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Introduzione
La comunità di immigrati provenienti dal Bangladesh è una delle più numerose in
Italia e, a Roma, è anche una delle più visibili. Ogni cittadino romano, anche il più
lontano dagli studi sull'immigrazione, si sarà di certo ritrovato a rifiutare una rosa al
ristorante, a comprare un ombrello quando all'improvviso piove, a stampare un
documento da un internet point, o a contrattare per un accendino da un venditore
ambulante di San Lorenzo. Dietro a queste e a molte altre attività brulicano gli
sforzi degli immigrati bangladeshi (o bengalesi, se usiamo una connotazione etnico-
linguistica piuttosto che politica), spesso e volentieri confusi con migranti di altra
provenienza, come indiani e pakistani; nelle bigiotterie, dietro alle bancarelle di
abbigliamento, nelle cucine delle pizzerie italiane e ai banchi di spezie del mercato
Esquilino, la forza lavoro bengalese si integra e si interseca con le vite di altre
migliaia di italiani, nonostante il radicamento alle proprie origini e consuetudini e
alla propria comunità etnica sia molto intenso. I figli degli immigrati frequentano le
scuole elementari e medie e siedono ai banchi insieme ad altre decine e decine di
provenienze geografiche. Per loro, così come per i loro genitori, l'apprendimento
della lingua italiana è una priorità non trascurabile: è il veicolo dell'integrazione,
della formazione, della socializzazione, e gli strumenti per ottenerlo sono
qualitativamente scarsi e quantitativamente insufficienti.
Rispetto all'immigrazione cinese o a quella sudamericana, il materiale didattico e i
supporti lessicali esistenti per i parlanti bengali sono praticamente pari a zero:
d'altronde la lingua bengali non è fra le più studiate nelle università italiane,
nonostante i manuali e le grammatiche per gli apprendenti italiani di bengali L2
siano paradossalmente più numerosi degli strumenti didattici per apprendenti
bengalesi di italiano L2.
Nelle scuole in cui ho lavorato in questi anni per l'insegnamento dell'italiano,
nonostante in certe classi più di un terzo degli alunni fossero di provenienza
bengalese, non vi sono né materiali didattici utili agli studenti di madrelingua
bengali, né personale specializzato, o perlomeno munito di qualche nozione sulla
7
lingua di partenza, adibito al sostegno e all'insegnamento dell'italiano L2. Allo
stesso modo nelle altre istituzioni italiane, negli ospedali, nei tribunali, nei centri di
prima accoglienza e di permanenza temporanea, ecc., non vi sono gli strumenti
adatti per far fronte alle esigenze dei nuovi cittadini: della popolazione italiana
composta in larga parte da immigrati poco o per nulla competenti nella nostra
lingua.
L'elaborazione di un dizionario bilingue essenziale e maneggevole,
specificatamente costruito a partire dalle esigenze della comunità bangladeshi in
Italia, intende inserirsi in tale lacuna. Al fine di essere funzionale allo scopo
prefissato, il lemmario del dizionario italiano-bengali è nato a seguito di un'attenta
selezione lessicale che tiene conto del vocabolario di base dell'italiano, dei campi
semantici che più premono alla vita degli immigrati del Bangladesh, e del lessico
dell'immigrazione. Per questo motivo i destinatari di un dizionario così concepito
sono non solo i parlanti di lingua bengali (fra cui includiamo, oltre ai bangladeshi,
anche i bengalesi provenienti dalla regione indiana del West Bengal presenti,
seppure in minor misura, in Italia) ma anche tutti coloro che lavorando nel campo
dell' immigrazione si trovano a dover fronteggiare una barriera linguistica e
culturale: mediatori, insegnanti, impiegati presso enti facilitatori e strutture
pubbliche, volontari dei corsi di italiano per immigrati non nativi, uffici di
collocamento e di orientamento al lavoro.
Al principio della decisione di intraprendere questo progetto risiede l'idea di
collaborare ad una integrazione sana ed indispensabile in una società multiculturale
e plurilinguistica. Al raggiungimento dell'integrazione fra i membri sociali di
diversa matrice linguistica e culturale concorre in maniera imprescindibile
l'acquisizione della lingua italiana, strumento centrale per assicurare parità dei
diritti, dei doveri e della salute, elemento cardine per allontanare le situazioni di
marginalità e di discriminazione.
