranense
e sui primi effetti di tale normativa, a quindici anni dalla sua entrata in
vigore.
Il terzo ed ultimo capitolo riguarda gli aspetti più propriamente economici
ed “aziendali” dell’attività svolta dagli enti ecclesiastici. In tale contesto si è
ritenuto opportuno inserire la trattazione di argomenti come la
secolarizzazione e la formulazione del principio di sussidiarietà nella
dottrina sociale cattolica. Quest’ultimo, in particolare, è un tema sempre
5
presente nel dibattito sulle prospettive delle organizzazioni non profit, ed è
particolarmente significativo che la sua originaria formulazione sia avvenuta
in un’enciclica papale.
Dal terzo paragrafo in poi, le istituzioni religiose vengono viste nell’ottica
aziendale, analizzandone caratteristiche e peculiarità in riferimento
soprattutto al “prodotto” realizzato ed agli aspetti inerenti al rapporto con i
fedeli. In quest’ottica si sottolinea il ruolo svolto dalle parrocchie come
“porzioni”della Chiesa universale sulla Terra, nelle quali si assiste, anche in
seguito alla progressiva carenza di personale, ad un sempre maggiore
coinvolgimento dei laici.
Gli ultimi due paragrafi saranno invece dedicati ai temi del marketing e
della comunicazione. L’esigenza di ricorrere a strumenti di marketing sorge
con l’entrata in vigore della nuova normativa dei finanziamenti pubblici, ed
è giustificata dal regime concorrenziale instauratosi con le altre confessioni
religiose. Non vi è alcuna blasfemia nell’accostamento tra religione e
marketing, anche perché le operazioni di marketing non riguardano l’offerta
religiosa in senso metafisico, ma solo la sua comunicazione.
Alcuni autori, nemmeno troppo scherzosamente, partendo dal presupposto
che la Chiesa cattolica, nella sua dimensione materiale, costituisce
l’organizzazione umana di maggior durata e successo, ritengono che ciò sia
dovuto proprio all’efficacia delle politiche di marketing e comunicazione
adottate.
6
CAPITOLO I
DAL WELFARE STATE AL TERZO
SETTORE
1. ORIGINE E DECLINO DEI SISTEMI DI WELFARE
L’insieme delle strutture e degli interventi che lo Stato adotta al fine
di assicurare a tutti i cittadini un livello minimo di benessere, si definisce
stato sociale o welfare state. Gli interventi in parola variano da realtà a
realtà, con modalità di accesso e intensità diverse, e comprendono sia forme
di assistenza diretta alle fasce più disagiate della popolazione,
impossibilitate a far fronte temporaneamente o in modo permanente, ai
bisogni legati alla mera sussistenza, sia l’accesso gratuito ad alcuni servizi
ritenuti essenziali, come l’istruzione e la sanità, fino allo stesso sistema
previdenziale. Più precisamente, ogni sistema di welfare è progettato per
assolvere almeno tre funzioni: redistributiva, assicurativa e produttiva
(BORZAGA, 1996).
La funzione redistributiva si concretizza in trasferimenti monetari
diretti o in erogazione di servizi, a favore di determinate fasce della
popolazione, che percepiscono redditi inferiori ad un livello minimo
7
prestabilito (c.d. “soglia di povertà”)
1
. La funzione assicurativa comprende
una serie di strumenti volti ad “ammortizzare” i rischi connessi a specifici
eventi, quali: la perdita del posto di lavoro, la malattia, il ritiro dal lavoro
per anzianità. A tal fine, vengono forniti sussidi ai senza lavoro e sono
previste le assicurazioni sanitarie e le pensioni. La funzione produttiva,
infine, riguarda gli interventi di sostegno, sia in forma diretta, che in forma
indiretta, alla produzione di determinati beni e servizi.
La necessità di una politica statale che privilegiasse finalità come la
sicurezza sociale e la redistribuzione del reddito, si affermò per la prima
volta negli Stati Uniti negli anni successivi alla grande depressione
2
, con
l’opera dell’amministrazione Roosevelt, che promosse un vasto programma
di interventi statali di sostegno all’economia, all’origine della cosiddetta Età
del New Deal, ancor oggi citata da politici di varia estrazione
3
.
