CAPITOLO 1
L’INNOVAZIONE NELLA TEORIA ECONOMICA Abstract In questo capitolo verranno presi in analisi i principali approcci teorici che hanno
esaminato il processo innovativo delle imprese. E’ ampiamente riconosciuto che
l’innovazione è la più importante fonte di crescita e sviluppo economico. I contributi
sullo studio dell’innovazione e delle politiche necessarie al suo sostegno sono
innumerevoli, sebbene sia facile riscontrare una certa ambiguità nella definizione e
concettualizzazione della stessa attività innovativa.
Nelle pagine successive verranno analizzate le due scuole principali che si
confrontano nell’analisi delle caratteristiche, determinanti e conseguenze
dell’innovazione, quella mainstream e quella evolutivo - sistemica.
1.1 )L’approccio neoclassico dei fallimenti del mercato
I contributi teorici che hanno esercitato maggiore influenza nell’ambito della scuola
neoclassica sono quello di Nelson (1959) e quello di Arrow (1962a). Il primo indaga in
particolare il settore della ricerca di base, mentre Arrow analizza la creazione di
conoscenza da parte delle imprese nel contesto neoclassico. Per entrambi, l’unità di
analisi è il singolo soggetto economico, che si rapporta alla altre componenti del
sistema attraverso la competizione, quindi attraverso il meccanismo dei prezzi. La teoria
neoclassica dell’impresa è una teoria di equilibrio dei mercati, che considera l’attore
economico come una scatola nera, la cui organizzazione interna e le forme di
apprendimento sono ampiamente ignorate. I soggetti economici sono dotati di
razionalità sostanziale, hanno accesso allo stesso insieme di informazioni e alla stessa
tecnologia e non incorrono in costi aggiuntivi di apprendimento quando adottano nuove
tecniche produttive (Malerba, Cusmano 2001). In questi modelli la tecnologia è
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informazione. Se non è tenuta segreta o protetta da un brevetto, la tecnologia è
liberamente disponibile, ha un costo di riproduzione pari a zero e si diffonde
liberamente. In tal caso è caratterizzata dal “paradosso di Arrow”, secondo il quale
l’informazione una volta resa nota perde il suo valore (Arrow, 1962a). Inoltre, la teoria
neoclassica non fornisce alcun contributo circa le determinanti dell’innovazione e della
sua diffusione. Sul piano dell’intervento pubblico, nell’approccio neoclassico le
politiche per l’innovazione si focalizzano sul sostegno alla ricerca scientifica,
promuovendo così interventi finalizzati alla correzione di fallimenti del mercato della
conoscenza (Malerba, 2000).
La causa principale all’origine del fallimento del mercato è la connotazione della
conoscenza come bene pubblico. La nuova conoscenza, in generale, possiede le due
proprietà classiche del bene pubblico: la non rivalità nel consumo e la non escludibilità
dai suoi benefici. L’uso della nuova conoscenza da parte di un soggetto non riduce
l’ammontare di essa disponibile per il consumo da parte di altri (non rivalità). Inoltre,
una volta prodotta e resa disponibile una nuova conoscenza, è spesso oggettivamente
difficile escludere taluni soggetti dal consumo di essa (non escludibilità); ciò accade
perché esiste una oggettiva difficoltà nel definire, attribuire ed esercitare diritti di
proprietà sui risultati della ricerca. Sul piano dell’intervento pubblico, nell’approccio
neoclassico le politiche per l’innovazione si focalizzano e si realizzano nel sostegno
pubblico alla ricerca scientifica, promuovendo così interventi finalizzati alla correzione
dei fallimenti del mercato della conoscenza (Malerba, 2000).
Arrow (1962a) utilizza questo argomento per dimostrare che la produzione di
conoscenza/informazione rappresenta un caso classico di market failure. Arrow afferma
che la quantità di risorse investita nel mercato competitivo risulta socialmente sub
ottimale a causa delle caratteristiche di incertezza e indivisibilità dell’attività di R-S e
della parziale inappropriabilità dei suoi risultati. In primo luogo, il risultato dell’attività
di ricerca è, per sua definizione, un bene indivisibile, sicché, una volta prodotto, il suo
costo marginale d’uso è frequentemente molto basso ed assai prossimo a zero; ne
consegue una significativa presenza di rendimenti di scala crescenti nell’adozione di
innovazioni. Questa situazione genera forti incentivi per la creazione di monopoli, da
cui deriva un allontanamento dall’ “ottimo competitivo”, in base al quale il prezzo di
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mercato dovrebbe essere pari al costo marginale (Malerba, Cusnamo 2001, pag. 301).