Con tali premesse, ovvero la constatazione della mancanza di strumenti linguistici
ad uso e consumo della comunità bengalese in Italia, di politiche linguistiche
proporzionate alla presenza di immigrati sul nostro territorio, e di provvedimenti
pratici per raggiungere una condivisa idea di integrazione, ho gettato le basi per la
costruzione del dizionario, costruzione che prende piede da ricerche e
approfondimenti anche molto lontani dal puro ambito lessicale. Per questa ragione
8
l'elaborato che presento in questa sede è suddiviso in due sezioni. La prima sezione
comprende tutto l'iter lavorativo che ha permesso la realizzazione del dizionario
bilingue italiano-bengali. La seconda sezione consiste invece nella concreta
esemplificazione del dizionario vero e proprio.
La prima sezione si articola in tre capitoli riguardanti le ricerche che soggiaciono
alla creazione del dizionario in quanto strumento consapevolmente utile ai suoi
destinatari. Nel primo, si ricostruisce l'identità del principale utente del dizionario:
gli immigrati bangladeshi. Verrà pertanto descritta la storia dei movimenti migratori
dal Bangladesh e la presenza bengalese in Italia in termini sociologici e
demografici: chi sono gli immigrati bangladeshi, quali peculiarità li
contraddistinguono dalle altre comunità di migranti, quanti sono, di cosa si
occupano, come si inseriscono nella società italiana. Nel secondo, si intende
esplorare quella che è la situazione del fenomeno migratorio in Italia,
dell'integrazione degli immigrati e in particolare dell'integrazione linguistica,
premesso e dimostrato il ruolo di centralità dell'acquisizione linguistica nel
processo di inserimento, lavorativo e non.
Il terzo capitolo racchiude invece le indagini linguistiche e glottodidattiche da cui
prende il via l'elaborazione concreta del lemmario. In primis si motiva l'importanza
di disporre di un dizionario vista la centralità della dimensione lessicale all'interno
del processo di apprendimento di una seconda lingua. Si prosegue, poi, con la
descrizione del lessico italiano con l'intento di inquadrarne il nucleo, o vocabolario
di base. Infine, descritti e dimostrati i limiti dell'esistente vocabolario di base
dell'italiano, si enunciano i criteri di selezione e costruzione di un lemmario che
miri, secondo i principi della moderna glottodidattica, a soddisfare le necessità
dell'apprendente.
L'essenza di tutti e tre i capitoli è l'intento di costruire un lemmario volto all'utilità e
alla spendibilità delle parole, piuttosto che alla loro frequenza: è grazie a questo
criterio e ai metodi elaborati per concretizzarlo che nel dizionario compariranno
tutte le parole necessarie a una situazione di immigrazione (permesso di soggiorno,
certificato, residenza, irregolare, accoglienza, discriminazione, ecc.), alla ricerca
della casa e di un lavoro (contratto, curriculum, affittare, ecc.), alla frequenza della
scuola dell'obbligo (iscrizione, tassa, sostregno, ecc.), alla tutela dei propri diritti e
all'interazione con le strutture italiane adibite al contatto fra società e immigrato
9
(modulo, consultorio, maternità, asilo nido, guardia medica, ecc.).
Oltre ad essere utile, il dizionario italiano-bengali è stato pensato in modo da essere
facilmente consultabile e sinteticamente esauriente per un'utenza di parlanti che per
la maggior parte dei casi non hanno alcuna nozione di grammatica italiana, né
hanno frequentato alcun corso per l'apprendimento formale e guidato della lingua.
Dunque, perché il dizionario funga allo stesso tempo da supporto lessicale e
didattico, sono stati inseriti a lemma elementi generalmente assenti nella
dizionaristica tradizionale (quali preposizioni articolate, femminili dall'uscita
diversa dal maschile, participi passati irregolari o imprevedibili per l'apprendente
non nativo, ecc.) di modo che, anche senza competenze nell'uso e nella
consultazione di un dizionario si possa arrivare nel modo più semplice e più veloce
alla parola cercata. Inoltre compare, ad ogni voce, l'indicazione di pronuncia del
lemma basata sulla traslitterazione in caratteri bengali, che non presuppone alcuna
conoscenza in materia di convenzioni di trascrizione fonetica per poter pronunciare
- con tutte le inevitabili approssimazioni – correttamente la parola cercata.
