Introduzione La scelta dell'opera non è stata del tutto casuale; mi ero prefissata di
trovare un testo teatrale, in lingua russa, che inquadrasse precise tematiche:
ribellione ed avversione ad una situazione di oppressione da una “dittatura”; che si
focalizzasse su una determinata fascia generazionale e che desse voce, tramite la
lingua, ad un preciso gruppo di individui cresciuti nell'ex Unione sovietica. Ed
ecco che, per caso, mi imbatto in questa Jeans Generation, e sottolineo “per
caso”, che già dal titolo catturò la mia attenzione. Inoltre mi si era presentato un
testo inedito, quasi una fortuna direi, e allora, con “consapevole ignoranza” del
contesto storico-culturale e linguistico, ho iniziato la mia opera di traduzione,
conscia delle difficoltà inerenti quello specifico linguaggio, dove si alternano
espressioni idiomatiche di vario tipo, quali slang giovanile, gergo carcerario e
generazionale, lessico dispregiativo e volgare. Non ero mai entrata in contatto con
questa realtà, ignorandone completamente la sua attuale ed intricata situazione
politica, da cui emergono il Free Belarus Theatre e l'autore Nikolaj Chalezin,
perciò mi era sembrata una buona occasione per immergermi in un nuovo
avventuroso rischio. La vera sorpresa non è stata l'opera in sé, che nel complesso è
interessante ed originale per le tematiche affrontate, sebbene, a una prima lettura
superficiale, si presenta abbastanza scarna, ingenua stilisticamente e tendente ad
una “letteratura di consumo”, perché ricca di contenuti ma “povera” nelle sue
argomentazioni. La fortuna dell'opera è determinata dal suo contesto. Infatti,
spogliandola dopo ripetute letture e avventurandomi nella trama sono riuscita a
ricucire, in parte, tutta una situazione che, per quanto desolante, appare molto
intrigante. Mi sono balzati agli occhi una serie di riferimenti extra testuali che
fanno da cornice e da sfondo all'opera, che stimolano l'interesse ed il
coinvolgimento attivo del lettore-spettatore, e che hanno attirato sicuramente
anche la mia attenzione.
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Largamente autobiografica, la storia, raccontata sotto forma di un
monologo informale, affonda le sue radici nell'infanzia dell'autore, all'epoca del
regime sovietico: un passato da piccolo contrabbandiere di buste di cellofan, ma
soprattutto di jeans e dischi in vinile importati dall'occidente, che circolavano
“sottobanco”, custoditi con cura e premura perché proibiti, in quanto simbolo
dell'imperialismo occidentale. Simboli di opposizione pacifica al regime
comunista, “i jeans erano per [loro] simbolo di libertà, una libertà accessibile. E in
più erano un assaggio di America e di Gran Bretagna, centri del mondo della vera
musica e del vero cinema, inaccessibili per [loro]”. Tratteggiando con divertita
ironia la sua infanzia, dove l'Occidente è solo un miraggio in lontananza, il quadro
muta considerevolmente, assumendo toni drammatici, claustrofobici e
malinconici. Da una fase di innocente spensieratezza infantile, il testo ci catapulta
in una realtà attuale, cruda, dove ogni desiderio o aspirazione a principi
democratici viene perennemente castrato e messo a tacere. Entriamo nella seconda
fase del racconto che potremmo chiamare, citando le parole dello stesso Chalezin:
“Benvenuti nell'ultima dittatura d'Europa”. Il racconto si fa cupo nel rievocare il
suo arresto, avvenuto durante una manifestazione in piazza il 10 dicembre del
1998, nella giornata internazionale dei diritti umani. Poi il periodo di reclusione in
condizioni claustrofobiche nel “bicchiere”, una cella di isolamento di circa 80x80
centimetri e di 2 metri di altezza, dove l'unico motivo di sopravvivenza è il suo
amore per la mogli Nataša Koljada. Vero freedom-fighter generazionale, richiama
alla memoria la drammatica storia di un eroe nazionale cecoslovacco, Jan Palach,
modello per le generazioni successive che si sono battute per rovesciare il regime
comunista cecoslovacco, con la cosiddetta “Rivoluzione di velluto” del 1989.
Infine, salto nel presente, 16 settembre 2005: la bandiera bianca-rossa-bianca,
simbolo dell'indipendenza nazionale, viene strappata dalle mani dei manifestanti
dalla polizia anti-sommossa. Irrompe sulla scena la nuova generazione di jeans
che sventola sulla testa dei manifestanti la nuova bandiera dell'indipendenza
nazionale: quella della Jeans Revolution, la rivoluzione delle persone libere. Vero
Leitmotif dell'intera opera teatrale è la libertà, unica costante e vera forza motrice
di un intera generazione.