Se il costo marginale è zero, l’allocazione ottimale per cui il prezzo è uguale al costo
marginale porterebbe ad una diffusione illimitata dell’innovazione e quindi non ci
sarebbe alcun incentivo per l’innovatore.
Una ulteriore spiegazione delle dimensioni sub ottimali dell’investimento in R-S si
individua nelle particolari caratteristiche di rischio ed incertezza intrinseche nell’attività
di R-S. Arrow definisce l’invenzione come un processo caratterizzato da un elevato
rischio, “nel quale il risultato non può mai essere perfettamente previsto sulla base degli
input in esso impiegati” (Arrow 1962a, pag.616). Il mercato, in alcuni casi, può
estendersi a comprendere forme di assicurazione del rischio, così come possono esistere
accorgimenti istituzionali in grado di mitigarne gli effetti; tali forme, tuttavia, si rivelano
spesso limitate ed imperfette. Ne deriva che, in presenza di avversione al rischio del
soggetto investitore, il volume di risorse destinato all’attività di R-S sarà
verosimilmente sub ottimale.
La terza fonte di fallimento del mercato è la bassa appropriabilità dei benefici della
ricerca che disincentiva la creazione di nuova conoscenza e lo scambio attraverso il
mercato. Questo è anche il fallimento del mercato che rappresenta il fulcro dell’analisi
neoclassica. Il prodotto dell’attività di ricerca è imperfettamente appropriabile perché,
data la natura di bene pubblico dell’informazione, altri soggetti che non hanno sostenuto
i costi di ricerca possono appropriarsi dell’ outcome della ricerca e impiegarlo a proprio
profitto sostenendo costi minimi di assimilazione. Tale fenomeno va inteso anche come
l’impossibilità per l’innovatore di ottenere un tasso di rendimento ragionevole
dall’attività innovativa, vale a dire un corrispettivo pari al pieno valore che
l’innovazione ha per il suo acquirente, determinando una divergenza tra benefici sociali
e benefici privati (Malerba, Cusmano 2001).
L’investimento in innovazione, qualora abbia successo, conferisce all’impresa che lo
realizza una leadership sul mercato; nel caso dell’impresa monopolista il potere di
mercato conseguente all’innovazione sostituisce quello preesistente; nel caso, invece,
dell’impresa concorrenziale l’innovazione conferisce un potere di mercato prima
inesistente. Ne consegue che l’impresa concorrenziale avrebbe un maggiore incentivo
all’investimento in innovazione. Arrow dimostra che, date le caratteristiche della
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conoscenza, il beneficio sociale dell’innovazione è maggiore sia del beneficio privato
del monopolista che di quello dell’impresa concorrenziale. Lo schema di incentivi
privati non garantisce un livello socialmente ottimale di innovazione.
Arrow sostiene che il motivo principale per cui è necessario un intervento pubblico a
sostegno dell’innovazione è che, la conoscenza, una volta creata, genera benefici che
ricadono al di là dei soggetti che hanno investito per produrla ( spillover ). Gli spillover
consistono nei benefici che possono trarre soggetti concorrenti nel riprodurre
l’innovazione oppure utenti “non escludibili” nell’utilizzo a proprio beneficio o nello
sviluppo di successive innovazioni. A causa, quindi, della bassa appropriabilità della
conoscenza, il vantaggio marginale del soggetto economico che effettua l’investimento
è inferiore a quello sociale, sia nel caso dell’impresa concorrenziale sia nel caso
dell’impresa monopolista. Per questo, l’agente economico investe meno di quanto
farebbe un social planner , come l’operatore pubblico, che tiene conto dei vantaggi
complessivi dell’investimento in R-S o nella produzione di conoscenza.
La tesi di Nelson (1959) è simile a quella di Arrow (1962a). Nelson considera in
particolare il ruolo delle ricerca di base e sottolinea come la bassa appropriabilità della
conoscenza spieghi gli incentivi sub ottimali a investire nella ricerca. L’impegno in
ricerca di base influenza in modo sostanziale la opportunità di innovazione che, a loro
volta, determinano il tasso di crescita del prodotto. In generale, la ricerca di base porta
dei benefici attraverso le esternalità positive nelle fasi a valle. Un investimento
socialmente ottimale nella fase della ricerca genera benefici favorevoli per tutto il ciclo
innovativo, ed è sui fallimenti di mercato di questo stadio che deve concentrarsi l’azione
del policy maker. Nelson esplicita le ragioni secondo cui all’interno dei sistemi
industriali gli investimenti in produzione di conoscenza vengono realizzati soprattutto
da imprese diversificate. La conoscenza è, infatti, un bene impiegabile in diversi settori
di applicazione a valle. Pertanto, le grandi imprese diversificate possono fronteggiare
meglio i livelli di incertezza associati alle attività di ricerca di nuove conoscenze,
distribuire meglio il costo fisso associato a tali attività e internalizzare un volume più
elevato di spillover prodotti dall’investimento in conoscenza.