Successivamente simili politiche, seppur riadattate ai diversi contesti, si
affermarono nelle nascenti democrazie europee del dopoguerra
4
. Infatti,
come acutamente osserva Milanese (MILANESE, 1998a, p.38),
1
Al disotto di tale limite, gli individui non sono in grado di far fronte ai bisogni ritenuti
indispensabili per condurre una vita “normale”. Tale nozione di normalità, va riferita al
livello di progresso economico-sociale raggiunto, in un dato momento storico, da un certo
gruppo sociale.
2
L’adozione di programmi di welfare non generalizzati si ebbe già nella Prussia
bismarkiana del XIX secolo. Sul punto e sulle ragioni che indussero Bismark ad elaborare
una tale politica, si veda: (BUCHANAN, 1998, pp.69-71).
3
Recentemente un noto esponente politico dell’opposizione, di chiara ispirazione
anticapitalista, ha auspicato, per il nostro paese “un secondo new deal”, che in qualche
misura ricalcasse quello statunitense di inizio secolo
4
Il primo Paese europeo che elaborò un sistema di sicurezza sociale fu la Gran Bretagna
con il Piano Beveridge, il cui principio ispiratore può riassumersi nel famoso motto:”dalla
culla alla tomba”.
8
“l’intervento dello Stato si fonda quasi sempre su una spinta dal basso”che
richiede necessariamente “una forma di governo democratica caratterizzata
da un’idea di parità di diritti/doveri e dall’obiettivo della realizzazione di
una sostanziale (oltre che formale) eguaglianza tra i cittadini”. Tra gli anni
50 e gli anni 60 in tutti i paesi industrializzati furono elaborati e realizzati
estesi programmi di sicurezza sociale, cui furono destinate ingenti risorse. In
alcuni paesi, tali interventi furono rivolti a tutti i cittadini,
indipendentemente dal livello reddituale, (welfare universalistico); in altri
paesi, invece, lo Stato intervenne in favore dei soli ceti meno abbienti
(welfare residuale)
5
. A partire dagli anni 70 tuttavia, prima la crisi
petrolifera, e poi l’entrata in un’era economica di grande turbolenza, che
dura tuttora
6
, misero impietosamente a nudo l’equivoco che si potesse
crescere continuamente ed in modo costante, principale assunto su cui si
fondava l’architrave finanziario dello stato sociale
7
. Il carico fiscale e il
livello di indebitamento pubblico raggiunti, resero i programmi di welfare
non più sostenibili nel lungo periodo
8
. Secondo Buchanan ( BUCHANAN,
5
A tale tipologia può essere fatta corrispondere quella di Buchanan, di Stato del benessere
generale e Stato del benessere discriminatorio.
6
“ Si evidenzia sempre più un sistema economico caratterizzato da complessità,
sorprendente e limitatamente prevedibile; sistema in cui l’agire imprenditoriale si fonda
più su azioni di coordinamento/collegamento delle diverse parti di società coinvolte nella
produzione/distribuzione e consumo di beni che sulla sola produzione/distribuzione di beni
(MATACENA, 1997, p.818).
7
Secondo Milanese, i sistemi di welfare, per effetto del rallentamento del tasso di crescita
economica che aveva caratterizzato l’economia europea del dopoguerra, divennero troppo
onerosi rispetto alle entrate ed eccessivamente vincolanti per le scelte di politica
economica.(MILANESE, 1998a).
8
Secondo un’altra impostazione, il ridimensionamento dello stato sociale si richiederebbe,
indipendentemente da ragioni finanziarie, sulla base della considerazione degli effetti di
9
1998, pp.71 e seg.), uno Stato del benessere generalizzato è incompatibile
con la democrazia. Tale incompatibilità dipende da due fattori principali dei
quali il primo è legato ai meccanismi con cui vengono assunte le decisioni
nelle democrazie maggioritarie, che conducono ad un trattamento
discriminatorio nei confronti delle istanze della minoranze
9
. In un sistema
politico caratterizzato dall’alternanza al potere delle varie coalizioni, tale
circostanza verrebbe minimizzata nei suoi effetti, se non si aggiungesse il
secondo fattore sopracitato riguardante il cosiddetto “effetto ratchet”, che
comporta una continua crescita degli impegni fiscali
10
. Un’ulteriore fattore
alla base della crisi finanziaria dello Stato sociale è il cambiamento del
profilo demografico della popolazione, con effetti riguardanti soprattutto la
spesa previdenziale
11
Si può perciò affermare che, il declino dello stato
sociale non è solo il prodotto di un’inefficienza economica, legata alla
scarsità delle risorse in rapporto alle esigenze di mantenimento delle
complesse (e costose) strutture di welfare, ma anche la conseguenza di una
sostanziale inefficacia delle politiche adottate in virtù di un’offerta pubblica
deresponsabilizzazione dei cittadini, cui conduce un’estesa rete di protezione sociale. Sul
punto si veda: (SAVONA, 1998). Sul tema della deresponsabilizzazione è intervenuto
anche il Papa nell’enciclica Centesimus Annus: “intervenendo direttamente e
deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e
l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla
preoccupazione di servire gli utenti, con un’enorme aumento delle spese”. (Centesimus
Annus, n. 48).