Proprio perché l'utilità è l'obiettivo a cui mira questo intero elaborato, l'augurio e la
speranza a seguito del lavoro svolto è quello che il dizionario abbia la possibilità di
rendersi concretamente utile nelle mani dei suoi utilizzatori e che risulti uno
strumento effettivamente funzionale al miglioramento delle abilità comunicative.
Inoltre, considerato che l'inadeguatezza delle politiche linguistiche e la scarsità di
materiale didattico per un pubblico di apprendenti immigrati sono problematiche
che non riguardano solamente i bangladeshi, ma altre centinaia di migliaia di
immigrati di altre origini, spero che il lavoro esemplificato in questo elaborato
possa essere riutilizzato come modello per la costruzione di altri dizionari di altre
lingue dell'immigrazione che abbiano l'intento di soddisfare le necessità
comunicative dei loro utenti, filippini, ucraini o punjabi o di qualsiasi altra
madrelingua.
E' famosa una pagina di Croce che diceva che chi pone fine a una ricerca "intravede
le prime incerte linee di un'altra, che egli medesimo, o chi verrà dopo di lui,
eseguirà. E con questa modestia, che è delle cose stesse e non già del mio
sentimento personale, con questa modestia che è insieme fiducia di non aver
pensato indarno, io metto termine al mio lavoro, porgendolo ai ben disposti come
strumento di lavoro".
10
I. Il dizionario: per chi e perché
11
1) CAPITOLO 1
Le caratteristiche dell'immigrazione bengalese
1. I movimenti migratori dal Bangladesh e la presenza bengalese in
Italia
Il processo migratorio è uno degli elementi più dinamici dell'economia e della
società bengalese. Anzi, si potrebbe dire che l'economia del Bangladesh è in diretta
relazione con l'andamento della mobilità internazionale dei suoi abitanti. Essendo
un Paese estremamente popoloso, il Bangladesh ha sempre goduto e, al contempo,
sofferto di un grande surplus di forza-lavoro, il che lo rende uno dei principali Paesi
di esportazione internazionale di manodopera già da un paio di secoli. D'altra parte,
da relativamente pochi anni, anche in Italia si comincia a percepire la presenza
sempre maggiore di immigrati provenienti da tale area. Per poter meglio
comprendere la situazione italiana, anche per mezzo del paragone con le precedenti
esperienze migratorie che hanno origine dal Bangladesh, è indispensabile fornire
una rapida panoramica della storia delle migrazioni bengalesi. Seppure le ricerche
effettuate a tale proposito siano insufficienti e il materiale piuttosto scarso, siamo in
grado, a partire dai dati esistenti, di suddividere la storia delle migrazioni bengalesi
in tre fasi: una prima fase detta “dei pionieri”, una seconda fase di migrazioni
rivolte soprattutto verso il Medio Oriente, e una terza fase di migrazioni che
interessano in primo luogo i paesi occidentali.
1
1.1 Una storia dei movimenti migratori dal Bangladesh alle
maggiori destinazioni internazionali
1 Cfr. QUATTROCCHI, PA TRIZIA; Il fenomeno migratorio nel comune di Monfalcone: il caso della
comunità bengalese: rapporto di ricerca. La Grafica, Gradisca D'Isonzo, 2003. Cap. 3, pp. 45-59.
12
In Bangladesh i migranti sono chiamati probashi, gli “abitanti di fuori”,
oppure, in special modo nel dialetto della regione di Sylhet, londoni. La prima
grande meta delle migrazioni bengalesi è infatti Londra, e per estensione,
l'Inghilterra, paese in cui l'immigrazione dall'Asia Meridionale, a seguito
dell'esperienza coloniale, è un fenomeno storico e ben radicato.