I contributi di Nelson (1959) e Arrow (1962a) giungono alla conclusione che, date le
caratteristiche della conoscenza, un’economia di mercato finirà con investire in
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innovazione sistematicamente meno di quanto sarebbe socialmente desiderabile. Questi
contributi sono coerenti con la visione dell’attività innovazione come sequenza lineare
di fasi. Il modello lineare di innovazione si basa su un’impostazione teorica in base alla
quale le imprese decidono quanto produrre e le tecniche da utilizzare in funzione della
massimizzazione del profitto e della minimizzazione dei costi. L’idea centrale è che il
processo di innovazione è essenzialmente un processo di invenzione/scoperta nel quale
le nuove conoscenze vengono trasformate in nuovi prodotti seguendo una sequenza di
fasi lineare e fissa.
La prima fase, quella più critica, è la ricerca formale, in particolare ricerca di base. Il
progresso tecnico dipende dalla generazione di nuove idee, ovvero di nuove
informazioni, che rappresentano l’output del processo inventivo. La ricerca di base,
quindi, è finalizzata prevalentemente all’ampliamento delle conoscenze scientifiche che
sono alla base della definizione di un nuovo prodotto/processo. La seconda fase è la
ricerca applicata, che utilizza le conoscenze scientifiche per la progettazione e la messa
a punto di nuove invenzioni. Lo sviluppo è la fase più a valle e consiste nell’effettiva
realizzazione di nuovi archetipi. La produzione rappresenta la quarta fase del modello
lineare e consiste nell’attivazione dei cicli produttivi per offrire su una scala più o meno
grande i nuovi archetipi realizzati e testati. Infine, l’ultima fase del modello, la
commercializzazione, costituisce il punto di ingresso della produzione ottenuta
all’interno del sistema economico nel suo complesso. In questo modo l’innovazione
realizzata viene “adottata” da parte degli agenti economici (Malerba, 2000).
In questo contesto, l’innovazione è completamente esogena, vale a dire che è
indipendente dal comportamento degli agenti e da qualsiasi forma di apprendimento. In
base a questo modello il progresso tecnologico dipende dalla espansione della frontiera
della conoscenza realizzata attraverso le ricerca di base. L’assunzione di base è che il
risultato della ricerca è un tipo di conoscenza generica, codificata, accessibile a costo
zero e non legata ad un contesto specifico (Smith, 2000).
Le implicazione di policy sono immediate e si fondano sul riconoscimento
dell’esistenza di fallimenti del mercato nella produzione di conoscenza. La produzione e
lo scambio di conoscenze non possono avvenire attraverso meccanismi classici del
mercato e, in generale, le imprese, hanno incentivi sub ottimali a produrre questo bene.
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Lo Stato, quindi, interviene per colmare il divario tra rendimento sociale e privato e per
far sì che venga prodotta la quantità ottimale di innovazione. Gli obiettivi di politica
pubblica sono innanzitutto di incoraggiare le attività innovative e alla scoperta e poi di
proteggere l’utilizzazione dei risultati. Al cospetto di questi fallimenti del marcato, il
policy maker deve intervenire sulla struttura di incentivi che guida l’azione del soggetto
economico privato. Si delinea, pertanto, l’esigenza di un ampio spettro di politiche
pubbliche a sostegno della produzione di nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche.
Poiché il progresso scientifico e tecnologico dipende dalle scoperte realizzate dalle
organizzazioni incaricate per la ricerca di base, saranno queste ultime a dover essere
sostenute e sussidiate. Inoltre, è necessario che anche le imprese vengano sostenute
durante le restanti fasi di ricerca applicata, di sviluppo e di commercializzazione
dell’innovazione.
In quest’ottica, il problema dell’appropriabilità dei risultati impone che vengano
fornite della garanzie a favore degli innovatori, attraverso un sistema di brevetti o con la
creazione di diritti di proprietà.
1.2) Teorie della crescita endogena Le teorie della crescita endogena sono state sviluppate in risposta al modello
neoclassico della crescita con progresso tecnico esogeno, e sono così chiamate in quanto
il motore della crescita è endogeno al modello ed è il risultato del comportamento degli
agenti economici. Nella teoria neoclassica, infatti, manca l’analisi delle determinanti
dell’innovazione, il contributo della tecnologia alla crescita economica rimane
indefinito ed essa viene considerata esterna e indeterminabile (manna dal cielo).