9
Tale aspetto verrà approfondito nel prosieguo.
10
Sul punto si veda: (BUCHANAN, 1998, p.72).
11
Secondo recenti previsioni dell’OCSE, nel nostro Paese, fermi restando gli attuali tassi di
natalità e di mortalità, il rapporto % tra la fascia di popolazione con più di 65 anni e quella
di età compresa tra 15 e 64, passerà dall’attuale 21% al 30,4% nel 2010 e al 68.8% nel
2050.
10
che, il più delle volte, si è rivelata scarsamente differenziata a fronte di
nuovi e più complessi bisogni individuali
12
.
La tendenza affermatasi negli anni’80 è stata quella di un
progressivo ridimensionamento dello stato sociale, grazie anche al
diffondersi di posizioni politiche contrarie ad un forte intervento dello Stato
nell’economia e favorevoli ad una riduzione della pressione fiscale
13
.
Negli anni’90 si è avuta quasi ovunque, nel mondo occidentale,
l’affermazione di governi progressisti, ideologicamente più sensibili al
mantenimento di un livello minimo di garanzie sociali, ed il dibattito si è
spostato “dal come ridurre al come riformare”, salvaguardando, per quanto
possibile, gli attuali standards, ma rispettando i vincoli di bilancio
14
. Perciò,
si sono seguite diverse strade, riconducibili comunque a quattro direttrici
fondamentali
15
:
1) il decentramento delle responsabilità, in materia di servizi di
welfare, dallo Stato alle Amministrazioni locali, che essendo più
“vicine”all’utenza, sono in grado di fronteggiarne i bisogni con
maggiore efficacia;
12
Secondo Fiorentini, lo stato sociale va in crisi, non solo per carenza di risorse finanziarie,
ma anche “per lo sviluppo di nuovi bisogni sociali, per la cui soddisfazione sono necessarie
“strutture adeguate e una solidarietà organizzata”. (FIORENTINI, 1997, p.4).
13
Ne sono un’esempio lampante le politiche di Reagan negli USA, e di Margareth Tatcher
nel Regno Unito.
14
Che, per il nostro Paese sono anche di tipo “esterno”, in quanto impostici in virtù
dell’adesione al trattato di Mastricht, prima, e all’ingresso nell’Unione Europea, dopo.
15
In questo si segue l’impostazione adottata da Borzaga, Fiorentini e Matacena,
nell’introduzione a: (BORZAGA, FIORENTINI, MATACENA, 1996).
11
2) l’introduzione di tecniche di gestione “privatistiche”, compresa
l’imposizione di livelli tariffari maggiormente aderenti ai costi di
produzione;
3) la riduzione del grado di copertura dei bisogni, attraverso,
soprattutto, una più puntuale definizione delle categorie
“beneficiarie” dei servizi da erogare;
4) la separazione tra finanziamento, pubblico, e l’erogazione,
affidata ai privati.
Il risultato di tali politiche, attuate singolarmente o in modo
combinato, si è manifestato in un miglioramento, in termini di efficacia
ed efficienza, dell’azione dell’operatore pubblico e in una forte crescita
dell’offerta privata di servizi sociali. Si è venuto, perciò, a determinare,
un sistema di welfare di tipo misto, nel quale l’operatore pubblico
svolge solo alcune funzioni, lasciando, nel rispetto del principio di
sussidiarietà
16
, all’iniziativa privata le rimanenti. Più precisamente, si è
definito un nuovo ruolo dello Stato, meno focalizzato sulla
regolamentazione dell’attività dei privati e più attento alle politiche di
sostegno e di coordinazione dei vari soggetti operanti nel settore
dell’offerta privata di servizi sociali, nel quale è possibile isolare uno
specifico insieme, costituito da quelle organizzazioni che operano
secondo una logica diversa da quella di mercato, ponendosi in una
16
Il principio di sussidiarietà, nella sua formulazione nell’Enciclica Quadragesimo anno,
sarà oggetto di un successivo paragrafo nel terzo capitolo del seguente lavoro.