Il governo coloniale rivalutò, a partire dall'inizio del XX secolo, una risorsa assai
preziosa e ancora poco mercificata: la forza lavoro a basso costo. Risalgono già al
1700 le prime testimonianze di manodopera bengalese ingaggiata dalla Compagnia
delle Indie Orientali per lo svolgimento di mansioni umili; si trattava in particolare
di lascar, mozzi o marinai impiegati sulle navi e retribuiti con compensi
decisamente inferiori a quelli dei marinai inglesi. La maggior parte dei lascar
proveniva da tre regioni del Bangladesh: Chittagong, Noakhali, e in particolar modo
Sylhet. Le prime due regioni si trovano vicino al mare: lì, l'arruolamento di uomini
sulle navi mercantili è una pratica tradizionalmente esistente ed accettata. Sylhet,
per contro, è una regione continentale, collocata nel nord-est del Paese, e gli unici
marinai tradizionalmente presenti sono quelli che, imbarcati sulle chiatte,
percorrono i grandi fiumi della regione. Il loro massiccio arruolamento sulle navi
inglesi è dovuto alle peculiarità nell'organizzazione socio-economica della regione
di Sylhet. Già dall'epoca coloniale infatti, il territorio, anziché essere diviso in
latifondi sottoposti al potere degli zamindar
2
, era parcellizzato fra i diversi
lavoratori agricoli che erano quindi, al contempo, anche piccoli proprietari terrieri,
abituati a gestire il loro patrimonio e ad investire sulle sue possibilità di
miglioramento. A causa del benessere diffuso, della maggiore autonomia,
dell'attitudine al lavoro e della capacità imprenditoriale, dal distretto partì un forte
flusso migratorio. Per tutto il XIX secolo e l'inizio del XX, migrare è un'opportunità
che sfrutta solamente una classe medio-alta di proprietari terrieri pronti a rischiare
investimenti sul futuro.
Questa tendenza si rafforza a tal punto che ancora oggi Sylhet risulta essere l'area di
provenienza preponderante (95%), per quanto riguarda l'emigrazione bengalese in
Gran Bretagna.
Fino agli anni '50-'60 , in questa prima fase che è stata definita “dei pionieri”, gli
2 Latifondisti dalla privilegiata posizione economia, politica e sociale, paragonabili in qualche modo ai nostri
feudatari.
13
immigrati bengalesi in Inghilterra sono esclusivamente uomini, solitamente celibi,
ed essendo membri del Commonwealth possono lavorare e vivere in Gran Bretagna
senza particolari limiti di tempo o difficoltà burocratiche.
Nel 1962 le cose iniziano a cambiare: la legislazione in materia di
immigrazione viene modificata e si inaugura il sistema dei cosiddetti labour
voucher (buoni di lavoro, documenti di lavoro) in base al quale l'accesso al mercato
del lavoro britannico avviene unicamente tramite tali “permessi di lavoro” rilasciati
dal Ministero. Per ottenere il voucher di lavoro è utile avere parenti o amici che già
risiedono nel Paese, essere in contatto con le istituzioni britanniche, e avere una rete
di conoscenze che agevolino le cose anche dal Bangladesh. A tale livello agiscono
degli intermediari, dei veri e propri broker: essi hanno solitamente già vissuto di
persona l'esperienza della migrazione, sono informati sulle opportunità lavorative,
conoscono i percorsi burocratici da seguire, sono in possesso dei contatti necessari
all'interno delle istituzioni britanniche per avviare con successo nuovi percorsi
migratori, e spesso prestano denaro ai nuovi migranti che devono costruirsi una
vita al di là della frontiera bengalese.
A Sylhet, terra di benestanti e intraprendenti proprietari terrieri, la presenza degli
intermediari, e quindi anche la consuetudine a migrare, si radicano più
velocemente.
3
Questa seconda fase migratoria è caratterizzata dall'impiego di una
gran parte dei migranti nel settore industriale. Si tratta di una migrazione
temporanea: il lavoratore bengalese vive in Gran Bretagna per brevi periodi, da
qualche mese a pochi anni, limitando al minimo indispensabile le spese per la
sopravvivenza, con l'obiettivo principale di tornare nel proprio Paese di origine
quanto prima, e lì godersi le ricchezze accumulate e il nuovo status sociale acquisito
a seguito dell'esperienza lavorativa all'estero.