L’ipotesi neoclassica del progresso tecnologico come free good , ossia come bene libero
disponibile per tutti senza costi o difficoltà, è alla base del fenomeno della convergenza
tra paesi ricchi e paesi poveri. Nelle nuove teorie della crescita, invece, il progresso
tecnologico viene considerato interno allo stesso processo di crescita.
Tali teorie possono essere suddivise in due gruppi: le teorie che si basano
sull’accumulazione di capitale (fisico e umano) (Romer, 1986; Lucas 1988) e le teorie
che utilizzano il concetto di R-S (Romer, 1990; Aghion, Howitt 1992). Queste teorie, da
un lato sostituiscono l’ipotesi del progresso tecnico come free good con quella di
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progresso tecnico endogeno, e, dall’altro, allargano il concetto di capitale, cioè di fattore
riproducibile, in modo da eliminare ogni fattore ad esso complementare e quindi anche
la causa della sua produttività marginale decrescente (Boggio, Seravalli 2003). Se il
progresso tecnico non è un bene disponibile a tutti in eguale misura e senza costi, allora
nel lungo periodo esso sostiene la produttività dei fattori in misura differente e quindi la
crescita seguirà trend differenti tra sistemi o tra paesi. Una forma di aumento endogeno
della produttività, presente nelle teorie con crescita endogena, è l’idea di rendimenti
crescenti di scala, per cui l’output aumenta in misura più che proporzionale rispetto
all’aumento degli input, ad esempio grazie al processo di apprendimento.
La prima categoria di modelli individua nell’aumento della conoscenza il motore
principale dello sviluppo economico. Tale conoscenza può assumere due diverse forme:
può essere individuata nell’accumulazione di esperienza generata nel corso dell’attività
produttiva delle imprese (Romer, 1986), oppure, può assumere la forma di capitale
umano inteso come capacità e competenze degli agenti economici (Lucas, 1988).
Per quanto riguarda la seconda tipologia di modelli, il secondo modello di Romer
(1990) evidenzia come la variazione dello stock di conoscenza dipende non solo dal
capitale umano, ma anche dalla conoscenza pre-esistente. Nel modello di Aghion e
Howitt (1992) l’attività di ricerca e sviluppo realizzata dalle imprese per ottenere profitti
è il motore della crescita di lungo periodo. Il modello, ispirandosi a Schumpeter,
dimostra che l’innovazione ha un effetto di “distruzione creatrice” in quanto è in grado
di distruggere il valore economico di beni capitali preesistenti divenuti obsoleti.
Il primo modello di Romer (1986) è un modello di equilibrio concorrenziale basato
sulla capacità di generare crescita attraverso l’esperienza acquisita ( learning by doing ).
L’idea secondo cui l’accumulazione di capitale incorpori un progresso tecnologico in
grado di aumentare la produttività dei fattori si deve ad Arrow (1962b). Questi ha
espresso il principio secondo cui la crescita ottenibile da un incremento della
produttività del lavoro possa essere ricondotta all’accumulazione di esperienza, e come
la misura più soddisfacente di tale incremento di produttività sia l’accumulazione di
capitale, ossia di nuovi investimenti che contribuiscono a migliorare quelli già esistenti.
Il contributo di Arrow è stato poi ampiamente ripreso da Romer, il quale ipotizza
come “l’attività produttiva delle imprese generi nuova conoscenza che si diffonde senza
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costi aggiuntivi a tutte le imprese operanti nell’economia” (Romer, 1986, pag. 1003).
Romer sostiene che sono la conoscenza e l’apprendimento che derivano
dall’accumulazione di capitale a generare sviluppo economico, incrementando la
produttività del lavoro. Quando un’impresa aumenta il suo stock di capitale, la
conoscenza che da esso deriva crea un vantaggio per tutte le altre imprese. La
conoscenza creata da un’impresa, infatti, ha un effetto positivo sulla capacità produttiva
di altre imprese perché si diffonde senza costi aggiuntivi, assumendo la presenza di
rendimenti di scala crescenti a livello aggregato. La conoscenza entra, quindi, nella
funzione di produzione delle imprese direttamente, senza essere il risultato di una scelta
intenzionale. In questo senso, le esternalità legate alla conoscenza acquisita assumono
tutte le caratteristiche del bene pubblico. In questo modello, quindi, la crescita dipende
dalla conoscenza accumulata a seguito della realizzazione dell’attività produttiva e
dell’incremento degli investimenti in capitale.