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La Jeans Generation di Chalezin è una sorta di manifesto per le giovani
generazioni impegnate attualmente in una politica di opposizione pacifica e
democratica ad un dittatura che prende piede nel Paese nell'estate del 1994 con
l'elezione del presidente Lukašenko, in carica ancora oggi dopo 16 anni di
“esercizio del proprio potere”. Giovani freedom-fighters che si battono per i
principi democratici di libertà, per la libertà di espressione, per i diritti dell'uomo
in un paese “corrotto” e “dittatoriale”, dove vige, all'ordine del giorno, il terrore,
la censura e la muta sottomissione. Ogni ribellione viene brutalmente punita, ogni
avversione puntualmente schiacciata, ogni voce di dissenso sanguinosamente
soffocata.
Questa giovane voce di dissenso fa capo al movimento di resistenza degli
irriducibili dello Zubr, (Bisonte, animale simbolo della Bielorussia) movimento di
opposizione che rappresenta la sezione bielorussa di quella che potrebbe essere
definita “L'Internazionale delle rivoluzioni colorate”. Di questa fanno parte una
serie di movimenti di opposizione a regimi dittatoriali, aventi come unico
ambizioso disegno politico il rovesciamento delle dittature e dei regimi dell’area
ex-comunista con lo strumento della lotta di massa non-violenta. Si ricordano il
movimento georgiano Kmara che spodestò il governo di Eduard Shevardnadze
durante la “Rivoluzione delle Rose” del 2003; il movimento giovanile serbo
Otpor! , che nel 2004 contribuì alla caduta del regime di Slobodan Milošević, ed il
movimento ucraino PORA! che travolse il regime di Leonid Kučma durante la
“Rivoluzione arancione” del 2004. La “rivoluzione di jeans” fu un esplicito
tentativo di emulare queste rivoluzioni colorate, anche se l'esito finale è stato
negativo. Il 16 settembre 2005, oltre un centinaio di cittadini manifestarono in
piazza, per commemorare le vittime di rapimenti politici avvenuti in Bielorussia
tra il 1999-2000: Anatolij Krasovskij, Viktor Gončar, Dmitrij Zavadskij, Jurij
Zacharenko ,Gennadij Karpenko, tutti membri dell'opposizione al governo di
Lukašenko, scomparsi alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2001. Ed è in
questa occasione che viene coniato l'appellativo “Rivoluzione di Jeans”, dopo che
un giovane co-fondatore del movimento studentesco del Bisonte, Nikita Sasim,
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legò all'asta la sua camicia di jeans che diventerà simbolo di quella Rivoluzione
colorata tenutasi a Minsk alla vigilia delle tanto discusse elezioni presidenziali del
19 marzo del 2006.
Molti non conoscono il cognome del loro presidente. ( Pausa) Mi sembra
che la democrazia è quando hai il diritto di non conoscere il cognome del
tuo presidente. È meglio sapere, ma dimenticare...( Pausa). Beh si, questa
è la democrazia. Quando un uomo ti assilla e dice: “ Sono io, il tuo
presidente, e tu ora prendi e fai sai cosa... ”. E tu hai il diritto assoluto,
senza alcuna conseguenza, di rispondere: “ La sai una cosa? Ma vattene
un po' a fanculo presidente! ”.
Questa invettiva è diretta contro la figura dell'attuale presidente della
Bielorussia, Aleksandr Grigor'evi č Luka š enko. Politico bielorusso, governa il
Paese da 16 anni, dalla prima vittoria elettorale avvenuta il 10 luglio del 1994. Nel
1996 il primo referendum da lui indetto stabilisce una riforma costituzionale che
permette al presidente di assumere i poteri del parlamento in caso di “violazione
della Costituzione” e di protrarre fino al 2001 il suo mandato presidenziale.
Questo referendum fu fortemente criticato dall'Occidente e condannato
dall'opposizione, m a il 9 settembre del 2001 Luka š enko viene nuovamente eletto
con il 75,65% dei voti. Il 17 ottobre 2004 un referendum indetto sempre dal Capo
di stato registra il 90,28% di sì a una riforma costituzionale che gli permette di
candidarsi una terza volta. I risultati di questo referendum furono ferocemente
contestati dall'OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in
Europa), dall'Unione Europea e dal Dipartimento di Stato statunitense, che
definirono la campagna elettorale del presidente bielorusso anti-democratica.