Dal 1971, anno in cui il Bangladesh ottiene la sua indipendenza
affrancandosi dal Pakistan, la politica di accoglienza della Gran Bretagna cambia
radicalmente. Viene approvato l'Immigration Act, che stabilisce regole sempre più
rigide per l'ingresso nel Paese. Da questo momento in poi, migrare diventa
3 Per un'interessante raccolta di testimonianze sulla prima fase migratoria, vedi ADAMS, CAROLINE; Across
seven seas and thirteen rivers: life stories of pioneer Sylethy settlers in Britain. Thap, London, 1987
14
un'esclusiva possibilità di chi è già in contatto con altri immigrati residenti in
Inghilterra e già inseriti saldamente nel nuovo tessuto sociale. Per le famiglie e le
comunità che si trovano al di fuori della “rete migratoria”, la migrazione verso la
Gran Bretagna diventa un percorso quasi impossibile. Per coloro che già vi si
trovano, invece, cambia il progetto migratorio iniziale: a seguito dei cambiamenti
legislativi, i lavoratori immigrati tendono a stabilizzarsi, a richiedere il
ricongiungimento familiare per vivere sedentariamente nel nuovo Paese con le
proprie famiglie, e a naturalizzarsi. Infatti, dagli anni '70 agli anni '90 in Gran
Bretagna la maggior parte dei nuovi arrivi è rappresentata dalle mogli e dai figli dei
già residenti.
In concomitanza con l'innalzarsi di barriere e difficoltà in Gran Bretagna,
sorgono per i bengalesi nuove opportunità migratorie, nuove destinazioni e nuove
formule. La prima e la più importante per impatto è la migrazione che ha come
destinazione i Paesi del Medio Oriente. Proprio negli anni in cui l'Inghilterra chiude
i suoi confini, l'economia dell'area mediorientale vive un momento di forte
espansione che culmina, nel '74, con il boom dei prezzi del petrolio. La
riorganizzazione dell'economia dell'area richiama molti lavoratori da tutta l'Asia, tra
i quali una grande parte proviene dal subcontinente indiano. La provenienza non è
più limitata a Sylhet ma coinvolge anche nuovi distretti del Paese, come
Chittagong, Noakhali, Comilla e Dhaka.
Inizialmente, soprattutto fra 1976 e 1981, la richiesta dei paesi mediorientali
riguarda categorie professionali elevate (medici, infermieri, insegnanti) da inserire
nelle loro infrastrutture in rapida crescita. Gli anni '90 invece sono caratterizzati da
un notevole cambiamento nell'offerta di lavoro, che si concentra esclusivamente
sulla manodopera a basso costo, carente di specializzazione, relegata a settori
lavorativi di basso profilo, con scarsa retribuzione e scarso riconoscimento sociale
4
.
Negli stessi anni la migrazione comincia gradualmente a rivolgersi anche verso i
paesi di recente industrializzazione del Sud-Est asiatico, primo fra tutti la Malesia.
Anche in questo caso si tratta di migrazioni di breve durata e sulla base di contratti
per specifici lavori, di solito di bassa qualifica.
5
L'ingaggio del migrante si basa sull'istituzione dei “contratti di lavoro”, per la
4 Vedi Tabella 1 in appendice.
5 Cfr. MAHMOOD, RAISUL AWAL, Data on migration from Bangladesh, Asian and Pacific Migration Journal, (4),
4, 1995, p. 46
15
quale, a differenza dei “voucher di lavoro” britannici, il migrante “compra” prima
della partenza un posto di lavoro che può essere solo quello indicato sul contratto,
stipulato con il governo del Paese in questione o con compagnie private. Agli inizi
degli anni '80 i costi di un contratto della durata di due anni in Arabia Saudita
variavano tra 40 e 60.000 taka (8-12.000 sterline). Comprensibilmente, tali cifre
selezionano in partenza i potenziali fruitori.
Ancora una volta, i mediatori rivestono un ruolo di primaria importanza: nel 1985 si
contano già, in Bangladesh, ben 300 agenzie ufficiali di reclutamento, nate con
l'unico obiettivo di collocare, attraverso la stipula di contratti regolari, i lavoratori
bengalesi nei paesi asiatici.
Secondo i dati del BMET (Bureau of Manpower, Employment and Training), dal
1976 al 2008 un totale di 5.613.752 di persone intraprendono un percorso
migratorio. Di queste, 2.474.392 scelgono l'Arabia Saudita come paese di
destinazione e 1.005.139 gli Emirati Arabi Uniti. Gli altri paesi verso cui è orientata
la migrazione bengalese della terza fase sono Malesia, Kuwait, Oman, Qatar e
Bahrein.