Il modello di Lucas (1988), come quello di Romer (1986), è un modello di equilibrio
concorrenziale. Lucas per la prima volta inserisce il capitale umano all’interno di un
modello di crescita. L’accumulazione del capitale umano passa attraverso una legge la
cui proprietà fondamentale consiste nel fatto che, indipendentemente dal livello già
raggiunto, ad un livello costante di sforzo corrisponde un tasso costante di crescita dello
stock. Lucas riconosce come ciò che differenzia il capitale umano dal capitale fisico sia
la capacità che esso ha di produrre esternalità positive, dato che le capacità apprese da
un lavoratore incrementano anche la produttività di altri lavoratori grazie alla possibilità
di scambiare conoscenza. Uno degli input fondamentali nella produzione del capitale
umano è lo stesso capitale umano. L’apprendimento nel lavoro dipende dalla prossimità
con lavoratori dotati di esperienza e capaci di trasmetterla. Ciò significa, in pratica, che
l’investimento in capitale umano aumenta l’offerta degli input necessari alla ulteriore
produzione e ne abbassa i costi. In questo modo il capitale umano, interagendo con
l’evoluzione delle conoscenze tecnologiche, diviene il motore di una crescita costante
nel tempo e interamente determinata dalle decisioni degli agenti economici, ovvero una
crescita endogena.
Nel suo secondo modello qui analizzato, Romer (1990) inserisce simultaneamente
tre settori (il settore della ricerca, il settore dei beni di produzione e il settore dei beni
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finali) in un contesto di concorrenza monopolistica. In questo studio si assume che,
mentre lo stock di conoscenza tecnologica è non rivale, il capitale umano si configura
come la componente rivale della conoscenza. Tale modello prevede che il tasso di
crescita di un’economia è proporzionale allo stock di capitale umano utilizzato nella
ricerca di nuove varietà di beni capitali. La creazione di nuovi design, però, non dipende
soltanto dall’ammontare di capitale umano impiegato, ma anche dallo stock di
conoscenza preesistente. L'accumulazione di conoscenza ha l'effetto di rendere più
facile e meno costoso lo sviluppo di nuove conoscenze per il semplice motivo che le
vecchie idee sono un input fondamentale nella produzione delle nuove e possono essere
usate senza costi aggiuntivi. Inoltre, le possibilità di creare nuove idee e di migliorare
quelle esistenti sono pressoché inesauribili . Ciò fa in modo che l’accumulazione di
conoscenza non comporti una riduzione della sua capacità di creare valore economico e
quindi non diminuisce l’incentivo a investire. In altri termini, la produzione di
conoscenze può crescere senza limiti. Questa è, nella visione di Romer, la chiave della
crescita delle economie capitalistiche. La principale implicazione del modello è che
un’economia con ampie dotazioni di capitale umano impiegato nel settore della ricerca
crescerà in misura maggiore di un’economia con più basso livello di capitale umano
impiegato nella produzione di nuova conoscenza. In termini di policy, è necessario
considerare l’importanza dei sussidi alla ricerca e all’istruzione come fattori in grado di
influenzare il processo di crescita.
Un importante contributo rispetto al ruolo degli investimenti in R-S è quello di
Aghion e Howitt (1992). La modellizzazione di questi studiosi risente fortemente
dell’influenza del pensiero di Schumpeter. L’innovazione consiste nell’invenzione di
nuove varietà di beni che sostituiscono quella preesistenti rendendole obsolete
(distruzione creatrice) (Solow, 1994). La crescita è la conseguenza del progresso
tecnologico che, a sua volta, dipende dalla concorrenza tra imprese che fanno ricerca e
generano innovazioni. Ogni innovazione consiste nella produzione di un bene
intermedio di tipo nuovo, grazie al quale è possibile produrre l’output finale a
condizioni di maggiore efficienza. Dal punto di vista della singola impresa, l’incentivo
economico ad impegnarsi sul versante della ricerca è legato alla prospettiva di costruirsi
delle rendite di monopolio come conseguenza della protezione legale delle innovazioni
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di successo. D’altra parte, in un contesto dinamico, quelle stesse rendite vengono
vanificate dall’innovazione successiva, che rende immediatamente obsoleto il bene
intermedio che era stato appena prodotto. Si può, quindi, notare come, all’interno di
questo schema analitico, esista una relazione molto forte tra potere di mercato
dell’impresa che riesce a innovare, da un lato, e grado di escludibilità della conoscenza
dall’altro. Tale escludibilità a sua volta dipende criticamente dalla presenza di istituzioni
formali preposte alla fissazione e alla garanzia del rispetto dei diritti di proprietà,
nonché dalla natura stessa della conoscenza. L’elemento chiave del modello è che
l’innovazione non è un evento certo, ma stocastico, e questo influisce negativamente
sulle attese di profitto per il monopolista-innovatore rispetto ad un’innovazione
ulteriore. La crescita della produttività dipende dalle risorse dedicate dalle imprese alla
R-S, scelta che a sua volta può essere influenzata dalle decisioni dei soggetti economici,
dall’organizzazione dei mercati, dal sistema giuridico (come nel caso dei brevetti), e
dagli incentivi pubblici.