12
posizione in parte di cooperazione in parte di concorrenza con le
strutture statali e del mercato privato.
Alla stessa conclusione, seppur seguendo una diversa impostazione,
giunge Zamagni, il quale afferma che: “nella transizione dal fordismo al
post-fordismo, è la natura stessa del problema economico a risultare
mutata. Mentre nella società industriale esso consisteva,
essenzialmente, nella scelta tra più mezzi alternativi, di quello che
meglio consentisse il conseguimento di determinati fini, i problemi che
intrigano la società post-industriale, sono soprattutto quelli concernenti
la scelta fra fini diversi, vale a dire tra modelli di società o tra stili di
vita diversi. La vera novità dell’oggi è che la dimensione etica del
discorso economico, lambisce un nuovo territorio, quello della libertà”
(ZAMAGNI, 1996, p.157). La principale questione oggetto del dibattito
non è più quella concernente la ripartizione delle attività economiche tra
sfera pubblica e sfera privata, bensì quella riguardante “lo spazio che è
bene occupi la società civile nell’attuale divisione di tutto lo spazio
sociale tra Stato e Mercato” (ZAMAGNI, 1996, p.158). Alla base di
una tale impostazione vi è “l’idea fondamentale che anche nella società
moderna, come in quelle antiche, la solidarietà preceda il patto tra i
cittadini e sia radicata non tanto negli individui, quanto nel sociale, cioè
nell’azione dei gruppi volontari e delle organizzazioni sociali, che
operano in una sfera intermedia tra lo Stato e i cittadini
13
singoli”(RANCI, 1999, p.19). Perciò, nella società moderna occorre
dare spazio all’azione delle forze della società civile, in tal modo
“evocando” un terzo soggetto apparentemente intermedio, sia dal punto
di vista funzionale che terminologico, ai due tradizionali attori/settori
dell’economia. A tale soggetto, ci si riferisce, comunemente utilizzando
il termine terzo settore, o, in modo equivalente, settore non profit.
Ciò presuppone l’idea che esistano organizzazioni che, pur svolgendo
attività estremamente diverse e diversificate, abbiano in comune alcuni
caratteri. L’individuazione di tali caratteri costituisce il campo
principale di ricerca degli studiosi del terzo settore ed è oggetto di
particolare controversia, poiché il terzo settore “costituisce soprattutto
un campo di intermediazione, in cui operano meccanismi propri sia
dello Stato che del mercato”(RANCI, 1999, p.22), cosicché diventa
particolarmente difficile individuarne un principio di funzionamento
peculiare.
2. TERZO SETTORE: LA DIFFICILE RICERCA DEI
CRITERI DI INQUADRAMENTO
L’Economia aziendale ha per oggetto lo studio dell’ordine
economico degli istituti, ossia delle collettività umane istituzionalizzate,
14
nelle quale vengono svolte sia attività economiche che di altro
tipo(AIROLDI, 1995). In genere, nonostante si possa senz’altro affermare
che, in qualsiasi istituto viene svolta una, seppur minima, attività
economica, l’oggetto principale di indagine riguarda quegli istituti nei quali
l’attività economica è prevalente, se non addirittura, esclusiva. Perciò
l’Economia aziendale si è occupata prevalentemente di tre classi di istituti:
le imprese private, le imprese pubbliche e le famiglie, riservando una
particolare attenzione alle prime.
Nel paragrafo precedente si è visto come oggi si riconosce, pur nella
differenza di talune posizioni, l’esistenza di un settore distinto ed autonomo
rispetto agli altri tradizionali settori economici, perciò l’oggetto di studio
dell’Economia aziendale si è arricchito di una quarta classe di istituti: gli
istituti non profit.
Con la locuzione settore non profit o terzo settore, si indica
l’insieme delle organizzazioni, che esercitano un’attività economica non
finalizzata al conseguimento del profitto, o meglio, alla sua distribuzione
diretta ad una qualche categoria di stakeholders.