6
Mentre il flusso di migrazione temporanea continua ad investire i paesi del
Medioriente e del sud-est asiatico, persiste un lento ma continuo processo
migratorio verso i paesi industrializzati dell'Occidente, che i migranti raggiungono
grazie alle richieste di visti lavorativi, visti per studenti e richieste di
ricongiungimento familiare. Fra i paesi del “primo mondo”, Gran Bretagna e Stati
Uniti rappresentano le due destinazioni maggiori; a seguire, in ordine decrescente
per presenza bengalese, troviamo l'Italia, Canada, Giappone, Australia, Grecia e
Spagna. Le fonti ufficiali riportano che quasi 1,2 milioni di bengalesi vivono
stabilmente, in qualità di residenti, nei paesi industrializzati
7
.
1.2 Politiche migratorie del governo bengalese
La legislazione bengalese in materia di migrazione è nata, dopo
l'Indipendenza, ricalcando l'Emigration Act del 1922, forgiato nel passato coloniale.
6 Vedi Tabella 2 in appendice
7 Cfr. SIKDER, MOHAMMAD JALAL UDDIN, Bangladesh: refugee and migratory movements research unit. Asian
and Pacific Migration Journal, (17), 3-4, 2008, p. 272
16
Con l'inizio dei flussi migratori verso il Medioriente, l'argomento migrazione
divenne una delle maggiori preoccupazioni del governo, visti i grandi benefici che
un'emigrazione a larga scala avrebbe potuto apportare alle condizioni economiche
del Paese, ed esso iniziò ad assistere l'esportazione di forza lavoro bengalese con la
fondazione di enti ed istituzioni ad hoc. Primo fra tutti, nel 1976, il BMET (Bureau
of Manpower, Employment and Training). Nel frattempo, la legge del '22 si
dimostrò inadeguata alle nuove dimensioni del fenomeno e bisognosa di
un'attualizzazione. Nel 1982 venne perciò promulgata l'Emigration Ordinance, che
divenne la base per la più completa legislazione del 2002. Con essa, il governo si
impegnava ad autorizzare l'emigrazione ai soli cittadini in possesso dei documenti
di viaggio validi, ad esempio un permesso lavorativo accordato dal datore di lavoro
all'estero, oppure un visto lavorativo emesso dal governo dello stato in questione.
Inoltre permetteva la migrazione di coloro che venivano selezionati tramite i
contatti forniti dalle agenzie di collocamento riconosciute dal governo. Queste
ultime si organizzarono nel 1984 in un gruppo noto come BAIRA (Bangladesh
Association of International Recruiting Agencies) e si moltiplicarono
progressivamente, fino a passare da 23 a 780 nel giro di tredici anni.
Nel 1997 l'esigenza di una normativa più completa per organizzare e tutelare i
migranti e la richiesta sempre più pressante da parte della società civile e della
RMMRU (Refugee and Migratory Movements Research Unit) di nuove politiche
sull'emigrazione spinse il governo a istituire il MoEWOE (Ministry of Expatriates'
Welfare and Overseas Employment); il nuovo ministero, attivo dal 2001, si sarebbe
incaricato di correggere e migliorare l'Emigration Ordinance, e inoltre di
promuovere, monitorare e regolare il contesto migratorio, occupandosi di creare
nuove opportunità migratorie per i bangladeshi nel mondo, e di risolvere le loro
problematiche.
Fra le politiche intraprese dal governo per regolare i flussi migratori dal Bangladesh
citiamo, per concludere, il più recente provvedimento, ovvero l'Overseas
Employment Policy del 2006
8
.
1.3 Le modalità di migrazione e il problema dell'immigrazione
irregolare
8 Per approfondimenti, vedi SIKDER, op. cit, pp. 264-270
17
I canali di migrazione dei lavoratori bengalesi hanno subito notevoli
cambiamenti nel tempo. Durante i flussi migratori rivolti alla Gran Bretagna e fino
ai primissimi anni '70, il ruolo del governo bengalese nell'organizzazione delle
dinamiche migratorie è stato sostanzialmente quello di un osservatore passivo. Poi,
rendendosi conto dell'enorme domanda di manodopera da parte del Medio Oriente e
del conseguente beneficio che le migrazioni avrebbero apportato all'economia
domestica, il governo inaugurò una consistente politica di esportazione di forza
lavoro. Ad esempio, vennero negoziati accordi bilaterali con i paesi richiedenti la
manodopera per provvedere al massiccio invio di lavoratori bengalesi. Un terzo dei
migranti che si recarono in Medio Oriente dal 1977 al 1980 usufruì di questo,
diciamo, canale ufficiale. Ma in tempi più recenti, il suo ruolo nelle faccende della
migrazione è stato minimo.