Le teorie della crescita endogena contraddicono l’ipotesi neoclassica secondo cui
l’economia converge lungo un sentiero caratterizzato da un tasso di crescita della
produttività completamente esogeno. Queste teorie spiegano la crescita della
produttività attraverso elementi che dipendono dalle scelte degli agenti economici. Tra i
meriti di queste teorie, infatti, c’è quello di avere evidenziato il problema della crescita
economica non convergente e come le politiche economiche possono avere un impatto
sul tasso di crescita dell’economia anche nel lungo periodo. Sia il primo modello di
Romer (1986) che il modello di Lucas (1988) hanno il merito di avere intuito e
formalizzato il contributo positivo che capitale fisico, in un caso, e capitale umano,
nell’altro, danno al processo di crescita economica attraverso le esternalità che
contribuiscono a creare. Una delle conseguenze è che gli spillover sono associati ad un
equilibrio minore di quello socialmente ottimale, e questo lascia spazio per l’intervento
pubblico. Una rilevante implicazione di policy riguarda il maggiore spazio di manovra
di cui, di fatto, possono godere i policy maker. I modelli con crescita esogena, che fanno
dipendere il tasso di crescita di lungo periodo esclusivamente dal cambiamento
tecnologico, finiscono per non assegnare alcun ruolo a soggetti istituzionali esterni al
mercato; al contrario, nei modelli di crescita endogena il tasso di crescita di lungo
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periodo risulta per definizione endogenamente determinato, e questo fa sì che, ad
esempio, determinati investimenti possano influenzare tale tasso di crescita. Una delle
novità principali delle nuove teorie della crescita consiste nella loro capacità di
elaborare modelli formali in grado di spiegare i processi di crescita che avvengono sia
nei sistemi avanzati sia in quelli in via di sviluppo. Misure che aiutino la R-S, la
formazione e l’istruzione, o comunque tutte quelle misure che hanno effetto
sull'innovazione e sull'accumulazione di conoscenza, sostengono il tasso di crescita,
avendo un impatto non transitorio sull’economia.
In realtà, queste teorie risentono delle stesse debolezze e degli stessi limiti della
teoria neoclassica. Pur inserendo il progresso tecnologico all’interno del sistema, questi
modelli conservano i principali assunti neoclassici rispetto al comportamento
ottimizzante e all’omogeneità degli agenti economici, all’ipotesi di perfetta
informazione e al focus sullo stato di equilibrio. Inoltre, le implicazioni di policy sono
piuttosto generali. Gli investimenti in capitale umano e in R-S sono prerequisiti
importanti per il processo di crescita, ma non sufficienti. Esistono anche aspetti
istituzionali, sociali e organizzativi che condizionano la capacità di innovare e quindi la
crescita economica che non è possibile cogliere da questi modelli (Smith, 2000).
Per avere un quadro più dettagliato circa le determinanti della crescita economica è’
necessario, quindi, considerare anche altri fattori che in questi modelli sono trascurati.
Questo ci conduce all’approccio evolutivo e allo studio dell’innovazione come
fenomeno sistemico.
1.3) L’eredità di Schumpeter Il primo ad avere esaminato l’innovazione e il cambiamento tecnologico in modo
ampio e sistematico, segnando con il suo contributo un’importante eredità per studi
successivi è stato Joseph A. Schumpeter.
L’economista austriaco dà una definizione molto ampia di innovazione: questa è una
“risposta creativa” che consiste in nuove combinazioni di mezzi di produzione,
nell’introduzione di nuovi prodotti, nella creazione di nuove forme organizzative,
nell’apertura di nuovi mercati e nella conquista di nuove fonti di approvvigionamento.
Nella maggior parte dei casi, l’innovazione è una nuova combinazione di risorse
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esistenti. Ciò che a Schumpeter preme sottolineare è la centralità dell’innovazione nella
dinamica economica, la discontinuità e la disarmonia del mutamento industriale e
l’importanza dell’imprenditore nel processo innovativo (Fagerberg, 2003). Lo sviluppo
economico viene visto come un processo in grado di portare, attraverso l’innovazione, a
un cambiamento qualitativo.