In realtà, “l’espressione non profit, non rende pienamente giustizia
alla varietà delle forme di intervento delle molteplici espressioni della
società civile” (ZAMAGNI, 1996, p.166); inoltre, il vincolo di non
distribuzione degli utili, non implica necessariamente assenza di profitto,
15
come erroneamente l’espressione potrebbe far ritenere
17
. Infatti, essa sta ad
indicare che il potere di combinare al meglio le risorse viene utilizzato per
massimizzare non il vantaggio economico di chi lo esercita, ma per fornire
un servizio alla comunità o per massimizzare i vantaggi degli utenti o per
altre motivazioni (FIORENTINI, 1997, p.15).
Qualsiasi definizione riferita al settore non profit, è modellata su
quelle contenute nella letteratura statunitense
18
. In tale ambito, lo status di
organizzazione non profit viene concesso ad organizzazioni private, operanti
sotto varie forme giuridiche, che stabiliscono per via statutaria il divieto di
distribuzione degli eventuali profitti conseguiti. Il sistema statunitense
prevede, inoltre, l’esenzione fiscale (in particolare, per l’imposta federale
sul reddito di impresa) per le organizzazioni non profit che svolgono
un’attività rientrante in una delle 24 categorie previste nella sezione 501 del
codice fiscale americano (Internal Revenue Code)
19
. Il non profit sector
statunitense presenta, comunque, delle peculiarità che lo rendono fortemente
17
A ben vedere, anche il vincolo di non distribuzione degli utili, non è un’elemento
sufficiente per definire il settore non profit, potendo essere i proventi completamente
autodestinati, ma in una logica di esclusivo autointeresse. Sul punto si veda: (ANGELONI,
1996, pp.166).
18
A tal fine, le definizioni generalmente proposte (si veda ANGELONI, 1996, p.165) sono
due:
-“a nonprofit organization is, in essence, an organization that is barred from distributing its
net earnings, if any, to individuals who exercise control over it, such as members, officers,
directors, or trustees”;
-“....private organizations that are prohibited from distribuiting a monetary residual”.
19
Negli Stati Uniti vengono adottati, oltre a quello citato nel testo, altri due schemi
classificatori di una certa rilevanza:
1) la classificazione dell’US Census of Service Industry, l’organo ufficiale che
censisce le industrie;
2) la classificazione secondo la National Taxonomy of Exempt Enties, curata dal
National Center for Charitable Statistics.
16
dissimile rispetto a quello italiano ed europeo in generale
20
. In particolare,
esse riguardano il rapporto tra organizzazione e utente, che negli Usa è
molto simile a quello presente nelle organizzazioni (for) profit, e la natura
delle non profit statunitensi che sono esclusivamente private a differenza del
contesto italiano in cui vi sono esempi di non profit di natura pubblicistica
21
.
L’Italia si caratterizza, comunque, come un paese nel quale lo sviluppo
ed il peso in termini occupazionali del terzo settore risulta sensibilmente
inferiore rispetto ad altri paesi dell’ Unione Europea
22
. In realtà ciò è dovuto
in gran parte alla sottovalutazione del peso del volontariato; nel nostro
paese, infatti, si calcola, che operino circa tre milioni di volontari, impegnati
per una media di cinque ore settimanali, che, se inclusi nel totale della forza
lavoro, impegnata nel sociale, innalzerebbero il livello occupazionale
complessivo del settore al 3% sul totale degli occupati, un dato molto vicino
a quello degli altri paesi( RANCI, 1999).
Oltre alla rilevanza del ruolo giocato dal volontariato il settore non profit
italiano si contraddistingue per altre importanti caratteristiche:
20
Alla base di ciò vi sono, in primo luogo, delle ragioni storiche. Secondo Sparrow e
Melandri, negli Stati Uniti la società civile ha “anticipato” lo Stato, infatti…. le prime
comunità si formarono prima dello Stato, occupandosi dei bisogni di ciascun membro della
comunità ….ed anche dopo che il governo consolidò le proprie strutture organizzative, i
cittadini americani rimasero sempre riluttanti nell’usarne i servizi, (SPARROW,
MELANDRI, 1996; pp.97).
21
Si fa riferimento alle IPAB ed agli Enti per i servizi sociali istituiti con la legge 142 del
1990. (MILANESE, 1998, p.26).
22
Secondo una stima calcolata da Barbetta nel 1996, il peso occupazionale del terzo settore
nel nostro paese è pari all’ 1,8%, contro il 4,0% del Regno Unito, il 3,7% della Germania, il
4,2% della Francia (RANCI, 1999, nota n.9, p.33).