9
Gli anni'80 sono stati contrassegnati dalla nascita e dal proliferare delle
agenzie private per il collocamento e l'esportazione di manodopera. Dal 1977 al
1981 l'attività delle agenzie private crebbe dal 7 al 40%, ed ebbe un ruolo di
avanguardia nella scoperta delle nuove mete migratorie.
10
Nonostante alcune ONG e diversi enti, come l'RMMRU (Refugee and
Migratory Movement Research Unit) e il già citato BMET, si stiano occupando di
raccogliere dati sempre più dettagliati ed esaurienti al fine di una maggiore
comprensione dei processi migratori che hanno come paese di origine, e pure di
ritorno, il Bangladesh, la situazione è ancora lontana dall'essere chiara e completa.
Ad aggravare la difficoltà e la parzialità della ricerca, sta il fatto che, secondo stime
elaborate da istituti di ricerca come l'RMMRU, solamente il 40% di coloro che
decidono di migrare viene reclutato da agenzie ufficiali di intermediazione.
Vi sono perciò altri canali di migrazione, “informali” ed irregolari. In primo luogo,
si può fare ricorso a mediatori non riconosciuti ufficialmente che svolgono lo stesso
ruolo di quelli 'a norma'. I contratti vengono stipulati e comprati dai lavoratori
prima della partenza, ma a un prezzo inferiore rispetto ai contratti ufficiali, poiché si
tratta di lavori molto pesanti, a rischio, non tutelati da assicurazioni, o senza
garanzia di durata.
9 Cfr. B.B.KUMAR; Illegal migration from Bangladesh. Astha Bharati, Delhi, 2006. Cap. 4, pp. 78-82
10 Cfr. MAHMOOD, RAISUL AWAL, Ibidem.
18
In alternativa, si può ricorrere all'emigrazione illegale, senza avere alcun contratto
di lavoro in mano. Il migrante ha ben poco potere contrattuale al momento
dell'arrivo nel paese ospite ed è perciò destinato a sopravvivere, nella maggior parte
dei casi, attraverso lavori precari e malpagati, magari facendo il venditore
ambulante o il lustrascarpe.
Anche in quest'ultimo tipo di migrazione intervengono gli intermediari e i
faccendieri locali, che hanno contatti in grado di mobilitare una rete di conoscenze
tale da consentire al migrante di arrivare a destinazione. Tali figure vengono
comunemente chiamate dalal.
Il costo della migrazione illegale è molto elevato, ma ad ogni modo più accessibile
rispetto a quella regolare. Ogni paese di destinazione ha una “tariffa” che varia a
seconda delle opportunità di guadagno e di inserimento che il paese stesso offre. A
seguito di alcune interviste
11
, sappiamo ad esempio che qualche anno fa Francia e
Germania costavano circa 15.000 euro, mentre pare che l'Italia sia una delle
destinazioni più 'economiche' dell'Europa Occidentale (dai 10 ai 12.000 euro).
1.4 Caratteristiche del migrante: la selezione in partenza
Se una famiglia composta da cinque-sette persone in Bangladesh vive con
60.000 taka ( all'incirca 1.000 euro) all'anno, la sproporzione tra il reddito medio
familiare e il costo di una migrazione è evidente. Per questo motivo la decisione di
migrare spetta non solo alla persona direttamente interessata, ma coinvolge
necessariamente tutto il nucleo familiare. Il migrante è un investimento e una
responsabilità condivisa da tutti, di cui tutti beneficeranno, in caso positivo, o di cui
tutti subiranno gli effetti negativi, nel caso qualcosa non dovesse funzionare. E' un
compito che interessa l'intera famiglia quello di procurare la somma necessaria per
mandare in porto la migrazione, e trattandosi di una somma molto elevata, in un
Paese in cui la maggior parte della popolazione vive in condizioni di indigenza, è
evidente che l'accesso alla migrazione è limitato a quella esigua, ma presente, classe
media/medio-alta di proprietari terrieri, imprenditori, piccoli commercianti o
11 Cfr. QUA TTROCCHI, PATRIZIA. Ibidem.