La centralità dell’innovazione porta Schumpeter a separarla nettamente
dall’invenzione. L’invenzione, secondo Schumpeter, è qualcosa di puramente
scientifico-tecnologico, mentre l’innovazione è fare “qualcosa di nuovo” nel sistema
economico, un nuovo prodotto, un nuovo mercato oppure un nuovo processo di
produzione. Le innovazioni, però, non sempre derivano tutte da invenzioni (Malerba
2000).
Schumpeter condivide l’idea di Marx secondo cui l’evoluzione dell’economia
capitalista dipende dalla concorrenza tecnologica tra le imprese e non dalla concorrenza
dei prezzi. Per Schumpeter infatti, il motore della crescita è l’innovazione, e non la
ricerca dell’efficienza come sostiene la teoria neoclassica. Infatti, se un’impresa
all’interno di un dato settore introduce con successo un’innovazione, questa sarà
ampiamente ricompensata con un aumento dei profitti, e verrà seguita da una serie di
altre imprese imitatrici che sperano di potere condividere una parte dei profitti.
L’innovazione origina un profitto temporaneo per l’impresa che può perdurare nel
tempo se l’attività innovativa rimane sostenuta, ma può anche scomparire in seguito alla
reazione delle imprese imitatrici.
Schumpeter aggiunge a questa visione essenzialmente marxiana un’importante
novità. E’ molto più probabile, sosteneva, che gli imitatori abbiano successo laddove
applichino dei miglioramenti all’innovazione originale, diventando innovatori loro
stessi. Questo è un processo naturale, in quanto un’innovazione importante tende a
facilitare o a introdurre ulteriori innovazioni nello stesso campo o in campi simili. In
questo modo la diffusione dell’innovazione diventa un processo creativo, all’interno del
quale un’innovazione spiana la strada a una serie di innovazioni successive, e non
qualcosa di passivo come si ritiene in molta della letteratura ortodossa. Questa
interdipendenza fa in modo che le innovazioni tendano ad ammassarsi, a sorgere in
grappoli, in specifici settori e in modo non uniforme nel tempo e ciò contribuisce alla
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creazione di pattern discontinui, o onde lunghe, nel ciclo di crescita economica
(Fagerberg, 2003).
Schumpeter sottolinea che l’evoluzione dell’economia capitalista consiste in una
successione di “rivoluzioni industriali” ed evidenzia l’importanza dell’interazione tra
cambiamento tecnologico e istituzionale all’interno di questo processo, anche se in
alcuni casi può rappresentare un limite per la crescita economica. Schumpeter evidenzia
il ruolo giocato dalla conoscenze preesistenti, dai meccanismi inerziali e dal contesto
istituzionale, che, se da un lato contribuiscono a formare delle routine che sono il tratto
distintivo dell’impresa, dall’altro rappresentano una forza conservatrice e rendono
difficile qualunque attività al di fuori di esse. In questo contesto l’impresa innovativa è
il risultato dell’opera imprenditoriale di una persona dotata di qualità straordinarie.
Soprattutto nella prima fase del suo studio (Schumpeter Mark I), Schumpeter sostiene
che l’artefice dell’innovazione è proprio l’imprenditore, che non è più considerato un
organizzatore, come nel pensiero tradizionale, ma un innovatore. Pertanto, il ruolo
dell’innovatore/imprenditore è quello di fornire risposte e proposte creative che
sradichino l’inerzia al cambiamento e la resistenza della specializzazione, spesso primi
ostacoli ai processi di innovazione. L’imprenditore, però, è un agente con razionalità
limitata, e come tale non è in grado di afferrare completamente tutti gli effetti e le
ripercussioni di ciò che avviene all’interno dell’impresa.
Nella fase più matura dei suoi studi (Schumpeter Mark II), Schumpeter, osservando
lo sviluppo delle economie dominanti, deduce un’importante correlazione positiva tra
potere di mercato e capacità innovativa, la quale ci fa dedurre che l’attività innovativa
induce economie di scala e forme non concorrenziali. Le imprese con più alto potere di
mercato dispongono di maggiori opportunità e condizioni di appropriabilità nella
produzione di conoscenza e dunque le forme di mercato imperfetto sono più adeguate a
promuovere ciò che lui definiva il processo di distruzione creatrice: la creazione di
nuovi modi di trasformazione produttiva che distruggono le modalità precedenti, che a
loro volta erano il risultato di attività innovative passate (Fagerberg, 2003). Schumpeter
sostiene che le innovazioni, sebbene episodiche, si susseguono incessantemente
impedendo il conseguimento di uno stato stazionario in cui lo stato della conoscenza è
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completo e simmetrico. Al contrario, l’asimmetria informativa che caratterizza il
processo innovativo è incompatibile con le ipotesi di concorrenza perfetta.