Ottenuto il terzo mandato elettorale, il 19 marzo 2006 si tennero le elezioni
presidenziali che lo riconfermarono come presidente del paese. Duramente
criticato dagli Stati Uniti, il Dipartimento di Stato degli Usa lo definì “l’ultimo
dittatore d’Europa”, collocando la Bielorussia tra gli “avamposti della tirannia” 1
.
1 Corriere della sera.it<http://www.corriere.it/politica/09_novembre_30/Lukashenko-riavvicinamento-europa_e56946c6-
ddf4-11de-a61b-00144f02aabc.shtml>; Times<Times<http://www.timesonline.co.uk/tol/news/world/article786185.ece;
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In Bielorussia gli oppositori sono strettamente sorvegliati e intimiditi da una
polizia segreta che, forse non a caso, si chiama ancora Kgb e quasi tutti i mass-
media sono sotto controllo. I l 19 dicembre 2010 si terranno le nuove elezioni
presidenziali, e la sorte del paese per il momento rimane sospesa.
La complessa e intricata trama in cui prende vita il testo di Chalezin è il
riflesso di questa situazione, ed è proprio in questo clima di tensione politica che
nasce il suo Free Belarus Theatre. Il FBT fu fondato nel 2005 a Minsk dalla
collaborazione delle tre voci portanti del disagio bielorusso: Nikolaj Chalezin,
Natal'ja Koljada e Vladimir Ščerban, politicamente e artisticamente impegnati per
raccontare il clima di tensione che regna nel loro paese. Il Free Belarus Theatre è
un teatro autonomo, indipendente, che accoglie attori, drammaturghi e scenografi
banditi dai teatri nazionali; registi esclusi dal loro incarico regolare, come ne è il
caso Vladimir Ščerban che, dopo aver tentato di mettere in scena opere straniere a
sfondo provocatorio, quali 4.48 Psychosis di Sarah Kane, fu espulso dal teatro
nazionale. Le tematiche di disagio sociale, quali suicidio, depressione,
omosessualità, alcolismo sono assolutamente proibite e censurate, perché in un
paese in apparenza “ordinato” come la Bielorussia questi malesseri sociali si deve
fingere che non esistano. Questo suo carattere provocatorio e di cruda messa in
scena di una realtà devastata e costretta a tacere fa del Free Belarus Theatre un
teatro illegale nel Paese. È un teatro fantasma che si muove in sordina nei
sobborghi di Minsk . Luoghi improvvisati e sempre diversi, appartamenti privati,
bar, club, boschi, fabbriche abbandonate, campagna aperta. Per prenotarsi ad una
rappresentazione non ci si reca ad un botteghino, ma si va su internet: il gruppo ha
costruito un sito protetto per impedire infiltrazioni da parte della polizia, avvenute
già in passato. Il giorno della messa in scena il pubblico viene avvertito tramite
sms, mail o passaparola. Viene comunicato il luogo d'incontro dove un autista del
Free Belarus attende gli spettatori. Vengono poi condotti in questi luoghi, lontani
dalla capitale, cercando di passare inosservati, confondendo le loro tracce per non
essere rintracciati dalla polizia. Ma, a volte, nel bel mezzo di una
rappresentazione, irrompe la polizia arrestando e segnalando attori e spettatori.
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Schedata, controllata e censurata la troupe del Free Belarus Theatre non si
arrende: ha riscosso successo in patria, e in Europa la sua voce si rafforza,
stimolando i protagonisti di questo teatro clandestino a non rifugiarsi al di fuori
dei confini nazionali, ma a continuare imperterriti a combattere per il proprio
Paese in nome della libertà.
È un teatro di necessità, di dirompente desiderio di espressione, un teatro
inteso come unica forma di lotta rimasta per la libertà di parola e per la
circolazione delle idee. Non un teatro politico, come potrebbe apparire a prima
vista, ma una pura testimonianza, una specie di rito di riflessione collettiva, dove
il linguaggio, semplice e talvolta contestabile per l'ingenuità stilistica, è la vera
espressione di quella realtà.
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Alcuni scatti del fotografo Alessandro Vincenzi. Nato a Bologna nel 1973, si inserisce nel mondo
fotografico alquanto tardi. Laureatosi all'Università di Bologna in biologia e specializzatosi in malattie
tropicali, si unisce nel 2005 all' organizzazione umanitaria indipendente de i Medici senza Frontiere. Nel
tempo libero coltiva la sua passione per la fotografia, soprattutto per quella documentaria e per il
reportage, diventando un fotografo professionista nel 2008. Nell'aprile del 2009 si è recato a Minsk per
documentare la vita e le condizioni del Free Belarus Theatre.
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