Una chiara distinzione tra il paradigma neoclassico e i modelli interpretativi di
ispirazione shumpeteriana è che, per questi ultimi, l’impresa non sceglie la tecnologia,
ma la produce al suo interno o la adatta alle sue necessità qualora le condizioni di
mercato lo consentano. Nel momento in cui il potere di mercato diventa condizione di
appropriabilità dei benefici dell’innovazione, e dunque motore dello sviluppo, vengono
meno le condizioni dell’equilibrio generale ed anche la rilevanza dell’efficienza
allocativa nella sua interpretazione statica.
Il contributo di Schumpeter allo studio dell’innovazione è notevole e complesso. La
sua analisi risente, però, delle finalità ultime di tutte le sue opere, che riguardano lo
studio della dinamica del sistema capitalistico e non dell’innovazione in senso stretto
(Malerba, 2000). Di conseguenza, in Schumpeter si trovano degli interrogativi, più che
delle risposte circa le determinanti del processo innovativo.
In ogni caso, dal lavoro pioneristico dell’economista austriaco si è sviluppata una
fertile corrente di pensiero neo-schumpeteriana, definita evolutiva, al cui interno hanno
trovato stimolo la gran parte dei contributi teorici in materia di innovazione e
cambiamento tecnologico.
1.4) La teoria evolutiva 1.4.1) L’innovazione come processo: competenze, routine e apprendimento L’approccio evolutivo condivide con Schumpeter un importante nucleo di idee. La
teoria evolutiva, infatti, considera l’innovazione la principale determinante del
cambiamento economico. Essa focalizza l’attenzione sulla conoscenza, sui processi
dinamici collegati alla ricerca e all’innovazione, nonché sull’impresa che apprende,
diviene depositaria di conoscenze ed è dotata di competenze specifiche.
La moderna scuola evolutiva parte dall’idea secondo cui gli attori economici,
comprese le imprese, sono soggetti con razionalità limitata, il che implica l’esistenza di
costrizioni cognitive che impediscono loro di mettere in atto comportamenti ottimali. La
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conoscenza e l’innovazione sono le forze che influenzano la competitività delle imprese
e di un intero sistema ed entrambe progrediscono tramite la ricerca e l’apprendimento
frutto di intense relazioni tra imprese e tra queste e le istituzioni. Viene meno uno dei
capisaldi dell’economia neoclassica secondo cui l’impresa è un agente economico
isolato; nell’approccio evolutivo, le interazioni, anche cognitive, sono il prerequisito
essenziale per innovare proprio perché permettono di ricevere feedback da parte di
consumatori e/o fornitori e di istituzioni e organizzazioni non di mercato per migliorare
prodotti e servizi (Metcalfe, Gheorgiou1998).
La teoria evolutiva pone attenzione ai processi di generazione di varietà a livello di
tecnologie, prodotti e organizzazione e di sviluppo di meccanismi inerziali (tecnologici,
comportamentali e organizzativi) alla base della diversità di comportamento tra le
imprese. Il problema centrale della teoria evolutiva non è il modo in cui le imprese
mettono in atto comportamenti ottimizzanti, ma è spiegare il perché dell’eterogeneità di
comportamenti tra le imprese. E’ proprio la diversità di comportamenti tra imprese che
rende possibile la continuità del sistema economico (Nelson, Winter 1982). La teoria
evolutiva va oltre, affermando che il cambiamento tecnologico non dipende soltanto dal
comportamento delle singole imprese, ma da come queste interagiscono con le
istituzioni e le organizzazioni esterne.
L’innovazione tecnologica non procede in maniera unidirezionale attraverso una
sequenza di stadi lineari ed immutabili che vanno dalla scoperta scientifica
all’invenzione fino alla commercializzazione, come avviene invece per la teorie
neoclassica. Kline e Rosenberg (1986) individuano due problemi relativi al modello
lineare sono due. Prima di tutto, si ipotizza l’esistenza di una catena di rapporti di causa-
effetto che, in realtà, vale solo per una minoranza di innovazioni. Sebbene molte
innovazioni siano nate da scoperte scientifiche, spesso le imprese innovano perché
ritengono che ci sia un determinato bisogno commerciale, e normalmente lo fanno
mettendo in atto le conoscenze già esistenti. In secondo luogo, il modello lineare non
prende in considerazione i molti feedback e i cicli che si verificano durante i vari stadi
del processo. Piuttosto, quindi, è necessario un modello che prenda in considerazione il
fatto che l’innovazione è un processo complesso e multi-dimensionale che implica
l’interazione e la non linearità tra le diverse fasi. Questa dinamica è stata analizzata nel
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